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In questo secondo articolo introduttivo sulla dottrina di Cristo, prendo spunto per fare alcune riflessioni da una frase che l’apostolo Paolo ha scritto ai Filippesi durante la sua prima “prigionia” a Roma: “Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno” (Fl 1:21). Perché l’apostolo Paolo ha scritto queste parole? Nelle sue tredici epistole, il suo insegnamento spazia su un’infinità di argomenti. Ha scritto per istruire, per correggere degli errori, per incoraggiare o esortare delle chiese o degli individui. Ha argomentato su temi a carattere dottrinale e pratico con una gamma di insegnamento molto vasta. Tuttavia è in tre epistole che Paolo presenta la più alta Cristologia (aspetti della persona e dell’opera di Cristo): Efesini, Filippesi e Colossesi. L’apostolo, che si trovava in una situazione molto difficile, alza il proprio sguardo verso Cristo ed è da lui incoraggiato tanto che in questi scritti lo descrive in un modo mirabile in tutta la sua gloriosa bellezza. In Filippesi, come è nel suo stile quando scrive ad alcune chiese (ad esempio in Romani e in Efesini), l’apostolo presenta prima degli aspetti dottrinali e poi costruisce su questi elementi a carattere pratico. Gli argomenti che tratta sono tutti centrati su “Cristo, nostro tutto”: nostra vita, nostro esempio di umiliazione e sacrificio, nostra forza e nostro traguardo.

Cristo: nostra vita

Per poter capire il contesto in cui ritroviamo la “nostra frase”, è necessario fare una premessa che riguarda la nascita della chiesa di Filippi (At16:11-40). Per formare una sinagoga ci volevano dieci uomini. Nelle località prive di sinagoghe, ma in cui c’era una presenza di Giudei e proseliti, di solito questi si radunavano “lungo un fiume”, un posto tranquillo dove avrebbero potuto pregare indisturbati. Paolo era un uomo ben informato delle varie consuetudini locali ed essendo a conoscenza che a Filippi non esisteva una sinagoga e che comunque c’erano dei Giudei e dei proseliti, era sicuro di incontrare qualcuno di loro in quel luogo. Cosa che accadde puntualmente. Lì egli predicò il vangelo e Lidia, una commerciante di tessuti di Tiatiri, fu la prima a convertirsi. Dopo aver liberato una schiava da uno spirito demoniaco, Paolo e Sila, suo compagno d’opera, vennero messi in carcere ingiustamente ma, invece di inveire e lamentarsi per la loro condizione, si misero a pregare e a cantare inni a Dio. Dopo una scossa di terremoto, invece di scappare, rimasero nel carcere dando un’ulteriore dimostrazione dello stile di vita che contraddistingue chi è toccato dalla grazia del Signore. Al carceriere colto da disperazione essi dissero: “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la casa tua”.

In quel giorno memorabile nacque la chiesa di Filippi.

A distanza di poco più di dieci anni da questo evento, l’apostolo si trovava a Roma, nuovamente in carcere, anche se agli arresti domiciliari (At 28:30-31). Era naturale che i Filippesi, essendo venuti a conoscenza di questo, da un lato ricordassero come fosse nata la loro chiesa ma, dall’altro, fossero preoccupati della situazione in cui si trovava l’apostolo che, nel suo scritto sgombra subito il campo da ogni possibile tristezza e preoccupazione affermando: “Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo; al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo; e la maggioranza dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio” (Fl 1:12-14). Dopodiché chiude questa sezione affermando di essere certo che Cristo sarebbe stato glorificato nel suo corpo, sia con la vita sia con la morte. Ed è sulla base di queste ultime parole che l’apostolo, con la congiunzione “infatti”, conclude tutto quanto aveva detto in precedenza con le parole del nostro testo.

La prima parte, “Infatti, per me il vivere è Cristo” ha significati profondi; almeno tre.

