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Chiedetelo pure a chiunque vi capiti, tutti saranno d’accordo nel considerare l’essere un ipocrita come la peggiore delle accuse: venire cioè additati come persone che fingono di essere ciò che non sono, celando dietro una maschera di rispettabilità le loro peggiori nefandezze.

 

Il termine stesso, ipocrita, trae la sua origine dal vocabolo greco usato in antichità per indicare l’attore di teatro (hypocrìtes, lett.: sotto la maschera), il quale un tempo recitava indossando una maschera, allo scopo di esasperare i caratteri del personaggio che stava interpretando, oltre che per amplificare a mo’ di megafono la sua voce, in modo che potesse essere udita anche dai gradini più lontani di quei teatri all’aperto.

Non sorprende dunque che “ipocrita” abbia col tempo assunto il significato di persona che, come un bravo attore, recita la parte di un personaggio diverso da ciò che è realmente.

 

 

L’ipocrisia e la Scrittura

 

La Scrittura condanna l’ipocrisia in modo chiaro ed inequivocabile. Basti pensare alle parole sferzanti usate da Gesù contro gli scribi e i farisei ipocriti (Mt 23), che sono diventate addirittura aneddotiche nel gergo popolare, come ad esempio l’invettiva contro i “sepolcri imbiancati”, usata da tanti senza forse la minima cognizione del fatto che il copyright di quel macabro abbinamento appartenga proprio a Gesù (Mt 23:27).

 

Il pericolo di cadere nell’ipocrisia nel nostro modo di relazionarci col prossimo è sempre in agguato, ed è forse proprio per questo che il primo evento traumatico che ci viene presentato dalla Scrittura, occorso in seno alla chiesa per cause interne alla chiesa stessa, veda l’ipocrisia come protagonista indiscussa. L’episodio di Anania e Saffira narrato nel capitolo 5 del libro degli Atti (vv. 1-11) illustra infatti quanto tutti noi siamo esposti al pericolo di assumere comportamenti ipocriti, qualora dimentichiamo che non è con gli uomini che abbiamo a che fare, ma con Dio (vv. 3-4).

 

Si può senza dubbio affermare che l’ipocrisia sia, per assurdo, la massima espressione di ateismo dei credenti (o presunti tali), in quanto essa denota una totale perdita di consapevolezza della realtà della presenza di Dio, davanti al quale nulla può rimanere nascosto (Lu 12:1-3). È per questo motivo che viene giudicata in modo così drastico nell’episodio di Anania e Saffira, affinché divenga anche per noi oggi un grave monito, laddove dovessimo tristemente vivere i rapporti fraterni nella chiesa da atei di fatto, come se si trattasse solo di dinamiche orizzontali, e dimenticando di trovarci invece nel tempio del Dio vivente (1Ti 3:15).

 

Per contro, la Scrittura ci esorta a comportarci come figli di luce, nella bontà, giustizia e verità, operando nella trasparenza, anche se siamo circondati da una realtà avvolta nelle tenebre dell’ipocrisia (Ef 5:8-14). È solo quando camminiamo nella luce che possiamo sperimentare un’autentica comunione fraterna (1Gv 1:7), perché è solo nella verità che si è in grado di esprimere l’un l’altro sentimenti autentici di “amore profondo e sincero(lett.: senza ipocrisia)” (1Pi 1:22).

 

 

L’ipocrisia:

il moderno peccato imperdonabile

 

Tutto ciò che abbiamo appena detto sull’ipocrisia, e su quanto essa sia condannata dalla Scrittura, sono certo che incontrerebbe la piena approvazione di chiunque, ateo o religioso che sia. Su tante dichiarazioni e giudizi di peccato espressi nella Bibbia c’è infatti forte dissenso nella società di oggi, ma sulla condanna totale e senza appello dell’ipocrisia non se ne trova uno che non sia d’accordo. Si può addirittura affermare che, in analogia con quanto affermava Gesù (Mr 3:28-29), al giorno d’oggi il peccato imperdonabile esiste per davvero, ma non è quello contro lo Spirito Santo: il peccato imperdonabile di oggi è l’ipocrisia.

 

Dico questo con piena cognizione di causa, perché, se ci fate caso, non esiste attorno a noi peccato che non venga ridiscusso o perlomeno mitigato nella sua gravità.

Tanti imperativi che attengono alla sfera morale e relazionale, che sono apertamente condannati dalla Scrittura, vengono oggi considerati obsoleti e relativizzati, e anche quelli visti negativamente, inclusi quelli più efferati, quali l’omicidio, la violenza, o finanche la pedofilia, pur essendo considerati inaccettabili, trovano una qualche forma di umana comprensione, individuando forse nell’ambiente sociale degradato in cui la persona ha vissuto, o in esperienze passate di violenza familiare a sua volta subite, una sorta di alibi, o perlomeno di giustificativo per tali efferatezze. Qualsiasi peccato può essere perdonato nella società di oggi, a parte… l’ipocrisia.

