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Il telefono e la preghiera

 

Forse qualcuno riderà di questo accostamento: telefono e preghiera.

Il telefono è un apparecchio utilissimo per comunicare, ma può diventare uno strumento di tortura, inventato per la disperazione del genere umano, capace di far saltare i nervi anche all’individuo più calmo.

Mentre stai pranzando, cenando, mentre stai per andare alla stazione e sei in ritardo, mentre stai facendo il bagno… squilla il telefono.

“Basta!”, ti viene voglia di gridare!

Ma il telefono celeste è ben diverso e opera miracoli.

 

Dal giorno nel quale si diventa telefonisti, comincia un’epoca nuova nella vita; tutto il nostro essere si trasforma; un soffio vivificatore, dapprima sconosciuto, si impadronisce di noi e ci allieta.

Come è stato detto, la preghiera è il respiro dell’anima e la chiave per aprire il cielo. Gesù garantisce l’esaudimento della preghiera fatta con fede e sincerità:

 

“Se chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14: 14).

 

Questo filo telefonico ci accompagna sempre e sempre dobbiamo trarne vantaggio:

“Orando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e di supplicazioni; ed a questo vegliando con ogni perseveranza e supplicazione per tutti i santi” (Ef 6: 18).

 

Pregare in ogni tempo! È un’esortazione esagerata?

Ma allora dovremo stare tutto il giorno in ginocchio? Anche nelle fabbriche? Nei campi? Nelle banche?

 

“Non chiunque mi dice: «Signore, Signore!» entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7: 21).

Cioè: non chi prega ad ogni momento, ma chi si sforza di porre in atto nella vita quello che professa con le labbra entrerà nel regno dei cieli.

Una mamma che sta in giro tutto il giorno a distribuire opuscoli, che partecipa a continui incontri di preghiera o di studi lasciando a casa i figli incustoditi, non avrebbe certo l’approvazione di Dio, tanto per fare un esempio.

 

E allora?

Allora, col telefono, tutto è tutto risolto: pregare significa parlare con Dio.

Possiamo dirgli cosa abbiamo fatto durante la giornata e lodarlo per il suo amore e la sua bontà. Possiamo ringraziarlo per tutto quello che ha fatto e fa per noi e naturalmente possiamo anche domandargli ciò di cui abbiamo bisogno. Ma non dobbiamo certo pregare il Signore tutto il giorno e in ogni luogo!

Bisogna liberarsi da certi schemi che hanno formalizzato e spesso ingabbiato la preghiera e la sua potenza.

 

“Egli ama la giustizia e l’equità; la terra è piena della benevolenza del Signore” (Sl 32: 5).

 

Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino” (Is 55: 6).

 

È facile, del resto, aver paura di sbagliare, di non sapere trovare le parole giuste, di non rispettare le regole.

 

 

Spontaneità

 

Per molte persone purtroppo pregare vuol dire recitare delle preghiere, preghiere da sapere a memoria. Ma le preghiere diventano così formule, che è facilissimo dimenticare. Nel momento stesso in cui le recitiamo però avvertiamo subito che sono inadatte a esprimere ciò che proviamo nel nostro intimo in quel momento.

Viene voglia di piangere, sfogarsi, protestare, discutere, chiacchierare, disapprovare, oppure semplicemente di far silenzio.

Cioè, con le preghiere preparate, si ha l’impressione di non sapere o di non poter pregare.

 

Spesso sentiamo dire:

“Frequento la chiesa, sono assiduo alle riunioni, ma non so come parlare al Signore”. In tal caso comunque basta ricorrere al al telefono e tutto va a posto.

 

“Non usate troppe parole…” (Mt 6:7)

 

Per telefonare a Dio, non occorrono formule speciali, né lunghe tiritere, ma solo spontaneità. Pregare non vuol dire aprire la memoria, ma il cuore.