Prima di tutto significava: vivere in lui, ovvero per Paolo era stata decisiva la conversione a Cristo. Questo evento era accaduto sulla strada di Damasco mentre egli si recava a perseguitare i cristiani di quella località (At 9:1-22). Paolo stesso descrive questo evento con una ricchezza di particolari ogni volta che riferisce come ha conosciuto il Signore (At 22:3-21; 23:1-6; 26:2-23). Nel descrivere l’evento, anche in Galati 1:11-24 e in Filippesi 3:4-8 racconta il suo passato e pone l’enfasi sull’intervento sovrano del Signore nella sua vita al momento della conversione e, dopo, nel suo susseguente servizio. Per Paolo era importante ricordare l’evento straordinario che aveva trasformato la sua vita in modo radicale. Anche se è possibile che le nostre conversioni non siano state così “eclatanti” è importante ricordare come il Vangelo della grazia sia arrivato a noi: per mezzo dell’ascolto della predicazione della Parola di Dio in una sala di culto, in un luogo pubblico, in una piazza; o leggendo un opuscolo, un foglietto di un calendario, o direttamente la Scrittura; o ascoltando la radio; o colloquiando con un amico o un parente, ad esempio.

In secondo luogo, per Paolo l’affermazione “… per me il vivere è Cristo” significava: vivere con lui. Si trattava della crescita spirituale nel cammino cristiano che non avviene in un istante ma è un processo continuo. Prima di scrivere quelle parole Paolo aveva affermato: “… Cristo sarà glorificato nel mio corpo… (Fl 1:20). Nella sua vita c’era stata una crescita vertiginosa nella santificazione progressiva. Chi ha creduto si rende conto che, lasciando agire lo Spirito Santo nella sua vita, ha ricevuto il perdono dei peccati e poi può crescere nel cammino cristiano che costituisce il passo successivo e questa crescita nella santificazione, è costituita, fra gli altri, dall’abbandono del peccato. Paolo scrive: “Che diremo dunque? Rimarremo forse nel peccato affinché la grazia abbondi?… Infatti il peccato non avrà più potere su di voi; perché non siete sotto la legge ma sotto la grazia” (Ro 6:1, 14). La crescita nella santificazione cambia i nostri rapporti con Dio: “Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà” (Ro 12:2). Come è scritto in Romani 12: 9-21 e nei capitoli che seguono, questa crescita cambia i nostri rapporti con i nostri fratelli, con le autorità, con il nostro prossimo; trasforma i nostri desideri, le nostre motivazioni, la nostra condotta.

In terzo luogo, per Paolo, “per me il vivere è Cristo” significava: vivere per Lui ovvero vivere una vita consacrata, dedicata al servizio.  Nel prosieguo del brano, Paolo spiegherà subito questo concetto affermando che il suo stare ancora in vita voleva dire essere di utilità per il loro progresso, infatti il suo servizio era stato proficuo e abbondante in tutti gli anni della sua vita. Facendo una sintesi del suo servizio, scriverà che il Signore lo “aveva costituito araldo (annunciatore del vangelo, quindi evangelista), apostolo e dottore” (2Ti 1:11), tre dei molti doni che il Signore gli aveva conferito mediante lo Spirito Santo e che lui aveva usato rispettivamente nell’annuncio del vangelo, nel fondare delle chiese e nell’istruirle.

Chi ha creduto in Cristo può servirlo con gioia a seconda del proprio dono. Paolo dedicherà alcuni capitoli o parte di essi a questo argomento: Romani 12:3-8; 1 Corinzi 12-14; Efesini 4:7-16. L’apostolo Pietro, invece, farà una sintesi straordinaria in soli due versetti (1P 4:10-11). Il Signore Gesù ha dato dei doni, mediante lo Spirito Santo, tramite i quali il credente può servire Dio in un ambito specifico. Molte persone vivono per la loro gloria. Molti non pensano ad altro che a divertirsi. Alcuni solo a lavorare per accumulare denaro. Come credenti dobbiamo chiederci: “Per chi viviamo”? Paolo non avrebbe avuto dubbi nel rispondere. La sua vita era centrata su Cristo. Avendo creduto per fede in Cristo possiamo vivere in lui avendo acquisito la sicurezza della sua grazia, del suo perdono e della salvezza. Con queste certezze si può vivere con lui, crescendo nella sua conoscenza intima, personale, nel cammino di santificazione. E poi si può vivere per lui, servendolo, nonostante i limiti e le debolezze, nella piena convinzione che egli potrà far fruttare ampiamente il dono o i doni che ci ha conferito come quando ha moltiplicato i cinque pani e i due pesci.