Quella no, non ha alcuna speranza di comprensione, né di perdono.

 

Così grande è l’assoluto abominio legato al peccato d’ipocrisia nella mentalità moderna, che il suo corrispettivo positivo, cioè a dire la sincerità, è divenuto per contro un elemento catartico e taumaturgico di qualsiasi comportamento umano. Oggi le scelte di vita non vengono più valutate per ciò che esse sono, giuste o sbagliate, ma per la sincerità o meno con cui quelle scelte vengono vissute.

Tu non hai alcun diritto di giudicare sbagliata qualsiasi scelta di vita, qualora essa sia stata fatta con sincerità. E in ogni caso, tale scelta di vita non è certo più esecrabile di tante altre, magari più accettabili dalla società, ma vissute con ipocrisia. La sincerità diviene dunque uno strumento auto-assolutorio: si possono compiere le peggiori nefandezze, ma se uno le fa con sincerità, non ha nulla di cui doversi vergognare.

 

In fondo proprio questo è stato il tema di uno scambio epistolare intercorso lo scorso anno tra il noto giornalista Eugenio Scalfari e l’attuale Papa Bergoglio, nel quale Scalfari, tra le altre cose, domandava in che modo il Dio professato dai cristiani avrebbe giudicato coloro che oggi non ripongono fede in lui.

Ciò che suscitò particolare clamore mediatico fu la risposta del Papa, il quale indicava nell’obbedienza alla propria coscienza l’elemento chiave per distinguere ciò che è peccato da ciò che non lo è:

“Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire” (“la Repubblica”, 11 Settembre 2013).

Che tristezza leggere queste parole da colui che afferma di rappresentare qui in terra il Signore Gesù! Il peccato dunque consisterebbe nell’agire contro la propria coscienza, per cui, proprio come si affermava in precedenza, un’azione sarebbe valutata come giusta o sbagliata solo in misura della sincerità (o buona coscienza) con cui essa è stata compiuta.

Se almeno l’avesse saputo Dante Alighieri! Avrebbe di certo potuto far risparmiare un bel po’ di energie a sé stesso e a tanti poveri studenti, limitando la sua Divina Commedia a un unico grande girone infernale, quello degli ipocriti. Riempito ovviamente solo dalle persone religiose… ma questa è tutta un’altra storia.

 

 

Ipocrisia e pudore:

due sentimenti così simili…

 

Al di là di questi paradossi aberranti della mentalità contemporanea, possiamo certamente condividere l’assoluta necessità che i nostri comportamenti esteriori siano scevri da ipocrisia, e trovino un pieno riscontro nei pensieri che coltiviamo nel nostro cuore (Mt 15:17-19; Lu 6:45; Ro 12:9). Quando infatti dissimuliamo i nostri sentimenti, pecchiamo davanti al Signore, senza dire poi del discredito in cui gettiamo il vangelo nel momento in cui l’ipocrisia viene messa allo scoperto.

C’è però un altro tipo di sentimento che presenta caratteristiche per certi versi molto simili all’ipocrisia, ma che, al contrario di quest’ultima, ha delle chiare connotazioni positive: si tratta del pudore.

 

Il pudore è fondamentalmente un sentimento di ritrosia, di vergogna, di fronte a manifestazioni che ci mettono a disagio, collegati spesso, ma non esclusivamente, alla sfera sessuale.

Il sentimento di pudore agisce molte volte mantenendoci lontani da situazioni esterne a noi, in cui c’imbattiamo senza volerlo, ma esiste anche una forma di pudore che riguarda il nostro essere più intimo, che nasce dal renderci conto delle nostre debolezze, di quelle nostre vulnerabilità che non vogliamo mostrare agli altri, perché ne proviamo, per l’appunto, vergogna.

 

Da questo punto di vista, il pudore e l’ipocrisia sono sentimenti che hanno forti somiglianze. Ambedue infatti nascono dalla consapevolezza del proprio essere inadeguati rispetto agli standard a cui vorremmo corrispondere, e ambedue prevedono un farsi da parte, nascondersi dall’ostentare ciò che si è.

Queste somiglianze sono tali da farceli erroneamente confondere, quasi che si trattasse dello stesso sentimento. È per questo motivo che mi piace vedere il pudore e l’ipocrisia come due gemelli. Gemelli però diversi, che a un primo sguardo possono darti l’impressione di essere identici, ma poi, quando vi poni maggiore attenzione, ti rendi conto che hanno due fisionomie completamente diverse.

