Una necessaria precisazione linguistica
Nell’Antico Testamento troviamo in ebraico due parole con significati analoghi anche se diversi.
• La prima è QAHAL.
• La seconda è EDAH.
Qahal deriva da qol, voce, indica sia la convocazione ad una assemblea (Es 35:1; Nu 20:8; 1Cr 15:3) sia l’atto stesso del radunarsi (Le 8:4; Gr 26:9).
Ciò che si raduna è la Edah (Le 8:3; Nu 17:7; Gs 18:1; Gc 20:1) concetto fisso per indicare la ”comunità” dell’Alleanza come totalità.
Qahal designa principalmente la comunità riunita al Sinai per la stipulazione dell’Alleanza (De 9:10; 10:4); essa viene qualificata dal nome di Jahvè che le viene apposto come specificazione (De 23:2 e segg.); pertanto il vocabolo sta ora ad indicare il gruppo che Jahvè ha convocato, che è vincolato alle regole da lui stabilite (comandamento, legge) e che può mantenersi inserito nell’alleanza di Jahvè soltanto con la ubbidienza.
Qahal dà l’idea della completezza ma anche della imprevedibilità poiché abbraccia coloro che hanno percepito e seguito una chiamata.
Edah invece è la comunità dove si è nati e nella quale, trattandosi di uomini, si hanno diritti e doveri ben definiti; per questa ragione il vocabolo viene utilizzato per indicare Israele, la comunità nazionale, il popolo nella sua unità (il suffisso personale Edah di Core, Nu 16:5, sottolinea l’illegittimità delle pretese di quel gruppo).
Nella traduzione dei Settanta il termine greco EKKLESIA (ricorrente circa 100 volte di cui 22 negli apocrifi e 3 senza equivalente ebraico) viene usato esclusivamente per tradurre l’ebraico QAHAL.
SYNAGOGHÈ (225 volte di cui 34 senza equivalente ebraico) è l’unico termine per tradurre l’ebraico EDAH.
Ekklesia da kaleo = chiamare, quindi chiamare fuori, nell’antichità indica l’assemblea plenaria dei cittadini della polis, si tratta dell’assemblea dei cittadini a pieno diritto, radicata funzionalmente nella costituzione democratica all’interno della quale vengono prese le decisioni più importanti in campo sia politico che giuridico.
Synagoghè da synago = far convenire, riunire riferito a raggruppamenti di persone viene usato per indicare l’assemblea regolare, spesso solenne, congiunta ad un pasto comune e ad un sacrificio, da parte di associazioni che si ritiene fossero quasi esclusivamente società di carattere culturale.
C’è da notare che mentre qahal può essere reso chiaramente con entrambi i vocaboli greci, edah non viene mai tradotto con ekklesia.
In altre parole, mentre synagoghè sembra fosse in grado di rendere il contenuto di ambedue gli equivalenti ebraici, ekklesia poteva essere usato soltanto con un significato specifico.
La diaspora giudaica di lingua greca, gli Ellenisti, chiamarono la comunità giudaica, caratterizzata dalla legge e dal tempio, synagoghè, intendendola nel senso di edah(Nu 8:9; Le 4:13; 10:3; Es 12:9).
In seguito acquistò il senso di “comunità locale singola” per passare infine ad indicare “l’edificio” in cui essa si raccoglie: la sinagoga.
Il valore dinamico della chiamata e dell’unità
Ekklesia è, nella versione dei Settanta, il vocabolo utilizzato nell’Antico Testamento soltanto dove si parla del popolo come di un gruppo convocato da Dio, qualificato dalla risposta all’appello divino.
Quanto detto ci illustra come Dio, mediante il canale della cultura giudaica e greca, ci offre la comprensione del contenuto e della dinamicità della sua azione, ma soprattutto quanto l’azione di Dio che si esprime nella Vocazione o CHIAMATA sia essenziale non solo per il momento del suo avvenire ma anche per il seguito; vale a dire che la chiamata non può cristallizzarsi in una sorta di fissità religiosa, in un privilegio deresponsabilizzante, né tantomeno esprimersi verso il “mondo” non c#332971;ente come una presunzione o vanità di essere, bensì come consapevolezza di uno status di continua dipendenza da lui e di servizio secondo le sue indicazioni.