Cristo: nostro esempio di umiltà, di obbedienza e di sacrificio

Uno dei brani del Nuovo Testamento con la più alta Cristologia è Filippesi 2:5-10. L’apostolo, per istruire i Filippesi all’umiltà prende come esempio il Signore Gesù, quindi il suo abbassamento, la sua obbedienza al Padre culminata nel suo sacrificio, la sua morte in croce, che è il punto centrale di questo brano. All’abbassamento è poi seguita l’esaltazione da parte del Padre. Ecco, Cristo è il perfetto esempio che chi ha creduto deve seguire. Durante l’ultima cena, i discepoli stavano ancora una volta discutendo su chi di loro fosse il maggiore. Al che, il Signore Gesù li esortò ad essere umili e a essere l’uno al servizio dell’altro ma, visto che erano duri nel capire, li istruì ed esortò con un atto estremamente significativo: lavando i loro piedi (Lu 22:24-27; Gv 13:1-17). A chi ha creduto in Cristo, le parole di Filippesi 2:3-4 insegnano il valore dell’umiltà, dell’obbedienza, del servizio verso gli altri.

Cristo: nostra forza

Dopo aver dato alcuni insegnamenti pratici e incoraggiamenti vari, Paolo ringrazia i Filippesi per un dono che gli avevano inviato, un prezioso sostegno e aiuto che era servito per il suo servizio (Fl 4:10-14). Pur essendo questa la parte pratica dell’epistola, l’accento viene posto ancora su Cristo. L’apostolo aveva imparato a vivere in qualsiasi circostanza della vita: nella povertà come nell’abbondanza e sapeva vivere in qualsiasi condizione ma in tutte le situazioni aveva sperimentato la forza di Cristo. E leggendo altri brani scritti da lui, come ad esempio 2Corinzi 11, si può ben dire che, per l’apostolo, Cristo era la sua forza quotidiana negli aspetti materiali, fisici e spirituali. Se sei un credente da un po’ di anni, hai sicuramente sperimentato nella tua vita questa forza, questa potenza spirituale che è unica e che ti ha dato una carica per vivere la tua vita come niente e nessun altro avrebbe potuto darti.

Cristo: nostra mèta, nostro traguardo

Dopo che Paolo ha appena parlato della certezza della sua risurrezione che segnerà il momento della sua completezza e perfezione davanti a Dio, verso la metà del cap. 3 sempre della lettera ai Filippesi inizia una nuova sezione affermando, senza mezzi termini, di non aver ancora ancora raggiunto la perfezione perché essa ci sarà solo nel momento del raggiungimento della meta, del traguardo finale che è la gloria, l’essere per sempre con il Signore. Per questo motivo l’apostolo scriveva: “Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fl 3:12-14).

Qui ci sono tre verbi portanti che l’apostolo attinge dal mondo greco dell’atletica: dimenticare, protendersi e correre. Un atleta, se vuol continuare a vincere, deve dimenticare costantemente il passato: le sconfitte, perché altrimenti si deprime, e le vittorie perché altrimenti si culla e rischia di fallire l’obiettivo di ottenere la vittoria. Inoltre non deve guardare agli avversari ma in avanti, verso il traguardo. Paolo faceva così nel suo cammino cristiano. Una persona non può procedere se il suo sguardo è concentrato sul passato e nemmeno se il suo sguardo è distratto da altro o altri. L’apostolo si poneva un traguardo molto chiaro: protendersi e correre, proprio come un atleta che deve protendersi ovvero tendersi in avanti, guardare a quello che un tempo era il classico “filo di lana”. Per l’apostolo, la cosa “che stava davanti” era questa: “Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore, che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa” (Fl 3:20-21). I Filippesi erano fieri della loro cittadinanza, ma qui si trattava della cittadinanza celeste, della gloria.

Scrivendo “per me il vivere è Cristo e il morire guadagno”, l’apostolo Paolo voleva mettere in evidenza che Cristo, per lui, era tutto e, inoltre, non temeva la morte perché la sua prospettiva era quella di entrare e restare per sempre nella gloria trasformato, essendo un cittadino del cielo. Anche per noi Cristo è il nostro tutto e aspettiamo il suo ritorno. Che questo possa incoraggiarci a vivere pienamente il nostro cammino cristiano in questa attesa!