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Introduzione

 

Fin qui Paolo ha focalizzato l’attenzione sulla composizione della Chiesa, quale forma normativa del solo uomo nuovo, frutto dell’opera della croce. L’accento è stato posto sulla grande novità che Giudei e Gentili sono uniti in Cristo (2:14-16). L’apostolo ha definito la chiesa la “dimora di Dio per mezzo dello Spirito”(2:22) e ha specificato che essa esiste per glorificare Dio, anche davanti ai “principati e le potenze nei luoghi celesti” (2:9-10; 3:21). Infine, ha definito la base dell’unità della chiesa, che siamo chiamati a conservare, in relazione con le tre persone della Trinità (4:1-6). Ora passa a parlare della vita della chiesa.

 

 

Da che cosa dipende la vita della chiesa?

 

“Ma a ciascuno di noi è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo la Scrittura dice: «Salito in alto ha portato in cattività la cattività e ha dato doni agli uomini.» E che cosa è il salire se non che è anche sceso nelle parti più basse della terra? [Infatti] colui che è sceso è lo stesso che è anche asceso al di sopra di tutti i cieli, affinché riempia ogni cosa” (4:7-10).

 

Parlare del funzionamento della Chiesa porta l’apostolo a considerarla nella sua dimensione locale. Come qualsiasi associazione che sopravvive alla visione dei fondatori, bisogna stabilire ciò che determina il funzionamento della chiesa. A questo proposito, la cristianità ha trovato delle soluzioni che non collimano con la “magna carta” che troviamo qui.

 

A partire dal secondo secolo si ergeva a norma sempre di più, sia a livello locale, sia a livello interecclesiale, una speciale casta sacerdotale che rassomigliava quella dei Leviti la quale, nei tempi passati, faceva da intermediaria fra il resto d’Israele e Dio nella vita religiosa del popolo. Sviluppo, questo, che è da mettere in relazione con la “teologia della sostituzione”, ovvero con la pretesa della Chiesa di essere il vero israele, sostituendo il popolo eletto di Dio. Sulla scia di questo sviluppo si consolidò una gerarchia sacerdotale che regnava su un determinato territorio e, contemporaneamente si accantonò il concetto di ekklēsia, ovvero l’insieme di coloro che avevano risposto con fede all’annuncio del vangelo.

 

Secondo il nostro brano, invece, la vita della chiesa dipende dalle particolari espressioni della grazia di Dio elargite da Cristo. Altrove Paolo e Pietro definiscono queste dotazioni “carismi” (gr. charismata), ovvero “particolari espressioni della grazia [gr. charis] di Dio” (Ro 12:6; 1Co 1:7; 12:4; 1P 4:9-10). Questa grazia viene data “a ciascuno di noi”, facendo sì che tutta la chiesa attinga alla stessa fonte di vita e può essere paragonata a un corpo le cui membra sono interdipendenti (Ef 1:23; 4:16). Di conseguenza l’agire della chiesa dovrebbe dipendere da un uso ordinato dei carismi distribuiti dallo Spirito Santo (1Co 12:11; 14:26,40), che qui figurano come diverse “misure” o porzioni della grazia elargita da Cristo.

È contro la natura della chiesa istituire un governo gerarchico e far dipendere il suo funzionamento da canoni che rassomigliano la vita politica delle nazioni, che Gesù esclude devono essere adottati per regolare la vita comunitaria dei suoi discepoli (Mr 10:42-44).

 

Paolo cita il Salmo 68:18 a conferma di quanto ha appena affermato. Secondo questa citazione, Gesù, nella sua ascensione al Padre ha “portato in cattività la cattività” (Ef 4:8, gr. ēchalōteusen  aichalōsian). Queste parole descrivono una processione vittoriosa che, in Efesini, si riferisce al fatto che Cristo ha sconfitto per sempre ciò che aveva reso gli uomini prigionieri del peccato e di Satana (cfr. Eb 2:14-15; 4:14; 1P 3:22).

Nell’occasione a cui fa riferimento Salmo 68:18, quando Davide portò l’arca del patto a Gerusalemme, dopo che era stato per lungo tempo in cattività, il re “distribuì a tutto il popolo, a tutta la moltitudine d’Israele, uomini e donne, un pane per uno, una porzione di carne e un grappolo di uva passa” (2Sa 6:19). Come Davide distribuì questi doni a tutti quanti, allo stesso modo Gesù, dopo il suo ritorno al Padre, ora distribuisce a ogni membro della chiesa una misura di grazia per il bene comune.

 

Nell’applicare a Gesù le parole del Salmo “in alto” (Ef 4:9-10), l’apostolo descrive il movimento verso il basso e poi verso l’alto in modo simile a come Gesù stesso aveva descritto la sua incarnazione e il suo ritorno al Padre: “Sono proceduto dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo, e vado al Padre” (Gv 16:28; cfr. 3:13).