Un altro aspetto di grande rilevanza che emerge dai concetti racchiusi nei due vocaboli ebraici è quello di UNITÀ: unità del popolo che Dio si è scelto, ha chiamato, stabilendo con lui un patto.
Il Nuovo Testamento usa un solo vocabolo per definire il “nuovo” popolo: ekklesia, termine unico che racchiude l’evento della chiamata, cioè dell’intervento di Dio, il popolo stesso che diventa quindi “comunità di Dio” (1Co 1:2; 11:16-22; 2Co 1:1; Ga 1:13; 1Te 2:14; 2Te 1:4 ) nei due aspetti: universale e locale ed include anche il tempo.
Gesù stesso sigla questo avvenimento dichiarando che questa ekklesia sarà la SUA ekklesia, quella che egli stesso edificherà, fondata su un Nuovo patto nel suo sangue (Mt 16:18; Lu 22:20 ).
Paolo parla della Chiesa quale “dimora di Dio per lo Spirito” che si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore (Ef 2:21).
L’ekklesia di Gesù: la SUA ekklesia
A questo punto ci dobbiamo porre l’interrogativo sulla motivazione che ha indotto Gesù ad utilizzare il vocabolo ekklesia per definire ciò che egli avrebbe fondato.
Egli tiene conto del contesto culturale in cui fa la sua affermazione che evidenzia innanzitutto la scelta di rottura e di cambiamento radicale rispetto alla tradizione giudaica che vede nella sinagoga il centro riconosciuto ed autorizzato della religiosità di Israele.
Nel fare questo Gesù si ricollega al concetto tradizionale di CHIAMATA (chiamata al patto, all’alleanza) e lo rende nuovamente attuale e prioritario rispetto alla tradizione ebraica che ne era conseguita, ciò non senza provocare un certo scandalo.
Infatti se è vero, come abbiamo visto, che i Settanta traducevano il vocabolo “qahal” con ekklesia quando ciò indicava l’entità storica di Israele, è altrettanto vero che gli stessi traduttori utilizzavano, in sostituzione, il vocabolo synagoghè nei testi legislativi nei quali era regolata la vita della comunità, ciò al fine di evitare di far sorgere nel lettore greco l’idea di una pretesa politica della comunità giudaica in quanto con ekklesia si intendeva appunto la convocazione assembleare della città.
Ma Gesù, apparentemente, sembra non curarsi di questo equivoco, anzi, definisce la ekklesia come “la mia ekklesia”; in questo modo dopo avere scandalizzato i Giudei, polarizza l’attenzione dei Greci facendo sorgere in loro non pochi interrogativi; infatti se per il greco la ekklesia era la chiamata della polis, vale a dire della città, di tutti i cittadini, Gesù poteva essere accettato da loro tutt’al più come un banditore ma non come il fondatore.
Al contrario Gesù si pone di fronte a loro come il Fondatore che chiama; in altri termini, poiché in quei momenti la cultura greca possedeva una dimensione universale, anche Gesù conferisce alla “SUA” ekklesia una dimensione universale, che non esclude nessuno, tantomeno Israele.
Ai Greci ciò appariva strano e singolare; quando poi si accorsero che il fondamento della ekklesia era la croce, essi, in un primo tempo, ravvisarono in ciò una vera pazzia.
Gesù, al contrario, fu perfettamente coerente. Secondo il disegno di Dio che con la vocazione di Abramo e poi di Mosè aveva fondato il popolo della Alleanza, egli stesso, con l’autorità di Dio fondò il Nuovo Popolo con una Nuova Alleanza che includeva tutti i popoli della Terra nella fede di Abramo e nella vocazione mediante la sua Parola.
L’esclusione della synagoghè, intesa come depositaria del vecchio patto o alleanza, racchiude implicitamente anche la relativizzazione di ogni strumento tradizionalistico inteso a fissare in moduli o statuti la religiosità nel tempo: confessioni di fede, diritto canonico, stesure di patti, concordati con gli Stati, costituiscono dei surrogati della fede; ciò deve far riflettere perché la ekklesia secondo Gesù è e rimane una chiamata ad un rapporto nuovo con il Padre, rapporto che si rinnova costantemente e quotidianamente.
L’uomo nuovo si rinnova, dirà Paolo, al quale fece eco Lutero affermando: “Ecclesia semper reformanda est!”
In ultima analisi si può dire che Gesù non poteva che definire come “ekklesia” la convocazione del nuovo popolo di cui egli è anche il Capo che relativizza ed esclude ogni altra autorità e potere.