Pregare non significa preoccuparsi di ciò che si deve dire, ma significa dire al Signore ciò che ci preoccupa,

“Io amo quelli che mi amano e quelli che mi cercano mi trovano” (Pr 8: 17).

 

Quindi pregare significa dire al Signore tutto ciò che si vuole. Oppure non dire nulla, tacere: la preghiera è fatta anche di silenzio.

Quando due si amano, non sono mai imbarazzati dai silenzi. I silenzi sono imbarazzanti, e ci si precipita a riempirli con inutili futilità soltanto nei rapporti tra estranei.

Non ci sono codici da rispettare nella preghiera, formulari burocratici da riempire.

 

L’unico codice che non va mai violato è l’espressione autentica di ciò che si ha dentro“Apri la bocca soltanto se sei sicuro che ciò che stai per dire è più bello del silenzio”, ammonisce un proverbio arabo.

L’avvertimento vale naturalmente anche per la preghiera.

Noi invece parliamo, non facciamo altro che parlare.

 

Siamo i furbi strateghi di una tattica difensiva; parliamo per non ascoltare il Signore.

Abbiamo paura della sua Parola e giochiamo d’anticipo, lo imbavagliamo sventagliandogli davanti le nostre chiacchiere.

La preghiera autentica non è fatta soltanto di parole (la nostre); è fatta essenzialmente di ascolto della sua Parola.

Stiamocene in silenzio dunque se vogliamo sentire che cosa il Signore ha da dirci, che cosa vuole da noi: “Ascolta, Israele!”, “Ascolta, uomo di preghiera”.

 

L’autenticità della preghiera si misura precisamente dalla nostra capacità di ascolto, dalla nostra disponibilità ad aprire le orecchie e il cuore.

 

Permetti?

Che fastidio certe interminabili telefonate di inguaribili chiacchieroni!

Per illustrarti il loro caso, ti raccontano le cose partendo dalla preistoria, ti rifilano i dettagli più insignificanti, non ti risparmiano centinaia di circostanze assolutamente estranee al fatto. Afferri subito il nocciolo della questione e tenti di bloccare quel diluvio di parole, ma non c’è verso, devi ascoltare tutto fino in fondo.

Qualcuno poi viene a chiedere consiglio, ma se ne va senza aver neppure ascoltato una parola tua. Magari poi si lamentano con qualche amico della tua laconicità: in realtà non eri riuscito affatto a esprimere la mia opinione.

Forse potremmo tener presente un’immagine molto umana ma efficace: quella di Dio che, infastidito dalle nostre chiacchiere, ci interrompe bruscamente: “Basta! ho capito, adesso posso dire la mia?”

 

“E nel pregare non usare soverchie dicerie come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole” (Mt 6: 7).

 

Dobbiamo renderci conto che Dio ha diritto di dire la sua, che del resto è la cosa più importante: i suoi punti di vista, i suoi progetti, i suoi giudizi, i suoi ordini.

 

“O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro richiede da te l’Eterno, che tu ami la misericordia, e cammini umilmente col tuo Dio?” (Mi 6: 8).

 

Chi prega viene informato su ciò che Dio gli richiede. Non basta chiedere qualcosa a Dio, occorre anche prendere atto delle sue richieste, cosa che si può fare solo nel silenzio.

“Nell’amore, un silenzio vale più di un discorso” (Pascal).

 

 

OSTACOLI ALLA PREGHIERA

 

Cerchiamo ora di individuare i nemici della preghiera, gli ostacoli, gli intoppi incontrati sul suo cammino.

 

Il primo ostacolo è IL CHIASSO.

Qualcuno ha parlato giustamente di un inquinamento sonoro della Terra.

Dal chiasso siamo aggrediti da tutte le parti, non c’è scampo.