Il brano non dà sostegno alla teoria che Cristo avesse visitato Ades, luogo dei morti, fra la sua morte e successiva risurrezione.  In seguito al suo passaggio trionfante attraverso “i cieli”, da intendere come la biosfera e i cieli stellari, Gesù, Dio Uomo, ha ogni autorità e riempie ogni cosa (si veda Mt 28:18; Fl 2:9-11).

 

 

Il ruolo dei pastori-dottori

 

“E lo stesso ha dato alcuni come apostoli, alcuni come profeti, alcuni come evangelisti, alcuni come pastori e dottori, per il perfezionamento dei santi, in vista dell’opera del ministero in vista dell’edificazione del corpo di Cristo” (4:11-12).

 

I primi doni menzionati, di quelli elargiti da Cristo, sono uomini potenziati dallo Spirito Santo con incarichi determinanti per la nascita, la crescita e la cura della chiesa che egli sta edificando. Le categorie di doni menzionate qui sono quattro, non cinque: l’uso di un unico articolo determinativo per pastori e dottori (gr. tous) li raggruppa insieme. Tre di queste categorie: apostoli, profeti e dottori, figurano in 1Corinzi (12:28) come doni maggiori, rispetto agli altri carismi da cui dipende la vita della chiesa locale. La categoria di evangelisti non figura fra i doni da cui dipende la vita della chiesa locale (1Co 12), in quanto evangelista si rivolge a coloro che non fanno ancora parte della chiesa. Ciò non significa che il dono di evangelista sia meno importante, anzi, da questo dono volge dipende il progresso del vangelo nel mondo non redento.

 

Nel nostro brano Paolo non approfondisce i ruoli di apostoli, profeti ed evangelisti. Ha già definito gli apostoli e i profeti, insieme con la pietra angolare (Cristo), il fondamento su cui la chiesa, composta da Giudei e Gentili, viene edificata (2:20). Sappiamo da brani come Giovanni 16:12-15; 2Timoteo 2:1-2, 2Pietro 3:2, Giuda v. 3 e Apocalisse 22:18-19, che gli apostoli e profeti di Cristo continuano ad avere la loro funzione nella chiesa. La categoria degli evangelisti, invece, corrisponde all’attività missionaria della chiesa in tutto il mondo, per mezzo della quale Dio suscita la fede a salvezza in coloro che si lasciano convincere di peccato e ubbidiscono al vangelo (Mr 16:15-16; Gv 16:7-11; Ro 10:17).

 

Veniamo così alla quarta categoria dei doni menzionati: i pastori-dottori. Ciò che Paolo dice al loro riguardo è molto istruttivo. Mentre non si sofferma né sui requisiti per poter ricoprire un simile ruolo (si veda 1Ti 3:1-8; Tt 1:5-9), ciò che dice arricchisce notevolmente la nostra comprensione del loro ruolo, che ha di mira “il perfezionamento dei santi in vista dell’opera del ministero e dell’edificazione del corpo di Cristo” (v. 12). Da questa descrizione si deduce che il ruolo dei pastori-dottori è legato concettualmente alla vita della chiesa locale.

 

Tutti i conduttori di chiesa, a prescindere dalla scelta del termine per caratterizzarli (“anziani” o “pastori”), farebbero bene a dare attenzione a ciò che questo brano indica come il loro ruolo. Infatti, oltre a insegnare e a svolgere un ministero pastorale, sono preposti per aiutare tutti gli altri membri della chiesa a sviluppare efficacemente i propri doni, un po’ come ha fatto Gianluca Vialli, quando era l’allenato-re/giocatore del Chelsea, a partire dal 1998.  In pratica i conduttori di chiesa sono chiamati ad assumere il duplice ruolo di allenatore/giocatore. Quindi dovrebbero esemplificare l’uso edificante dei carismi e dedicarsi alla formazione degli altri membri della chiesa, per assicurare la crescita e il pieno funzionamento di tutto il corpo. Qualunque sia il tempo che abbiano a disposizione per esplicare il loro ruolo, dovrebbero dividere questo tempo fra queste due attività.

 

Insito in questa concezione del ruolo dei pastori/dottori è il concetto di moltiplicazione. Sia Barnaba e Saulo ad Antiochia di Siria (At 11:25-26; 13:1-4) che Paolo a Efeso (At 19:8-10; 20:17-36), avendo preparato altri a sostituirsi, si resero liberi per dedicarsi all’annuncio del vangelo altrove. In modo simili i conduttori che mettono in pratica l’insegnamento di Efesini 4:11-16, favoriranno non solo la crescita della chiesa locale ma anche la moltiplicazione delle chiese per mezzo della moltiplicazione delle persone in grado di impegnarsi in vari aspetti “dell’opera del ministero” compresi i fratelli dotati di “doni di governo” (1Co 12:28).  

