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Spesso gli esempi di vita hanno su di noi una presa maggiore rispetto agli insegnamenti con­ cettuali.

Ognuno di noi ha intorno a sé o nella propria memoria degli esempi del presente o del pas­ sato costituiti dai comportamenti di persone che hanno onorato Dio.

La Bibbia è piena di esempi: non potremmo immaginare la Scrittura se in essa mancassero le vicende di vita di uomini e donne come noi che, presenti nel testo ispirato, ci fanno senti­ re quanto l’insegnamento biblico ci sia vicino e lo dimostrano concreto, realistico e appro­ priato.

Così, analizzeremo brevemente le figure di alcuni uomini e donne di cui la Scrittura ci rive­ la l’impegno nel lavoro e le esperienze che han­ no fatto.

In questo articolo analizzeremo i primi due di una decina che passeremo in rassegna.

GIUSEPPE: affidabilità e purezza

L’esempio di fedeltà a Dio di Giuseppe è così chiaro e significativo che spesso raccontiamo la sua storia ai nostri bambini.

Ma oltre ad essere una bella storia con lieto fine e ad essere, Giuseppe, una figura di Gesù, pos­ siamo guardare ad alcune notizie della sua vita che lo fotografano mentre è al lavoro. Questi

aspetti della sua vita contengono delle lezioni molto efficaci.

Venduto dai suoi fratelli, Giuseppe arriva in Egitto e viene comprato al mercato degli schia­

vi. Il suo padrone è un certo Potifar, uomo benestante che doveva avere una residenza molto grande la cui cura impegnava probabil­ mente una folta schiera di servi e serve.

Qui Giuseppe si mette subito al lavoro onoran­ do gli impegni affidatigli (Ge 39:1­6).

Certamente non sarà stato facile trovarsi in un paese straniero, da solo, strappato brutalmen­ te al proprio padre nientemeno che dai suoi fra­ telli.

Tuttavia Giuseppe sembra non essere pieno dei rancori che noi ci aspetteremmo di vedere in lui, e che, in casi simili, si riversano su ogni nuo­ va occupazione che si incontra.

Giuseppe si dedica con ogni cura ed impegno al suo lavoro, seppure avuto a causa delle enormi ingiustizie subite.

“A lui riusciva bene ogni cosa… il Signore gli face­ va prosperare nelle mani tutto ciò che intrapren­ deva… il Signore benedisse la casa dell’Egiziano per amore di Giuseppe… Potifar lasciò tutto quel­ lo che aveva nelle mani di Giuseppe…” (Ge 39:2, 3, 5, 6).

Queste espressioni evidenziano l’assoluta affi­ dabilità di Giuseppe, che ottenne un ruolo di

prestigio come responsabile delle proprietà di Potifar.

E tutto ciò a cui Giuseppe metteva mano aveva la benedizione di Dio di cui, di riflesso, godeva anche il suo padrone egiziano.

Quindi, vediamo in Giuseppe non soltanto affi­ dabilità ma anche efficienza e prosperità.

Il testo aggiunge poi dove risiedeva il segreto di Giuseppe:

“Il Signore era con Giuseppe” (Ge 39:2, 3).

Lo stesso viene detto quando Giuseppe si ritro­ va in prigione:

“E il Signore fu con Giuseppe” (Ge 39:21, 23). Queste dichiarazioni del libro della Genesi non passeranno inosservate neppure da Stefano che, parlando di lui, ricorda come “Dio era con lui, e lo liberò da ogni sua tribolazione” (At 7:9).

Il fatto che si ricordi tante volte questo pensie­ ro, significa che era evidente che Dio era con Giuseppe. La presenza di Dio al fianco di Giu­ seppe si notava, niente la oscurava o la ostaco­ lava.

Quando gli altri osservavano l’agire di Giuseppe vedevano l’evidenza della mano di Dio all’ope­ ra, e i risultati lo dimostravano.

Tutto faceva capire che con Giuseppe c’era qualcosa di più dell’intraprendenza e dell’intel­ ligenza, dell’abilità e della perseveranza: c’era Dio! Da lui veniva sprigionata una potenza spiri­ tuale che poteva essere avvertita nel suo rag­ gio d’azione.

Mi chiedo che cosa vedono gli altri in me.

La presenza di Dio nella mia vita è evidente oppure è messa in un angolo, adombrata e impedita?

Il Signore è sempre con noi, tutti i giorni, secon­ do la sua promessa (Mt 28:20), ed è in noi gra­ zie alla presenza dello Spirito Santo di cui il nostro corpo è diventato tempio (1Co 6:19).