L’ekklesia: comunità dei chiamati, comunità che si unisce e s’incontra
Il carattere di evento, inteso come chiamata dell’ekklesia di Cristo non esclude, ovviamente, l’aspetto della continuità, per quanto questo accadimento di chiamata e di fede sfugga al potere di controllo dell’uomo (esso è opera esclusiva dello Spirito Santo).
Nondimeno assume forma durevole nel tempo dando origine alla “comunità” locale; si potrebbe dire che dove si verifica l’ekklesia come convocazione nasce l’ekklesia come comunità che tornerà sempre a riunirsi nell’attesa che il Signore ritorni.
L’atto di riunirsi deve essere considerato un elemento costitutivo della ekklesia (1Co 11:18); essa perciò deve essere necessariamente pensata in termini concreti.
Per Paolo, l’apostolo architetto della Chiesa, è impensabile una spiritualizzazione come è implicita nel concetto dogmatico di “chiesa invisibile”.
L’ekklesia ha un luogo ben preciso, esiste ed “accade” entro uno spazio geografico individuabile.
È così che l’apostolo scrive “alla chiesa che è in Corinto” (1Co 1:2; 2Co 1:2) alludendo contemporaneamente all’appartenenza ad essa degli uomini e delle donne di quel luogo e alla qualità nuova e diversa di quella “assemblea”.
Lo stesso discorso vale per 1Tessalinocesi 1:1, dove Paolo si rivolge alla “ekklesia dei Tessalonicesi”: questa piccola comunità costituisce, agli occhi di Dio, l’autentica rappresentanza della città.
Colui che viene accolto in seno alla ekklesia appartiene ad essa e per Cristo vive nel campo di forza della NUOVA CREAZIONE (2Co 5:17).
Questo non significa però che egli sia sottratto al suo inserimento nella società, rimane com’era, Tessalonicese o Israelita o Romano, libero o schiavo (1Co 7:17).
La nuova cittadinanza (Fl 3:20), col fatto di creare una nuova appartenenza non comporta la perdita di quella precedente, ma semplicemente dischiude un’altra dimensione in mezzo a questo mondo.
In Cristo le differenze rimangono, perdono però la loro forza disgregante, che impedisce l’essere uniti, il fare comunità (Ga 3:27 e segg.). La chiesa perciò si realizza in un determinato luogo e in un determinato popolo senza escludere gli altri.
Dei “santi” come Paolo definisce i membri della ekklesia riprendendo la terminologia, che l’Antico Testamento usava per la comunità di Dio (1Co 1:2; Fl 1:1; Ro 1:7), fanno parte coloro che il Signore chiama, coloro ai quali egli dona la fede e la cui appartenenza alla nuova vita è contrassegnata dall’amore e dall’atto battesimale (Ro 6:3 e segg.).
Un incontrarsi produttivo e concreto
Questa concezione della comunità Paolo l’ha espressa in un modo che forse meglio di ogni altro definisce il suo concetto di chiesa: egli parla dell’ekklesia come corpo-soma (Ro 12:1; 1Co 12:12-27); l’immagine della comunità come corpo di Cristo riprende innanzitutto l’idea spaziale, essa è “l’ambito della benedizione in cui opera il Crocifisso e l’ambito della signoria in cui continua ad operare il Risorto” (E. Schweizer).
L’immagine intende inoltre affermare che appartenere a Cristo significa divenire membra di un organismo in cui ciascuno detiene una sua propria funzione, in cui tutti dipendono gli uni dagli altri nel dare e nel ricevere, nel far fruttare i doni ricevuti per i compiti da svolgere all’interno della comunità e per il compimento della missione verso l’esterno.
In tutto questo non esiste alcuna gerarchia per gradi di importanza, ma soltanto una straordinaria ampiezza del concetto che abbraccia tanto i doni di presidenza e di organizzazione, quanto le assistenze, le guarigioni, il discernimento degli spiriti ecc. (1Co 12:14 segg.; Ro 12:4 e segg.).
Sono tutte manifestazioni dell’unico SPIRITO che è all’opera, cioè della presenza del Signore glorificato in questo suo corpo.
In tal modo l’evento della salvezza che è la comunità, assurge a realtà escatologica.