 

 

Ipocrisia e pudore:

due sentimenti così diversi…

 

Esistono infatti nette e sostanziali differenze tra il pudore e l’ipocrisia.

L’ipocrita non si limita a nascondere ciò che è, ma persegue l’obiettivo di ostentare ciò che non è, sforzandosi di far sì che coloro che gli stanno attorno si creino un’idea positiva e del tutto falsa di lui.

Soprattutto, l’ipocrita non prova vergogna di ciò che lui è nella realtà. Tutt’altro. Il desiderio di nascondersi che ha l’ipocrita nasce infatti esclusivamente dal timore di perdere l’approvazione di coloro che gli stanno attorno, piuttosto che da una personale consapevolezza delle proprie mancanze. L’ipocrita, detto in termini più biblici, non ha coscienza di peccato.

 

Di tutt’altro genere è invece il pudore. Il pudore non induce ad apparire davanti agli altri ciò che non si è, perché non è l’approvazione degli altri quella di cui si sente il bisogno. Il pudore è un senso di vergogna dovuto alla profonda consapevolezza di quanto sia grande la propria fragilità e il proprio bisogno della grazia di Dio, nella ricerca costante di assomigliare a Cristo per la potenza dello Spirito Santo, malgrado le proprie debolezze e le proprie continue cadute.

Fu il pudore, e non l’ipocrisia, quello che spinse Adamo ed Eva a ricoprire sommariamente la propria nudità con delle foglie di fico, per mitigare il senso di vergogna e a nascondersi da quel Dio che li stava cercando dopo la loro disubbidienza (Ge 3:7-8). Ed è proprio a quel pudore che Dio risponde, provvedendo abiti di pelle (v. 21), indicando dunque all’uomo fin dall’inizio della sua storia di redenzione l’unica copertura adeguata a quella sua nudità spirituale, cioè la grazia risultante da una morte sostitutiva.

 

Quale senso di pudore brilla anche nell’atteggiamento di quella prostituta che trova il coraggio di entrare nella casa di Simone il fariseo, e per la vergogna che prova, sembra quasi fare il possibile per rimanere invisibile a tutti, Gesù compreso… Sta lì, di dietro, inginocchiata, in silenzio e con gli occhi bassi, rigando di lacrime i piedi di Gesù e ungendoli con olio.

Mentre invece, quanta ipocrisia traspare dai pensieri di Simone, pieni di dubbio sprezzante su Gesù, mentre sta lì amabilmente seduto a tavola con tutti i suoi commensali (Lu 7:36-50).

 

Ipocrisia e pudore differiscono poi sostanzialmente anche per le conseguenze che hanno sul modo di relazionarsi con le debolezze altrui.

L’ipocrita infatti è spietato con chi attorno a lui cade nel peccato. È spietato perché sfoga su quel fratello ferito il senso di colpa che cova in sé per le proprie debolezze, le quali sono forse di gran lunga peggiori, ma ancora ben nascoste alla vista degli altri. Tanto spietato è l’ipocrita verso gli altri, quanto indulgente verso sé stesso. Trattare con durezza il peccato degli altri diventa inoltre per lui un mezzo per rafforzare e ispessire quella maschera di giustizia e irreprensibilità che si è costruito, ma che teme possa dissolversi, rivelando la propria nudità.

Non è un caso che, tra le accuse che Gesù rivolge agli scribi e farisei ipocriti, c’è proprio il fatto che essi legano dei fardelli pesanti e li mettono sulle spalle della gente; ma loro non li vogliono muovere neppure con un dito (Mt 23:4).

 

Chi ha pudore, invece, comprende le debolezze degli altri e si mette accanto al fratello sopraffatto dalla sua fragilità umana, sostenendolo e incoraggiandolo come una persona che sa di non essere migliore di lui, e che, anche qualora non fosse lui stesso caduto in quella specifica debolezza, ciò è accaduto solo per la misericordia di Dio.

Fu ad esempio il pudore quello che spinse Sem e Iafet a ricoprire pietosamente il padre Noè che dormiva per terra nudo, reduce da un momento di debolezza culminato in un’imbarazzante sbornia, piuttosto che infierire mancandogli di rispetto, come fece Cam (Ge 9:20-23). È il sentimento del pudore quello che ci richiama costantemente ad essere consapevoli delle travi che albergano nel nostro occhio, prima di azzardarci a proporre di togliere il bruscolo da quello del fratello (Mt 7:1-5).

