Del passato di Cornelio, prima del suo trasferimento dall’Italia in Palestina per guidare una centuria dell’esercito romano, non sappiamo nulla. Possiamo soltanto dedurre che il duro addestramento, cui venivano sottoposti i soldati romani, lo avesse reso fisicamente forte, pronto ad affrontare e a infliggere ogni forma di violenza. Come per tutti i soldati, la parola “pietà” era anche per lui del tutto sconosciuta. Lo immaginiamo, quindi, come un uomo duro e intransigente nel comandare i suoi cento soldati. Ma la realtà della sua vita, dopo il suo arrivo a Cesarea, smentisce totalmente l’immaginazione. Non un uomo duro e violento, ma “pio, giusto e timorato di Dio”; non un uomo senza pietà, ma un uomo che “faceva molte elemosine al popolo”; non un un uomo malvisto, ma un uomo “del quale rendeva buona testimonianza tutto il popolo dei Giudei”; non un uomo arrogante e pieno di sé, ma un uomo che “pregava Dio assiduamente”.
La conoscenza della fede degli Ebrei aveva trasformato la sua vita. Il popolo che avrebbe dovuto tenere sottomesso, controllandone ed eventualmente soffocandone ogni anelito di libertà, aveva avuto un tale impatto su di lui tanto diventato una brava persona: uomo religiosamente devoto, uomo giusto che osservava la legge divina, uomo misericordioso verso gli altri, pronto a soccorrere con le sue elemosine chi vedeva nel bisogno, dedito in modo assiduo e non saltuario e occasionale alla preghiera; uomo di cui gli altri non potevano che dire bene.
La sua descrizione corrisponde a quella di tante persone oggi: cercano di ubbidire ai comandamenti, vivono quotidianamente la loro devozione a Dio, sono impegnate nel fare opere buone, pregano ogni giorno, sono benviste e benvolute dagli altri. Chi più di loro, secondo il comune modo religioso di pensare, meriterebbe di andare in paradiso?
Ma, fra tutto questo “pieno” di preghiere, di devozione, di buone opere, c’era un vuoto nella vita del centurione: lo stesso vuoto oggi presente nella vita di tante persone religiosamente piene.
Se non ci fosse stato questo vuoto, se il destino eterno di Cornelio fosse già stato determinato dal suo stile di vita e dalle sue elemosine, perché mai Dio avrebbe scomodato Pietro, ordinandogli di andare da Ioppe a Cesarea? Perché mai costringerlo a un viaggio di oltre sessanta chilometri, certo non agevole a quei tempi?
Dio aveva visto la buona disposizione del cuore di Cornelio: le sue preghiere e le sue elemosine erano salite davanti a lui “come una ricordanza”, cioè Dio le aveva viste a tenute in debito conto. Soprattutto Dio aveva “esaudito la sua preghiera” (At 10:31). Non sappiamo a quale preghiera facesse riferimento, ma non è fuori luogo intuire che Cornelio avesse espresso il desiderio di conoscere quale fosse la via giusta per vivere un’eternità di pace con Dio. Così, all’arrivo di Pietro, si dispose ad ascoltare la risposta divina alla sua preghiera: “Siamo tutti qui presenti davanti a Dio per ascoltare tutto ciò che ti è stato comandato dal Signore” (At 10:33). Nel suo messaggio Pietro iniziò rivelando che “in qualunque nazione chi teme Dio e opera giustamente gli è gradito”. Certamente: Dio gradisce chi si impegna a comportarsi giustamente, seguendo i principi morali fondati sulla conoscenza del bene e da lui stesso impressi nella coscienza di ciascuno di noi. Ma questo non basta! Infatti Pietro, dopo aver raccontato gli episodi salienti della vita di Gesù, così concluse: “Chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome” (At 10:43). Cornelio scoprì di essere, sì, gradito a Dio, ma di non essere ancora perdonato, perché il perdono non si ottiene con le buone opere e le preghiere, ma soltanto credendo in Gesù. Fu attraverso la fede in Cristo che realizzò nella sua vita il passaggio dall’essere gradito all’essere perdonato. È lo stesso passaggio che, ancora oggi, tante pur “brave” persone hanno bisogno di conoscere!