Avere questa presenza con noi e in noi non significa necessariamente vedere le nostre atti­ vità andare sempre “a gonfie vele”.

Le crisi economiche possono condizionare anche le attività di proprietà dei credenti o presso le quali essi lavorano. Però un credente che lascia a Dio la possibilità di manifestarsi in lui, porterà sempre del bene sul suo posto di lavoro, ai suoi titolari, ai suoi colleghi, a chiun­ que incontri.

E senza dubbio Dio ci vuole rendere dei lavora­ tori fedeli, affidabili ed efficienti, come lo era Giuseppe.

Tutto questo non per il nostro orgoglio, la nostra caparbietà o la nostra indole, ma piutto­ sto per il semplice fatto che Dio è con noi. A noi sta di non coprire questa Presenza con la nostra carne.

Ma per Giuseppe l’essere arrivato al grado più alto tra i servitori di Potifar non volle dire esse­ re esente da problemi.

E il suo problema più grande non fu il lavoro in sé, come svolgerlo o altro, bensì qualcuno che doveva incontrare ogni giorno mentre era lì, sul posto di lavoro.

Il suo problema più grande fu la moglie di Poti­ far, e le avances con cui tutti i giorni lo tentava affinché si unisse a lei (Ge 39:7­20).

Non sembra la scena di una qualsiasi fiction televisiva del nostro tempo?

Quanto è attuale, sempre attuale la Parola di Dio! È utile, appropriata in ogni sua pagina, anche in pagine come questa che non tacciono le tentazioni incontrate dagli uomini di Dio del passato, mostrandoci, attraverso le loro vitto­ rie, la giusta strada da percorrere.

Gli ambienti di lavoro sono il luogo dove si pre­ sentano più di frequente le tentazioni di natu­ ra sentimentale e sessuale. Riporto questo bre­ ve ma significativo stralcio:

“In Italia le relazioni extraconiugali si consumano soprattutto sul posto di lavoro. Il nostro Paese detiene il record di tradimenti avvenuti proprio con i colleghi e laddove si dovrebbe pensare a tutto tranne che al sesso.

Lo rivela l’Associazione Avvocati Matrimonialisti

Italiani (Ami), secondo i quali sono proprio le infedeltà coniugali a scatenare le crisi di coppia, quasi nella metà dei casi.

Sempre più spesso tra colleghi si instaurano vere e proprie relazioni che vanno oltre il classico rap­ porto di lavoro, e a volte le infedeltà durano anche svariati anni, spesso a insaputa del part­ ner. Incredibili i dati: sei tradimenti su dieci si consumano proprio in ufficio.

Gli italiani si ritrovano dunque ad avere vere e proprie vite parallele: a casa, con il coniuge, si comportano in un certo modo, mentre sul luogo di lavoro hanno ben altri atteggiamenti. Non a caso, le indagini degli investigatori privati che ini­ ziano a cercare prove di eventuali tradimenti par­ tono sempre, come prima opzione, dal flirt sul posto di lavoro”.

Se vogliamo essere fedeli, a Dio ma anche al nostro coniuge, dobbiamo vigilare seriamente sulle possibili occasioni di caduta.

“Perciò, chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Co10:12).

Quale fu la strategia di Giuseppe?

Giuseppe aveva anzitutto una forte coscienza del bene e del male:

“Come dunque potrei fare questo gran male e peccare contro Dio?” (Ge 39:9).

Questa convinzione lo portò a rifiutare le pro­ poste di quella donna.

Generalmente si ricorda l’ultima di quelle pro­ poste, ma prima di quella ce ne furono tante altre la cui frequenza arrivò ad essere quotidia­ na (Ge 39:10).

Era una situazione facile per Giuseppe?

Certo che no, ma lui rimase fermo, ed è istrutti­ vo leggere che “Giuseppe non acconsentì a unir­ si né a stare con lei”. Questo vuol dire che Giu­ seppe evitò sempre di trovarsi da solo con quel­ la donna, o di appartarsi con lei.

È sempre “da cosa che nasce cosa”, per cui la saggezza sta nell’evitare di prendere confiden­ za con colleghi, titolari o dipendenti dell’altro sesso che, poco alla volta, potrebbe poi farci trovare “in trappola”.

Si inizia con l’amicizia, le confidenze, i caffè insieme, gli aperitivi… magari per giustificarci pensiamo addirittura che dobbiamo favorire situazioni del genere perché ci permetteranno di testimoniare la nostra fede…

Giuseppe non si fece ingannare: vide subito il pericolo ed evitò di avvicinarsi tragicamente ad esso.

E quando la tentazione fu improvvisa e sfaccia­ ta, scelse la sola strada possibile per salvarsi: fuggire.