Motociclette, televisori a pieno volume, aerei supersonici, transistor e caroselli infernali di macchine, musica da discoteche: siamo assediati dai rumori, piccoli e grandi. Forse alcune persone considerano il rumore un’affer-
mazione di virilità e di coraggio: a ben vedere però costoro sono pieni di paura, paura di sé stessi, della propria solitudine, della propria vita insignificante.

 

Il silenzio, come una belva braccata, è respinto in spazi sempre più angusti e precari.

Il rumore è come un demone che si impadronisce dei nostri centri vitali e può compiervi devastazioni inimmaginabili, anche se noi non ce ne rendiamo conto.

 

Eppure l’uomo sembra essersi abituato benissimo al baccano. Ne ha quasi bisogno, per stordirsi, per evitare di fare i conti col proprio io, di affacciarsi sul proprio vuoto e misurarne la drammatica vacuità.

 

Ma riflettiamoci sopra: senza silenzio non ci può essere preghiera. Per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di Dio, occorre creare uno spazio di solitudine e di silenzio, eliminare tutte le interferenze, bloccare tutte le voci fuorvianti.

 

“Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, serratone l’uscio fa’ orazione al Padre tuo che è nel segreto; e il padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Mt 6: 6).

 

Il cuore umano diventa il luogo segreto dell’appuntamento, dell’incontro, il santuario della presenza di Dio: il silenzio è il luogo di incontro con Dio.

Se ci guardiamo intorno però, Dio non pare affatto presente nel mondo: sembra che sia morto definitivamente. Ma proviamo a fare un po’ di silenzio.

“Per tutto v’è il suo tempo…” (Ec 3:1 –8).

Non preoccupiamoci delle parole da scegliere per conversare con Dio, ma stiamo in silenzio alla sua presenza (2Te 1:5-10).

 

Il secondo ostacolo è IL MITO DEL RENDIMENTO.

Una persona anziana, qualche tempo fa, mi confidava che suo figlio stava costruendo una nuova casa, munita di ogni comodità. Erano previste tante stanze, ma nessuna era destinata a lui. Probabilmente il figlio pensava di trovargli una stanza in una Casa di riposo.

Molte persone anziane, nella società moderna, sono le vittime di un idolo che si chiama “rendimento”.

 

Il mito dell’efficienza sta contagiando un po’ tutti, anche i credenti.

Uno è utile solo se lavora, produce, rende.

Se non è più in grado di farlo, viene lasciato in disparte, con i suoi rimpianti, e pregato di occupare poco spazio e non dar fastidio, visto che non possiamo permetterci il lusso di tollerare braccia inutili.

 

Con una mentalità del genere, è logico che anche la preghiera venga confinata nei luoghi adibiti allo scopo: relegata in soffitta, tra le carabattole inutili, salvo a rispolverarla affannosamente, in determinate circostanze (un esame, un’operazione chirurgica o finanziaria, una pratica che non va in porto).

Difficile parlare di preghiera a un uomo dinamico, intraprendente, un uomo del nostro tempo, senza che questi ne sia infastidito, come un ventenne costretto ad andare a spasso con una signora ottantenne, finendo fatalmente col trovarla ingombrante e col vergognarsi della sua compagnia.

 

La preghiera a vista umana non serve a nulla, non rende. I suoi prodotti non si possono collocare sul mercato, le sue somme non trovano posto nelle partite doppie dei registri contabili, e alla fine fanno perdere del tempo.

È impossibile apprezzare il valore della preghiera se non si acquista il senso dell’inutile.

L’Ecclesiaste ricorda che “tutto è vanità e un correr dietro al vento” (1:14).

L’uomo valuta la vita in termini di guadagno e perdita, ma che cosa guadagna che non debba poi perdere?

 

Il solo vero bene.

E c’è sempre qualcuno che ride dei nostri conti: contiamo il denaro, le decorazioni, i voti elettorali, contiamo i clienti, gli uomini, le donne, i prigionieri, le pecore, i cavalli da corsa…

Ma prima o poi una mano si posa sulla nostra spalla e ci chiede conto della nostra anima.