Nella comunità ci si deve occupare che tutti questi doni si sviluppino pienamente e nel retto ordine (1Co 14:33).
La messa in opera dei doni è pensabile soltanto come concreta; per questa ragione Paolo, quando parla di ekklesia, intende sempre la comunità che si raccoglie in assemblea, come emerge da 1Corinti 14 dove il vocabolo indica sempre l’atto, “l’evento” del riunirsi. È soltanto nell’incontro e nella convivenza dei membri che può concretizzarsi il dono che 1Corinzi 13 mette al di sopra di ogni altro e che è la condizione per cui gli altri doni siano da Dio riconosciuti (elezioni ed incarichi sono da concepirsi tutti su questo sfondo).
Ministeri istituzionalizzati come quello giudaico degli anziani (presbitero) rientrano in un’epoca appena successiva (lettere pastorali, Atti) in cui la comunità stessa acquista consapevolezza e, sulle indicazioni dell’apostolo, si rende conto di essere autenticamente oikos theou, casa di Dio (1Ti 3:15.
L’immagine paolina della ekklesia è dunque estremamente concreta; perfino le comunità domestiche (evidentemente assai piccole) vengono chiamateekklesia (Fi 2; 1Co 16:19; Ro 16:5). Ciò sta a dimostrare che l’impiego del termine non è determinato né dall’importanza della località né dalle dimensioni della comunità bensì unicamente dal riattualizzarsi in questi gruppi dell’evento di Cristo (Ga 3:1) e dalla fede alimentata da tale presenza.
Può essere che di queste piccole comunità ne esistessero diverse nella medesima località.
L’ekklesia è definita sempre dal suo volto concreto, la sua vita, come i doni che di volta in volta la contraddistinguono, non possono né debbono essere necessariamente uniformi. Nonostante ciò è sempre una sola ed unica ekklesia quella che si incontra; per questo è possibile che, pur nella varietà delle singole forme, non solo la fede, ma anche regole e magari ordinamenti fossero comuni (1Co 7:17,11:16, 16:1), però sotto il controllo e la garanzia dell’apostolo.
Nella lettera ai Colossesi, Paolo introduce il concetto di “CAPO” del corpo (Cl 1:18); ciò in sostanza significa che colui che dal Padre è stato strappato dal potere delle tenebre per essere trasferito “nel regno del Figlio” (Cl 1:13) si trova ora in questo corpo di Cristo, assunto nel suo essere stesso (Fl 2:4).
Nel momento attuale significa partecipare alla sua vita di sofferenza (Cl 1:24), il corpo della ekklesia passa così ad indicare quello spazio in cui è già stabilita la signoria di Cristo, il Capo del corpo.
Paolo, nella lettera agli Efesini, con ekklesia, pone l’accento sull’unità del corpo in dimensioni cosmiche, l’organismo si sviluppa e cresce per raggiungere la statura dell’uomo perfetto. Si distingue con nettezza tra capo e corpo proprio nell’assegnazione, da parte del capo, di compiti specifici adatti a “rendere i fratelli idonei a compiere il loro ministero” (Ef 4:12).
Ciò introduce alla tematica dei ministeri della e per la chiesa ed alla sua conduzione mediante gli Anziani, tematica che necessita di uno studio articolato ed approfondito da effettuare con un coinvolgimento diretto di tutti i c#332971;enti.
L’accento posto da Paolo sul Capo, cioè Cristo che dà, fornisce la Chiesa di tali ministeri con un indirizzo così preciso e sta ad indicare che tutte le membra devono essere coinvolte nel processo di crescita, per il quale i ministri sono dedicati al servizio così come voluto dal Capo.
Il coinvolgimento di tutti, pur nella diversità dei ruoli, ha un solo obiettivo: crescere nell’amore (Ef 4:16) dal quale scaturisce la testimonianza: “Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13:34-35).
La crescita nell’amore
La crescita nell’amore comporta impegno, dedizione non solo sentimentale ma anche fisica e psicologica oltre ad una disciplina personale e collettiva che induca alla obbedienza singola e comunitaria alla volontà di Dio che di mano in mano ci viene trasmessa mediante l’insegnamento.
Quando “l’amore” si manifesta in questi termini concreti è fonte di gioia e di dinamicità che non passa inosservata, bensì polarizza l’attenzione e stimola l’adesione a questo “processo” spirituale che non fa parte delle categorie mondane ma è solo quell’opera di Dio a cui ogni uomo inconsciamente anela.
