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Qualche giorno fa ho ascoltato la testimonianza di una persona che, nel corso di una trasmissione radiofonica, rivelava la convinzione di aver raggiunto la pace interiore dopo essere riuscita ad “autoperdonarsi” per i peccati commessi durante la sua vita. “AUTO” è il primo elemento linguistico presente in tante parole composte, nelle quali viene utilizzato come una sorta di prefisso e che significa “da sé stesso”. Oggi va molto di moda il corrispondente inglese “self”! Queste parole sono davvero tante: nel dizionario Devoto-Oli occupano sei pagine, da “autoaccensione” ad “autovibrazione”. Ma, in questo lungo elenco, “autoperdono” non compare: si tratta evidentemente di una parola introdotta di recente nella nostra lingua. Oggi c’è chi pensa che, davanti a colpe o errori commessi, sia possibile perdonarsi da sé! C’è chi riconosce di aver commesso un errore o di essere in colpa e cerca di orientare i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue emozioni in modo da poter trovare in sé stesso una giustificazione plausibile a quanto accaduto per potersi accordare il proprio autoperdono. In sostanza il colpevole non si dichiara innocente, anzi riconosce la sua colpa, ma la giustifica, compiendo un’operazione giuridicamente improponibile, quella di diventare giudice di sé stesso per emettere una sentenza di autoassoluzione davanti alle proprie colpe.

La testimonianza cui faccio riferimento è stata raccontata durante il programma della più nota emittente radiofonica cattolica presente in Italia; il conduttore non ha fatto una piega: nessun commento. Dovremmo forse pensare che presto i sacerdoti cattolici non concluderanno la confessione auricolare con la nota formula: “Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti” (“Io assolvo te dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”), ma si limiteranno ad ascoltare il confessante che dichiara: “Ego me absolvo a peccatis meis in nomine meo”, cioè: “Io mi assolvo dai miei peccati nel mio nome”?!? In pratica: “L’autorità che dirige la mia vita sono io… sono io che riconosco i miei errori e sono sempre io che applico ad essi il mio perdono”! Ma nessuno di noi ha l’autorità giuridica e morale per autoperdonarsi. In questa prospettiva hanno fatto discutere le parole dell’ex-presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che, nei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, ha dichiarato di avere “il diritto del self-pardon”: il diritto di perdonare sé stesso e di concedere a sé stesso la grazia per i reati che gli venivano contestati: un goffo tentativo di abuso di potere e un vero e proprio delirio di onnipotenza.

L’autoperdono esprime una improponibile commistione fra umiltà e orgoglio: umiltà nel riconoscere i propri errori e orgoglio nell’avere la presunzione di poterli perdonare da sé.

Ricordiamo che un giorno “alcuni scribi” contestarono il perdono dei peccati concesso da Gesù a un paralitico che quattro amici avevano portato ai suoi piedi: “Chi può perdonare i peccati, se non uno solo, cioè Dio?”. Era una domanda scaturita dalla convinzione che solo chi ha l’autorità per giudicare può anche perdonare e fu proprio questo ruolo di Giudice che Gesù dichiarò di avere, affermando che “il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati” (Mr 2:7, 9). Chi afferma di autoperdonarsi usurpa un potere che non gli appartiene, un potere che appartiene solo a Dio e, di conseguenza, compie un atto giuridicamente illegittimo, frutto della scelta di escludere Dio dalla valutazione delle proprie colpe nell’illusione di potersi sottrarre al suo giudizio. In nessun contesto giuridico umano è consentito al colpevole di valutare la gravità delle proprie colpe e di stabilire da sé l’entità della pena. Solo il perdono scaturito da un atto di grazia dell’unica autorità legittimata a concederlo, può portarci a godere la vera pace. “Beato” è infatti soltanto “l’uomo a cui la trasgressione è perdonata” e “a cui il Signore non imputa l’iniquità” (Sl 32:1-2).