 

“La campagna d’un certo uomo ricco fruttò copiosamente; ed egli ragionava così fra sé medesimo: «Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti?» E disse: «Questo farò, demolirò i miei granai e ne fabbricherò dei più vasti, e vi raccoglierò tutto il mio grano e i miei beni, e dirò all’anima mia: – Anima, tu hai molti beni riposti per molti anni, riposati, mangia, bevi, godi -. Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata…»” (Lu 12: 16-21).

 

Per guarire dalla terribile cancrena dell’efficienza, del rendimento, sotto lo sguardo del supervisore dei conti, bisogna fare l’inventario di ciò che conta e di ciò che non conta.

Allora forse saremo in grado di rispondere alla domanda: “A che cosa serve la preghiera”?

E chissà che la domanda non venga capovolta così: “A cosa serve tutto il resto?”.

 

“Che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua?” (Mt 16: 26).

 

Valore delle persone “insignificanti”.

Mi ha sempre impressionato una scena descritta nell’Esodo.

I figli di Israele, allora una banda di fuggiaschi, si scontrò in un combattimento furibondo con i primi nemici: gli Amalekiti.

Ebbene, lo scrittore, invece di descrivere le gesta di Giosuè e dei combattenti, indugia a parlare diffusamente di Mosè, Aaronne e Hur, che se ne stanno fuori dalla mischia, appartati in cima a un colle:

 

“… e avvenne che, quando Mosè teneva la mano alzata Israele vinceva; e quando la lasciava cadere vinceva Amalek. Or siccome le mani di Mosè s’eran fatte stanche, essi presero una pietra, gliela posero sotto, ed egli vi si mise a sedere; e Aaronne e Hur gli sostenevano le mani l’uno da una parte, l’altro dall’altra; così le sue mani rimasero immobili fino al tramonto del sole. E Giosuè sconfisse Amalek e la sua gente” (Es 17: 11-13).

 

Strano modo di raccontare una battaglia. L’attenzione del lettore, invece di concentrarsi sui protagonisti, si concentra su chi se ne sta ai margini, tra le quinte, al sicuro.

L’obiettivo è puntato su un colle, dove tre uomini stanno facendo qualcosa di ben diverso dal combattere, in disparte.

Eppure, a pensarci bene, è questa la chiave cristiana per comprendere la realtà di certe vittorie: la battaglia talvolta è vinta da chi non vi partecipa direttamente. Oppure, se vogliamo, la mischia decisiva non avviene sul campo, ma su di un colle. Ciò che capita sul campo non ne

è che la conseguenza.

 

Se gli eccitati attivisti, anche in senso buono, scoprissero a un tratto a chi sono dovuti certi brillanti successi, certe realizzazioni, avrebbero la misura della loro pochezza.

Se predicatori, evangelizzatori, conferenzieri e organizzatori instancabili capissero che sono proprio le persone apparentemente insignificanti che tengono in piedi, fanno camminare e funzionare il mondo, la chiesa e tutto il resto, perderebbero un po’ della loro spavalderia.

 

Comunque sia, resta il valore, la necessità insostituibile di questa gente “insignificante”, che se ne sta in disparte, apparentemente estranea alla mischia, capace però di pregare.

Soltanto grazie a questi instancabili faticatori nell’ombra, a questo esercito in preghiera questa “palla di stracci e di peccati che rotola intorno al sole” non si inceppa.

 

“E quando ebbe preso il libro, le quattro creature viventi e i ventiquattro anziani si prostrarono davanti all’agnello, avendo ciascuno una cetra e delle coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere dei santi” (Ap 5:8; Sl 141:2).

 

Terzo ostacolo: SCARSITÀ DI TEMPO:

“Pregherei volentieri, ma mi manca il tempo, sono oberato di lavoro…”.

Ma riflettiamo: si sono mai visti due innamorati che non trovano il tempo per incontrarsi, parlarsi, comunicare, stare insieme?

