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“Festeggerò quando un presidente del consiglio dirà: – Mi sono sbagliato!”. Mi hanno colpito queste parole, perché pronunziate qualche settimana fa da un esperto politologo, chiamato a commentare in uno dei tanti dibattiti televisivi le promesse non mantenute dall’attuale capo del governo, del resto in sintonia con gran parte dei suoi predecessori. La difficoltà di riconoscere i propri errori, l’indisponibilità a ravvedersi e a farlo, quando necessario, pubblicamente non è certo un difetto specifico delle autorità politiche, è un difetto insito nella natura di ciascuno di noi. E allora mi sono tornate in mente le esortazioni di Gesù, più volte ripetute ai cristiani membri delle chiese dell’Asia minore (Efeso, Pergamo, Tiatiri, Sardi e Laodicea), per indicare loro l’unica strada da percorrere per rimuovere i peccati che impedivano il loro progresso spirituale: “RAVVEDITI!”, cioè “Abbiate il coraggio di riconoscere che state sbagliando!” (Ap 2:5, 16, 21; 3:3, 19).

Ma in cosa consiste il ravvedimento richiesto a chi ha già vissuto, al momento della conversione a Cristo, l’esperienza del ravvedimento? È evidente che il ravvedimento richiesto a chi è già discepolo di Cristo è ben diverso da quello richiesto a chi non lo è ancora. Mentre il primo ha lo scopo di ripristinare un rapporto di comunione già esistente ma interrotto, il secondo ravvedimento ha lo scopo di conoscere in Cristo una comunione con Dio mai vissuta prima.

Ravvedersi come discepoli di Cristo significa mettere in ordine la propria vita, dopo aver confessato il disordine che la stava caratterizzando, vuol dire impegnarsi a imporre alla propria vita una disciplina vera e duratura di sottomissione e di fedeltà alla Parola del Signore. L’opera seduttrice di Satana è sempre annullata là dove vi sono dei cuori spezzati da un sincero pentimento, dei cuori che si impegnano seriamente e onestamente a non peccare più. Il ravvedimento, quindi, non è esperienza limitata alla conversione, perché Gesù ci chiede di viverla anche quando, come suoi discepoli, veniamo meno alla sottomissione a lui e alla sua Parola. In questa prospettiva è interessante la promessa rivolta da Dio al re Salomone: “Se il mio popolo, sul quale è invocato il mio nome, si umilia, prega, cerca la mia faccia e si converte dalle sue vie malvagie, io lo esaudirò dal cielo, gli perdonerò i suoi peccati e guarirò il suo paese” (2Cr 7:14). Si tratta di un ravvedimento certamente diverso, ma quanto mai necessario e talvolta anche urgente per evitare che la permanenza nel peccato crei danni ulteriori.

Certo, è il credente che pecca a essere direttamente responsabile del suo peccato, ma il suo comportamento coinvolge la chiesa locale di cui è membro che, di conseguenza, deve riflettere e agire. Nei casi sopra ricordati, è tutta la chiesa chiamata dal Signore a ravvedersi, mostrando in questo modo di essere sensibile e consapevole per il peccato che, al suo interno, ostacola e inquina il suo cammino. Non può esserci pace né crescita, nel corpo di Cristo, se al suo interno ci sono membra che continuano a vivere nel peccato. Perciò non è soltanto per il bene individuale, ma anche per il “bene comune” che abbiamo bisogno di ravvederci, quando, dopo essere nati di nuovo, si torna a riprendere o a vivere esperienze che avevamo lasciato.

Ogni peccato commesso interrompe la comunione col Signore fino a che non sia stato confessato e perdonato. L’esortazione al ravvedimento ci ricorda l’amore e la pazienza di Gesù nei nostri confronti. Egli non interviene subito, ci avverte, penetra nella nostra vita con la spada della sua Parola, “vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla” perché da essa lasciamo giudicare “i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4:12). Ci lascia del tempo, ma festeggerà soltanto quando ci vedrà tornare ai piedi della Croce e ci sentirà dire: “Ho peccato; mi sono sbagliato: perdonami!”.