 

 

Gli obiettivi da raggiungere

 

“Finché raggiungeremo tutti l’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomini maturi, allo statura della pienezza di Cristo, di modo che non siamo più dei novizi sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, dalla frode degli uomini, dall’astuzia della macchinazioni dell’errore, ma perseguendo verità in amore cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, Cristo” (4:13-15).

 

Per giungere a qualche risultato in qualsiasi ambito, bisogna definire almeno un obiettivo. Qui il primo obiettivo è “l’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”. Qui la parola “fede” si riferisce alla verità rivelata, comprese le rivelazioni legate all’entrata in vigore del nuovo patto. Gesù aveva pregato che i suoi discepoli venissero “santificati nella verità”, aggiungendo, “la tua Parola è verità” (Gv 17:17). Mentre stava a Efeso Paolo aveva insegnato “tutto il consiglio di Dio” agli anziani della chiesa (At 20:17-18,27). È questa trasmissione della verità che Paolo prevede qui.

L’altro aspetto è: “la conoscenza del Figlio di Dio”. Sappiamo che uno dei compiti principali dello Spirito Santo nella vita dei discepoli di Cristo è proprio quello di rivelare e glorificare Cristo (Gv 16:14). Più avanti in Efesini Paolo riassume quest’aspetto con le parole “imparare Cristo” (Ef 4:20).

 

Questo primo obiettivo va accompagnato da quello della maturazione del carattere dei membri della chiesa. Paolo riprenderà questo aspetto nella seconda parte del capitolo (vv. 17-32). Parte dello scopo di essere persone mature, radicate nella verità della Parola di Dio, è di essere protetti dalle astuzie con cui Satana tenta di sviare il pensiero e il cammino dei santi. Per farlo Satana, soprannominato “angelo di luce” (2Co 11:14) si serve, fra le altre cose, di proposte che sembrano sane ma che contengono delle venature di falsità ingannatrice.

Questa protezione contro “le insidie del diavolo” (6:11) libera il credente da continui conflitti per poter perseguire la “verità in amore”. L’abbinamento “verità in amore” corrisponde a ciò che Giovanni e gli altri apostoli avevano visto nella vita di Gesù, la Parola di Dio incarnata. Infatti Giovanni descrive la Parola incarnata come “piena di grazia e di verità” (Gv 1:14). La corrispondenza fra ciò che i Dodici avevano visto in Gesù e la chiamata a perseguire “verità in amore” non è affatto casuale. Dio ha di mira di conformare la vita dei suoi figli adottivi a quella di Gesù, avendo l’opera dello Spirito Santo nella nostra vita precisamente questo scopo (2Co 3:18; cfr. Ro 8:28-30).

 

Ne consegue che atti di presunto amore, quando contrastano con la verità di Dio, in realtà non esprimono il vero amore (agapē) ma soltanto un sentimento superficiale. Similmente il vanto di essere ortodossi, qualora non sia accompagnato dall’amore (agapē) per Dio e per il prossimo, non ha valore. Ne dà conferma l’avvertimento che Gesù fece proprio alla chiesa di Efeso circa trent’anni dopo che essa aveva ricevuto questa lettera di Paolo (si veda Ap 2:2-6). Più la nostra vita sarà caratterizzata dalla fusione di “verità in amore”, più potremo dire di essere cresciuti “in ogni cosa verso colui che è il capo, Cristo”.

 

 

Il funzionamento del corpo

 

“Da lui prende origine tutto il corpo, ben collegato e ben connesso che, mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare sé stesso nell’amore” (4:16).

 

Qui le frasi chiave sono due:

• “Da lui prende origine tutto il corpo” e

• “[il corpo] trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte”.

L’unica persona indispensabile per la vita di qualsiasi chiesa locale è Cristo stesso.

Da lui prende origine tutto il corpo ed è lui che fornisce una particolare espressione della grazia a ogni suo membro, per mezzo dello Spirito Santo.

 

Chi si crede indispensabile perché l’opera della chiesa di cui fa parte vada avanti, dovrebbe imparare a prendere in considerazione la potenzialità degli altri membri.

Tutti, indistintamente, dovrebbero imparare a sottomettersi “gli uni agli altri nel timore di Cristo”, nel rispetto dei ruoli specifici conferiti ai membri da Cristo (5:21).

 

Le parole “ben collegato e ben connesso” servono a sottolineare l’unità nella diversità della chiesa.

Ne consegue che ognuno deve avere un’immagine di sé stesso come di una parte specifica del corpo che vi contribuisce vigore e una particolare funzione che ne determina l’edificazione “nell’amore”. Inoltre deve avere la stessa stima di tutti gli altri membri.

 

 

Per la riflessione personale

o lo studio di gruppo

 

1. In quali modi la chiesa dipende da Cristo per la sua vita?

 

2. Quali sono le responsabilità dei pastori-dottori nella chiesa locale?

 

3. Qual è il modo migliore di proteggersi dalle “arti seduttrici dell’errore”?