Per l’appuntamento con la preghiera è diverso: per molti credenti la scarsità di tempo costituisce una difficoltà insormontabile.

La verità è che a loro non manca il tempo, manca piuttosto l’amore.

 

O la preghiera si colloca in una logica, in un dinamismo d’amore, e allora il tempo si trova sempre, oppure la preghiera non è che una è pratica, un dovere, una sorta di obbligo fiscale, ossia non è niente di niente ed è naturale che l’orologio fornisca generosi e abbondanti pretesti a suo sfavore.

 

Dio si aspetta da noi il regalo del nostro tempo, non si accontenta delle briciole, degli avanzi, vuole un dono generoso, consistente, senza troppi calcoli.

Dio non è un mendicante che viene a bussare alla nostra porta e ci chiede il superfluo.

No, pretende il necessario, il necessario per l’amore.

 

• “Siate allegri nella speranza pazienti nell’afflizione e perseveranti nella preghiera…” (Ro 12:12).

 

• “Non cessate mai di pregare” (Ro 5:17).

 

E non pensiamo di fare un grosso favore a Dio se, nel groviglio dei nostri impegni, troviamo dieci minuti da dedicare alla preghiera. In realtà il favore lo abbiamo fatto a noi stessi: la preghiera è un gran guadagno per noi (Lu 18:1).

La preghiera non può essere confinata nei ritagli delle occupazione quotidiane. Deve essere, al contrario, la struttura portante della nostra giornata.

 

E più aumenta il peso delle occupazioni, più dobbiamo valorizzare la preghiera.

(“Sono troppo occupato, per questo devo occuparmi di Dio… Non ho tempo, per questo devo pregare di più… Non ce la faccio a arrivare a tutto, per questo devo sapermi fermare”.)

 

Guadagnare tempo! Siamo nella logica evangelica: perdere per guadagnare, buttar via per trovare, possedere solo ciò che si dà.

 

“E Pietro prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e t’abbiamo seguitato». E Gesù rispose: «Io vi dico in verità che non v’è alcuno che abbia lasciato casa, o figlioli, o campi, per amore di me e per amore dell’Evangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figliuoli, campi, insieme a persecuzioni; e nel secolo avvenire, la vita eterna»” (Mr 10:28-30).

 

L’elenco di Pietro è incompleto, beninteso; possiamo aggiungervi senza esitare anche il tempo.

Non abbiamo tempo per pregare?

Denunciamo una preoccupante mancanza di liquido?

Dobbiamo avere il coraggio di buttarci in un’operazione speculativa che ci assicuri un ampio margine di guadagno.

Mettiamoci a pregare proprio quando non abbiamo tempo e rimaniamo in ginocchio più a lungo possibile: ci accorgeremo di essere diventati ricchissimi di tempo.

Tanto da poterne fare dono anche agli altri.

 

Quarto ostacolo: LA MANIA DELLA VELOCITÀ.

Il mondo corre, a velocità pazzesca, animato da una gran fretta.

Chi è costretto, per diverse ragioni, a macinare chilometri e chilometri in macchina ne ricava un’impressione di sgomento: sorpassi arrischiati, prepotenze, impazienze, rischi incredibili.

Si vuol superare ad ogni costo, arrivare prima, precedere, guadagnare anche pochi metri, bruciare i semafori, anticipare gli altri.

Ma perché?

Sarebbe interessante accertare quanti e quali mai appuntamenti debbano rispettare certi maniaci della velocità, quali cose importantissime debbano fare.

Scopriremmo che quasi sempre quella frenesia è ingiustificata: si giocano la vita sul filo dei centesimi di secondo, per arrivare dove?

Magari al bar, a discutere su un goal.

 

“Tutto è vanità e un correre dietro al vento” (Ec 1:14; 2:17).

Cosa guadagna l’uomo che non debba poi perdere?