 

 

Discernere bene

il “gemello” giusto da debellare

 

Se dunque siamo chiamati a combattere l’ipocrisia con tutto noi stessi, non altrettanto dobbiamo fare con il pudore, sentimento semmai da coltivare, nell’umile e discreta consapevolezza della nostra umana fragilità.

Il problema è che invece il mondo d’oggi sta combattendo una guerra a tutto campo, finalizzata solo in apparenza a liberare l’uomo da ogni atteggiamento ipocrita, nell’idea imperante di cui abbiamo parlato in precedenza, secondo cui l’ipocrisia sarebbe l’unico peccato esecrabile di cui doversi liberare. Ma, nelle spingerci verso un giusto e condivisibile rifiuto dell’ipocrisia, il mondo in realtà dissimula quello che è il suo vero obiettivo.

Ciò infatti a cui stiamo giorno dopo giorno assistendo è a una lenta, inesorabile, erosione di quel sano e desiderabile sentimento, che è il pudore.

 

Il risultato di questa falsa lotta all’ipocrisia è una scomparsa del senso d’imbarazzo nell’assumere comportamenti che in passato – magari anche ipocritamente – venivano tenuti nascosti, nella consapevolezza che si trattasse di condotte di cui doversi vergognare.

“Certo – qualcuno dirà – se non altro adesso si agisce senza ipocrisie di sorta”. Magari fosse vero! Di fatto, ciò di cui ci stiamo liberando è del pudore, non dell’ipocrisia. Non è certo l’ipocrisia ciò di cui il mondo d’oggi si è liberato, a giudicare dal dilagante conformismo e ricerca spasmodica dell’apparenza, mentre invece il pudore, il senso del proprio peccato, quello, sì, che si è dissolto come neve al sole.

 

Sono tanti i modi in cui il mondo sta erodendo il senso del pudore, spacciandolo per una lotta a favore della sincerità.

L’attacco si sta perpetrando a vari livelli, da quelli più istituzionali a quelli che invece si avvalgono di strumenti mediatici molto più subdoli. Lo fa ad esempio ogni giorno in televisione, nelle sit-com più divertenti, nei talk-show che si ascoltano sbadatamente nel fare le faccende di casa, nei films e nei serials per ragazzi, così come a volte anche nei programmi più innocenti per bambini.

Sono pressoché inesistenti i programmi in cui, situazioni un tempo giudicate sbagliate o imbarazzanti, non vengano invece presentate in un contesto di perfetta normalità, e vissute con piena e totale serenità e trasparenza, mentre magari sono contrastate dal solito becero ipocrita di turno.

 

Ma c’è anche un ulteriore sistema per sgretolare lentamente il proprio senso del pudore, a cui si stanno inconsapevolmente abituando soprattutto le generazioni più giovani.

Penso ai social network, come Facebook in particolare.

Ora so bene di attirarmi accuse di pigro e pedante tradizionalismo di fronte a questo straordinario mezzo di comunicazione. So perfettamente quanto sia buono, utile ed efficace per trasmettere messaggi positivi ed edificanti, ma vedo allo stesso tempo tanti ragazzi che utilizzano Facebook per mettersi a nudo (a volte purtroppo anche in senso letterale!), confidando davanti allo schermo di un computer, senza alcun pudore, i propri pensieri e le proprie emozioni, nel chiuso di una cameretta che in realtà è spalancata sul mondo intero.

Facebook è un po’ come – mi capita spesso di dire scherzosamente – “camminare tranquillamente in mutande sul proprio terrazzo, pensando di stare in casa propria”.

Continuando a farlo, si diviene così assuefatti a mettere via ogni pudore, che diventa col tempo normale camminare in mutande anche lungo il corso principale della città.

Così facendo, infatti, soprattutto le generazioni più giovani, dietro un falso richiamo alla sincerità nei rapporti con gli altri, anestetizzano ogni sano senso del pudore, fino a soffocare ogni possibile germe di coscienza di peccato.

 

E noi? Beh, di certo non possiamo chiuderci dentro una campana di vetro. Ma al tempo stesso è importante essere consapevoli di questo disegno in atto, che vuole distruggere anche il nostro stesso pudore, sotto le false insegne di una giusta battaglia all’ipocrisia.

 

L’ipocrisia, è lei il “gemello” giusto da debellare, non il pudore.

Il pudore, invece, coltiviamolo come un bene prezioso, un sentimento delicato posto a guardia del nostro cuore, che ci fa essere imbarazzati di noi stessi perché consapevoli del nostro bisogno di ravvederci e di cambiare, disponendoci all’opera di santificazione che il Signore Gesù, per mezzo della Sua Parola, vuole compiere in noi:

“Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Santificali nella verità: la tua parola è verità (Gv 17:16-17).