Tempo di lettura: 6 minuti

Il Dio della pazienza e della consolazione


Lo sconforto è definito dal dizionario della lingua italiana come

“uno stato di avvilimento e abbattimento morale, di depressione, di scoraggiamento”.

È una malattia in crescita esponenziale che assale donne, uomini, giovani, anziani e può distruggere una famiglia. Alcuni l’hanno definito il “male oscuro”, altri la “malattia del nostro tempo”, ma lo sconforto è antico come il mondo. Dopo il peccato dei nostri primi genitori, gli uomini vennero a trovarsi sotto il malvagio dominio di Satana. Adamo ed Eva, espulsi dall’Eden, dovettero usare tutte le loro energie per trarre il cibo da un suolo che era stato maledetto e i loro discendenti, avendo ereditato questa condizione di peccato e di morte, si trovarono ad avere grande bisogno di conforto (Ro 5:12). Nel condannare chi aveva istigato l’uomo, Dio dimostrò di essere il Dio che dà conforto: “Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di aver tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (Ro 15:5-6).

Lo sconforto è comune a tutti gli esseri umani, almeno in una certa misura ma, per alcuni, è così forte che la morte sembra preferibile alla vita e la Bibbia conferma che anche fedeli servitori di Dio non sono stati immuni da problemi e pressioni che causano sconforto. Ad esempio Elia e Giobbe avevano entrambi una buona relazione con Dio: il primo, dopo esser fuggito per mettersi in salvo dalla malvagia Izebel, espresse il desiderio di morire “Basta! Prendi la mia vita, o Signore, perché io non valgo più dei miei padri!” (1Re 19:4); il secondo ebbe una serie di tragedie, fra cui una malattia ripugnante e la morte di dieci figli e per lo sconforto fu spinto a dire “Io preferisco soffocare, a queste mie ossa preferisco la morte” (Gb 7:15). Chiaramente l’ansia di questi fedeli uomini di Dio era diventata molto forte. Oggi, per alcuni, lo sconforto potrebbe derivare dalla vecchiaia, dalla malattia, dalla morte di un coniuge o da gravi difficoltà finanziarie, per altri le cause potrebbero essere inesorabile stress, persistenti conseguenze di un’esperienza traumatica o di problemi familiari che danno l’impressione di “battersi” in alto mare, dove ogni onda rende più difficile raggiungere la riva. Un giorno, un caro amico mi disse “Mi sento inutile, penso che nessuno sentirà la mia mancanza quando non ci sarò più. Il senso di solitudine a volte è insopportabile”.

Dio aveva la capacità e il potere di sostenere Elia e Giobbe nelle loro difficoltà e oggi, che dire se la situazione in cui ci troviamo non cambierà? Chi ci può aiutare a far fronte allo sconforto?

Uno c’è: “il Dio della pazienza e della consolazione”!

 “Dio è per noi un rifugio e una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà” (Sl 46:1).

 ✴ “Getta sul Signore il tuo affanno, ed Egli ti sosterrà; egli non permetterà mai che il giusto vacilli” (Sl 55:22).

Com’è confortante questa consapevolezza per noi oggi! Per quanto si possa essere presi dallo sconforto, il Signore promette che ci sosterrà con la destra della sua giustizia (Is 41:10).

La delusione di Elia (1Re 19:1-18)

Subito dopo il trionfo sui profeti di Baal, Elia, minacciato di morte da Izebel, si adirò, si sentì un fallito come profeta di Dio perché, nonostante il grande impegno, non aveva raggiunto i risultati attesi e si nascose, allora, in una grotta alla ricerca di un protettivo grembo materno. Molto bello è il dialogo: Elia presentò a Dio il suo “curriculum” di profeta che lo aveva fedelmente servito. Dio però lo sorprese: infatti rivelò la sua presenza con un suono dolce e sommesso e non nel vento forte, impetuoso, nel terremoto o nel fuoco: gli chiese di aver fiducia, di considerare che lui, Elia, non era l’unico rimastogli fedele perché molti altri non avevano piegato le loro ginocchia davanti agli idoli e lo invitò a riprendere il cammino di ritorno non più da solo ma con un compagno, Eliseo. Questo racconto ci fa comprendere come Dio continui ad operare nel cuore di coloro che hanno fiducia in lui, anche in momenti di totale sconforto.

Il lamento di Giobbe

Giobbe è stato un fedele credente che sapeva che Dio è giusto e buono, ma partendo proprio dalla conoscenza delle caratteristiche di Dio, si pose una domanda. “Perché all’uomo è toccata un’esistenza così faticosa e perché la sofferenza è la compagna inseparabile dei suoi giorni?”. Nel libro di Giobbe ci sono tre tentativi di spiegazione.

Del primo tentativo furono portavoce gli amici di Giobbe che rappresentano una mentalità diffusa secondo la quale la sofferenza è conseguenza del peccato e Dio, che è giusto, non può permettere che un uomo soffra senza colpa, quindi in pratica ognuno ha ciò che si merita. È, questa, un’opinione che ritroviamo molto più tardi sulla bocca degli stessi discepoli di Gesù i quali, di fronte al cieco nato, chiesero: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9:2): è un modo sbagliato di vedere le cose che la Bibbia condanna severamente. Davanti alle sofferenze di Giobbe, gli amici non cercarono di capire, avevano già le risposte immediate che Giobbe, con amarezza e ironia, definì “massime di cenere” (Gb 13:12) e “inventori di menzogne” (Gb 13:4).

