Tempo di lettura: 3 minuti

Circa duemila anni fa, a Filippi, dei “padroni”, non meglio identificati, di una “serva posseduta da una spirito di divinazione” (At 16:16 e segg.), videro svanire il guadagno che ottenevano dalle sue prestazioni, perché Paolo, vedendo in lei un ostacolo alla sua opera di evangelizzazione, aveva ordinato a quello spirito di lasciarla. Quei “padroni” non persero tempo: “presero Paolo e Sila e li trascinarono sulla piazza davanti alle autorità”. Nel prendere la parola davanti ai pretori, nascosero il motivo per il quale avevano trascinato Paolo e Sila davanti a loro. Non fecero alcun cenno né alla liberazione della loro serva né tanto meno alla fine del loro guadagno. Non erano degli sprovveduti e mascherarono abilmente i loro interessi personali. Così, per andare sul sicuro, tirarono fuori un capo d’accusa, falso ma capace di impressionare le persone presenti: “Questi uomini turbano la nostra città”. Evidentemente i temi dell’ordine, della sicurezza e del benessere pubblico sono da sempre i più opportuni per ammaliare le folle e nascondere il desiderio di proteggere il proprio benessere personale. Per sostenere quest’accusa e convincere i pretori ad esprimere un giudizio di condanna, “i padroni” fecero poi leva su sentimenti nazionalistici o, come diremmo oggi, “sovranisti”: “Questi uomini sono Giudei” – e lo sottolineano con un senso di evidente disprezzo. Poi invitano a ricordare con evidente senso di orgoglio la loro romanità (“Noi siamo Romani”!!). Era verso i cittadini romani che i giudici erano tenuti ad avere un occhio di riguardo, non certo verso gli stranieri. In fondo il principio della superiorità della propria razza non è una novità del secolo scorso e il sospetto, la paura, la discriminazione verso chi è straniero sono sentimenti e atteggiamenti vecchi come il mondo. I padroni della serva si comportano come quei mass-media che nella cronaca di un atto delittuoso, quando il delitto è compiuto da uno straniero, è la prima notizia da riferire e da mettere in evidenza. Quel “loro sono Giudei e ci turbano, ma noi siamo Romani e ci teniamo all’ordine” è un messaggio presente nel linguaggio e negli slogans ancora oggi (“noi siamo Italiani e non vogliamo stranieri a turbare la nostra sicurezza e il nostro ordine”). Poi quei “padroni” rivelano un secondo capo d’accusa. Richiamandosi alle proprie radici religiose ed alla legge romana che vietava l’introduzione di nuove religioni denunciano: “Predicano riti che a noi non è lecito accettare né praticare”? I Romani tolleravano che le popolazioni residenti nei territori conquistati dall’Impero conservassero le loro pratiche religiose a patto ovviamente che queste non costituissero un pericolo per la stabilità dell’Impero stesso. Quindi quella concessa era una libertà limitata! “Noi abbiamo i nostri riti, i nostri simboli – denunciano i padroni della serva davanti ai pretori – non possiamo accettare né tantomeno praticare riti e simboli diversi”. Un ragionamento simile si è levato da diverse parti in questi anni. È davvero triste constatare che chi invoca la libertà religiosa per sé poi vorrebbe limitarla agli altri. Così si va diffondendo una sorta di islamofobia, adducendo come giustificazione la persecuzione in atto contro i cristiani nei Paesi musulmani, ma non possiamo usare una pur drammatica realtà per esprimere sentimenti di vendicativa ritorsione, che dovrebbero essere totalmente estranei a chi dichiara di essere discepolo di Cristo. I “padroni della serva” riuscirono ad eccitare la folla che “insorse” contro Paolo e Sila e, come la storia da sempre ci insegna, una folla eccitata reagisce sulla base delle sensazioni, delle emozioni, dei sentimenti e non della ragione e della giustizia. Le spalle piagate di Paolo e Sila sono là a ricordarci quanto sia breve il passaggio dall’eccitazione dei gesti e del linguaggio alla violenza fisica. Che il Signore ci dia la saggezza necessaria per non diventare complici della folla (oggi non più radunata sulla piazza di Filippi, ma soprattutto sui social, Facebook in testa!) e per mantenere ferma la nostra identità non di “italiani” né di “cristiani” di nome, ma di donne e di uomini che non ragionano con la mente di destra o di sinistra, ma soltanto con “la mente di Cristo” (1Co 2:16).