Notiamo che anche in altre parti della Scrittura la fuga ci viene indicata come la sola soluzione possibile per non cedere alla tentazione ses­ suale (Pr 5:5­8; 1Co 6:18; 2Ti 2:22).

Potrebbe accadere di trovarci assaliti dalla stes­ sa tentazione di Giuseppe, da dover anche noi fuggire.

Certo, non sarebbe facile. Ma se fosse necessa­ rio, la fedeltà a Dio e, se siamo sposati, anche al nostro coniuge, potrebbero richiedere perfino di lasciare quel posto di lavoro.

Senz’altro il nostro nemico sarebbe pronto a sussurrarci: “Ma stai scherzando? Lasciare un lavoro sicuro per una simile banalità? E poi stai tranquillo, sei abbastanza forte per resistere… e se anche fosse non lo saprà mai nessuno…”.

L’esempio di Giuseppe è lì a metterci in guar­ dia, perché la nostra vita spirituale, il nostro matrimonio e la nostra famiglia valgono molto più di qualsiasi occupazione lavorativa.

Se non sei sposato, non pensare che il pericolo sia meno grave perché ci sarebbero meno per­ sone coinvolte nel caso di un tuo eventuale cedimento alla tentazione sessuale.

La tua vita potrebbe prendere una piega tale da ritrovarti “ferito a morte” (Pr 7:26), cioè in modo da non farti riprendere e non tornare mai più come prima! Perciò non essere “sciocco” e “privo di senno” (Pr 7:7)!

Per gli uni e per gli altri, come dimostra il segui­ to della storia di Giuseppe, Dio non mancherà di

onorare quelli che lo onorano pagando il prez­ zo di scelte di fedeltà, a volte molto costose.

MOSÈ: il lavoro come formazione

Quando Mosè arrivò ai quarant’anni fece una scelta molto impegnativa, che decretò una svolta irreversibile per la sua vita. Oltre al testo dell’Esodo, per capire come andarono le cose possiamo esaminare i brani di Atti 7:20­38 e Ebrei 11:23­28.

Mosè era figlio di Ebrei, ma “adottato” dalla figlia del faraone a seguito del suo abbandono obbligato nel fiume per salvarlo da sicura mor­ te, in ottemperanza all’ordine empio del farao­ ne. A parte il periodo nel quale poté essere accudito dalla madre naturale, quindi nella sua famiglia di origine, Mosè divenne adulto alla corte del re d’Egitto (Es 2:7­10) e, in quell’am­ biente, “fu istruito in tutta la sapienza degli Egi­ ziani e divenne potente in parole e opere” (At 7:22). Eppure in Mosè c’era un cuore che batte­ va per il suo popolo, ed il benessere e la fama ottenuti grazie sua posizione altolocata non potevano spegnere questo ardore.

Da una parte c’era il benessere dell’Egitto, dal­ l’altra il suo popolo maltrattato ed umiliato. Mosè non fece compromessi: scelse di stare dalla parte del suo popolo.

Scese a trovare i suoi fratelli ebrei e appena vide uno di loro maltrattato da un egiziano, pre­ se le sue difese ed uccise l’aggressore. Questo fatto, che divenne noto, provocò due reazioni: da un lato, la diffidenza degli Ebrei nei confron­ ti di uno come Mosè che fino a poco prima era ufficialmente schierato dalla parte del faraone e quindi non era visto di buon occhio; dall’altro lato, ci fu l’ira del faraone che “cercò di uccidere Mosè” (Es 2:11­15).

Tuttavia la vicenda dell’egiziano ucciso da Mosè non deve essere vista come un fatto casuale ed isolato. Infatti Mosè già “pensava che i suoi fra­

telli avrebbero capito che Dio voleva salvarli per mano di lui” (At 7:25).

Ciò significa che egli stava già meditando di mettersi alla testa di Israele per ribellarsi al faraone. Invece, questo fatto costrinse Mosè alla fuga ed alla lontananza dal suo popolo e dall’Egitto per ben quarant’anni (At 7:30).

Questo secondo periodo della vita di Mosè è quello di cui si parla meno, eppure fu estrema­ mente importante.

Mosè lo trascorse nel paese di Madian, dove era fuggito. Qui trovò accoglienza presso la casa del sacerdote di Madian, Ietro, il quale die­ de a Mosè sua figlia Sefora come moglie (Es 2:15­22).

Questa fase della vita di Mosè si concluderà con il fatto del “pruno ardente”, preceduto da que­ ste parole:

“Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb” (Es 3:1).

Fin qui abbiamo riassunto dei fatti… ma che cosa c’entra tutto questo con il lavoro?