Il secondo tentativo di spiegazione è che la sofferenza è una prova, non una punizione. Il libro di Giobbe si apre appunto con questa tesi: la malattia è inviata al giusto come una prova per saggiare la fede, per purificarlo perché è nella sofferenza che si vede se cerchiamo Dio o noi stessi, se lo serviamo per interesse o per amore. Giobbe uscì vittorioso dalla prova, aveva perduto i figli, i beni, la sua stessa salute, ma il suo attaccamento a Dio non venne meno: “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra, il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1:21). Anche questa spiegazione (che pure contiene verità) non risolve il mistero, ne lascia anzi intatto il nocciolo fondamentale ed ecco perché Giobbe ad un certo punto non fu più l’uomo paziente e rassegnato, ma l’uomo in crisi che si scontrò con il mistero di Dio il quale dice di amarci ma che poi sembra smentire il suo amore.

Finalmente Giobbe comprese che la sofferenza non smentisce l’amore di Dio, però ne rivela il volto misterioso e sconcertante ed è soltanto quando ci s’imbatte in questa triste realtà che si può affermare di aver incontrato il vero Dio: “Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Gb 42:5). La sofferenza non è soltanto una situazione che mette alla prova il nostro coraggio, ma è soprattutto una condizione di rivelazione da parte di Dio atta a purificare la nostra concezione di lui: è con questo senso profondo che il “sofferente” comprende il mistero dell’Amore di Dio. In quest’ottica, di fronte alla sofferenza, c’è posto soltanto per il silenzio, la condivisione, la partecipazione profonda e non per le spiegazioni scontate, per le risposte già pronte. Alla fine, Giobbe si ravvide, si umiliò davanti a Dio il quale lo dichiarò giusto e gli donò benedizioni incalcolabili (Gb 42:1-17). L’umanità sarebbe più povera senza il racconto della vita di Giobbe, il giusto sofferente.

Gesù guarì molti ammalati che “soffrivano di diverse malattie” (Mr 1:34), a significare dunque che la malattia non rientra nel piano originario di Dio e, infatti, sparirà, unitamente a tutte le altre forme di dolore, con l’avvento del suo regno. Dobbiamo sempre ricordare che Gesù ha condiviso personalmente la sofferenza umana con l’oscurità e l’abbandono che essa comporta. Gesù, morendo sulla croce, pronunciò la frase dell’antico Giobbe: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. L’ultima risposta è la risurrezione (Gb 19:25-27).

La più grande consolazione: Gesù sta per tornare!

 Il bisogno di conforto aumenta sempre di più. Dopo la prima guerra mondiale il genere umano è andato incontro a una crisi dopo l’altra: guerre, criminalità, catastrofi naturali, spesso dovuti alla cattiva gestione delle risorse della terra. Ci domandiamo perché tante sofferenze ora nella nostra epoca, ma non dimentichiamo che il Signore misura il tempo in modo ben diverso da noi: “Per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno” (2P 3:8).

Benché non abbia rivelato la data del suo ritorno per rapire la Chiesa e quella per giudicare il mondo, egli ha indicato diversi segni che permettono di riconoscerne l’imminenza. Disprezzarli significa comportarsi come i Giudei del suo tempo che sapevano distinguere bene i segni meteorologici del bello e del brutto tempo ma non sapevano riconoscere i segni dei tempi della sua venuta, nonostante il compimento di diverse profezie, accompagnate da grandi avvenimenti miracolosi (Lu 12:54-59). Dio dà, ancora oggi, numerosi segni del ritorno di Cristo che solo la cecità del nostro cuore impedisce di leggere e chiama “ipocriti” coloro che rifiutano tali segni (Lu 12:56).

L’adempimento di molti di questi ci fa comprendere che il ritorno di Cristo si sta avvicinando a grandi passi e che Satana, sapendo di avere ormai poco tempo, scende verso di noi con “gran furore” (Ap 12:12). L’attuale situazione s’inasprirà ancor più nel prossimo futuro ed è ben poca cosa a paragone delle calamità che devono precedere la venuta di Gesù: “Tutto questo non sarà che un principio di dolori” (Mt 24:8) come le doglie del parto che aumentano di intensità man mano che si avvicina l’ora del parto. I giudizi di Dio diventeranno sempre più severi: il Signore esorta i credenti a non scoraggiarsi, a non essere turbati perché, anche se è decretato che tutto ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine (Mt 24:6). Egli proibisce ai suoi discepoli di vivere nell’ansietà, assicurandoli che i terribili avvenimenti loro preannunciati non saranno seguiti immediatamente dalla catastrofe finale, ma gradualmente la prepareranno. Gesù ha fatto una meravigliosa promessa: “Vegliate dunque, pregando in ogni momento, affinché siate in grado di scampare a tutte queste cose che stanno per venire e comparire davanti al figlio dell’uomo” (Lu 21:36).

Nell’attesa benediciamo il “Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione” (2Co 1:3-4).