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In un tempo di crescente individualismo, è necessario riaffermare con forza che nel progetto di Dio il cristiano “solo” non esiste. È nello stare insieme, nella comunione, nel beneficio reciproco dei propri doni che “i santi” crescono verso “il perfezionamento” e verso “la statura perfetta di Cristo” (cfr. Ef 4:11-16).

Dopo averci convinto di peccato, di giustizia e di giudizio e dopo averci condotto alla conversione a Cristo, lo Spirito Santo ci trasforma in membri del corpo di Cristo, della Chiesa. Alla sua prima azione di convinzione-conversione segue la seconda di immissione-relazione. La seconda azione non è possibile senza la prima, ma, allo stesso tempo, è del tutto anormale, secondo il progetto divino, che alla prima non faccia seguito la seconda. Nel piano di Dio infatti non esistono persone convinte e convertite dallo Spirito Santo che non siano poi immesse nella chiesa e rese partecipi della sua vita e del suo cammino. Da soli non è possibile crescere. All’interno di ogni chiesa locale ognuno dei suoi membri mantiene la sua sfera personale di relazioni: nella famiglia, nel mondo del lavoro, nella società in cui vive. Questo lo porta ogni giorno a vivere fisicamente separato dagli altri, ma spiritualmente deve sentirsi in ogni momento unito. È evidente che per consolidare questa unità spirituale, è necessario, secondo modalità e cadenze localmente concordate, incontrarsi e stare insieme periodicamente: per studiare la Parola, per ricordare il sacrificio di Gesù, per pregare e per vivere la comunione fraterna, condividendo pesi e doni (At 2:42). I doni che Cristo ci ha elargito per lo Spirito devono essere coltivati individualmente, ma possono produrre l’obiettivo del “perfezionamento dei santi” soltanto se esercitati “per il bene comune”. Quindi il Signore desidera che io non sia solo per almeno due motivi: prima di tutto perché io possa beneficiare, per la mia crescita, dei doni che egli ha dato alla chiesa e, in secondo luogo, perché io possa rendermi utile alla crescita degli altri. Infatti “lo sviluppo del corpo” non dipende da uno o più membri in particolare, ma dalla “misura del vigore di ogni singola parte”.

Il venir meno all’incontrarsi, allo stare insieme, non è soltanto un danno per il cammino e per l’edificazione della chiesa locale, ma soprattutto per chi non mette a disposizione degli altri “la misura” del proprio “vigore”. L’autore della lettera agli Ebrei espresse la sua preoccupazione, nata dall’osservazione di una triste realtà già presente nelle chiese del primo secolo: “Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il gran giorno” (Eb 10:24-25).

Siamo chiamati ad esprimere concretamente preoccupazione gli uni per gli altri, a concentrare cioè la nostra attenzione e le nostre energie sui bisogni dei fratelli e delle sorelle che il Signore ci ha posto accanto nella chiesa locale. Si tratta di un comportamento essenziale per il benessere reciproco. Questa reciproca cura dei membri di una chiesa non potrà sicuramente realizzarsi se essi non si incontreranno e non trascorreranno regolarmente del tempo insieme per vivere la comunione fraterna, dono del loro Salvatore e Signore, incoraggiandosi ed esortandosi. Da qui un’energica esortazione: i membri di una chiesa locale non devono smettere di incontrarsi regolarmente. Smettere di frequentare gli incontri della chiesa non è una semplice dimenticanza, ma un colpevole abbandono. Se pensiamo che gli incontri della chiesa siano optional che ci vengono offerti, non abbiamo capito che amare significa preoccuparci di quello che possiamo dare ed offrire e non soltanto di quello che possiamo ricevere.