La crescita nell’amore, in questo amore, dà origine anche alla crescita numerica della Chiesa; la perfezione alla quale la ekklesia è chiamata dal suo capo, contempla quindi ogni aspetto, personale ed universale.
La mancata crescita, anche numerica, è indice di carenza d’amore e di scarsa o nulla dedizione al servizio.
Mi limiterò ora ad identificare sinteticamente alcuni requisiti essenziali che devono caratterizzare i membri della chiesa locale:
• Partecipazione attiva agli incontri comunitari.
• Disponibilità al servizio.
• Contribuzione congrua e responsabile con offerte.
• Riconoscimento e sottomissione agli Anziani.
Requisiti essenziali
1. La partecipazione non deve essere considerata opzionale e neppure semplicemente casuale o culturale (solo la domenica mattina) bensì sentita e vissuta come partecipazione di membra ad un corpo. La chiesa locale è un organismo, come tale ogni suo membro deve viverla, tralasciando la mentalità dell’Associazione religiosa o di un Club (At 2:44-46; 4:32; Eb 10:25).
2. ll servizio è la cartina tornasole dell’autenticità dell’amore. I doni spirituali sono conferiti da Dio in funzione del servizio. La vita di ogni c#332971;ente deve essere caratterizzata dalla disponibilità e dalla ricerca personale, nel rapporto con il Padre, delle eventualità e caratteristiche del servizio a cui si è chiamati. Uno stretto rapporto con gli Anziani aiuterà il singolo nella ricerca e nell’indirizzo dei servizi (1P 4:10-11; Cl 3:23-24).
3. La liberalità nel dono, oltre che di sé stessi nel servizio, anche del denaro ed altre cose, è la conseguenza naturale alla liberazione dalla schiavitù del peccato che induce l’uomo all’egoismo ed all’egocentrismo. Solo chi dona sé stesso prima può donare autenticamente e congruamente poi anche i suoi beni. (2Co 8:1-9; 9:6-11)
4. L’obbedienza al comandamento primario dell’amore rende capaci di obbedire a tutti gli ordinamenti inclusi nella Parola apostolica che prevede gli Anziani come sorveglianti (vescovi) responsabili non solo del buon andamento formale della chiesa locale ma soprattutto della vita spirituale di ogni c#332971;ente. Solo chi si sottomette autenticamente a Dio è reso da lui capace di sottomettersi anche agli Anziani. Il fondamento della sottomissione sono la comunione ed il rispetto reciproci, nella comune convinzione e desiderio di espletamento del servizio (Eb 13:7-8; 1Te 5:12-13; 1Co 16:15-16; 1Ti 5:17-19; Ga 6:6).
Detto pur sommariamente, tutto questo può e deve essere praticato dalla chiesa locale.
È necessario essere attenti!
Avviene purtroppo che alcuni, facendo cattivo uso dei concetti di “chiesa universale” e di “chiesa invisibile” praticano l’assenteismo e la deresponsabilizzazione nel servizio. Con spirito “autonomo” e “libertario” si sottraggono alla comunione o la praticano qua e là come uccelli fuori dal nido in cerca di miglior pastura (Pr 27:8).
Anche per questo motivo gli Anziani devono essere attenti agli insegnamenti sulla chiesa, che vengono proposti a parole o con fatti da persone che si fregiano del titolo di “servitori” o “missionari”. Viviamo in tempi in cui gli uomini sono facili p#332971;e di tentazioni che passano attraverso entusiasmi sentimentali non ben illuminati e corroborati dalla Parola di Dio, o peggio, di ambizioni di gloria e di protagonismo.
Essi per primi ne sono vittime e nel tentativo poco umile di autogiustificarsi, finiscono con il trascinare dietro sé anche altri in una spirale negativa che, anziché edificare il Corpo di Cristo, lo umilia e lo divide.
Sappiamo, secondo la sua promessa, che le potenze dell’inferno non prevarranno sulla Chiesa del Signore, ma dobbiamo essere attenti a come noi ci muoviamo ed agiamo al suo interno.
Termino ricordando le parole che Paolo rivolgeva ai Corinti:
“Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come esperto architetto, ho posto il fondamento; un altro vi costruisce sopra. Ma ciascuno badi a come vi costruisce sopra; poiché nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù” (1Co 3:10-11).