Veniamo alle considerazioni per noi. A qua­ rant’anni Mosè era la persona giusta per libera­ re il suo popolo dall’Egitto… o forse no. Era sì l’uomo che Dio aveva scelto per questo compi­ to, ma gli mancava qualcosa. Doveva essere preparato attraverso una formazione che non aveva e che riceverà soltanto tra i quaranta e gli ottant’anni.

Di quale formazione si trattava?

La formazione dell’esilio ma soprattutto del lavoro. Ritroviamo Mosè a ottant’anni che pascola un gregge, per di più non suo. A parte le poche informazioni sulla moglie ed il figlio che in quegli anni Dio gli diede, non ci viene det­ to altro che questo, cioè che “Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero”.

Quindi Mosè lavora, come un umile pastore,

per i secondi quarant’anni della sua vita.

Solo a seguito di questo periodo, Dio lo chiama ad andare dal suo popolo per farlo uscire dal­ l’Egitto (Es 3:10).

Evidentemente, la “sapienza degli Egiziani”, che Mosè aveva ricevuto (molto probabilmente anche in materia militare) non serviva per for­ mare la guida del popolo di Dio. Ma non occor­ reva neppure una contro­sapienza degli Ebrei per prepararlo, bensì una formazione concreta fatta di esperienza anziché di teoria.

Condurre il popolo d’Israele significava guidare “il gregge di Dio” (Sl 100:4), dunque non ci pote­ va essere scuola migliore rispetto al pascolare un gregge di pecore. Lì Mosè dovette scontrar­ si con la pratica di un lavoro umile e faticoso come quello del pastore, dovette prendersi cura di pecore testarde e puzzolenti, stare fuo­ ri casa, lontano dai palazzi e dagli agi.

Quando osserviamo il Mosè dei quarant’anni, vediamo un uomo impulsivo che non pensa due volte a quello che deve fare, ma agisce istinti­ vamente, con impeto e forza.

Anni dopo, invece, si dirà di Mosè che non c’era uomo umile come lui su tutta la faccia della ter­ ra (Nu 12:3).

Quanti mormorii e difficoltà Mosè dovette fron­ teggiare quando il popolo camminava verso la terra promessa! Ma Dio lo aveva preparato a questo grazie al lavoro del pastore.

Certo, Dio ha un piano particolare e unico per ciascuno di noi, ma non stupiamoci se per for­ marci egli si servirà di esperienze lavorative oltre che di insegnamenti. Il contatto con due cose in particolare ci può equipaggiare di virtù morali e capacità: le circostanze e le persone. È scritto che “l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza” (Ro 5:3­4): le afflizioni sono delle esperienze di vita.

È altresì scritto che “Il ferro forbisce il ferro; così un uomo ne forbisce un altro” (Pr 27:17).

Nel nostro lavoro di tutti i giorni ci scontreremo

“Per fede Mosè, quando nacque, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori, perché videro che il bambino era bello, e non ebbero paura dell’editto del re.

Per fede Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, prefe­ rendo essere maltrattato con il popolo di Dio che godere per breve tempo i piaceri del pec­ cato, stimando gli oltraggi di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto, perché aveva lo sguardo rivolto alla ricompensa.

Per fede abbandonò l’Egitto, senza temere la collera del re, perché rimase costante, come se vedesse colui che è invisibile”

(Ebrei 11:23­27)

sempre con situazioni e persone che, giorno dopo giorno, saranno usate dal Signore per cambiare il nostro carattere e le nostre abitudi­ ni. È una formazione alla quale, se lavoriamo, non ci possiamo sottrarre, una forma di discipli­ na che tempra l’uomo di Dio e ne fa uno stru­ mento più idoneo per essere usato per il suo regno.

Al lavoro incontreremo sempre persone e situa­ zioni che non scegliamo noi, che potrebbero anche farci soffrire… ma il confronto obbligato con tutto ciò ci farà, alla fine, del bene.

Servirà a smussare il nostro carattere, ad ampliare i nostri orizzonti, a imparare la pazien­ za e tanto altro.

Forse ripensando al passato vediamo che pro­ prio grazie al lavoro svolto siamo cambiati, e constatiamo che mentre noi lavoravamo anche Dio ha lavorato su noi.

Analogamente, può darsi che oggi Dio ci sta modellando in vista di compiti da affidarci in futuro.

Se questo è accaduto e accadrà, la gloria deve andare soltanto a Dio, che si serve di mezzi insoliti e inaspettati, secondo la nostra logica, per portare avanti i suoi progetti, proprio come avvenne con il suo servo Mosè.