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Il debito, sanzione per il peccato

 

Nella seconda parte del Padre Nostro, quella dedicata alle richieste per le necessità umane, incontriamo questa petizione concernente il tema della riconciliazione.

Solitamente il senso attribuito a questa richiesta che Gesù insegna a rivolgere al Padre è il seguente: rimetti a noi i nostri debiti affinché anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Questa che sembra essere un’interpretazione soddisfacente, normalmente accolta con favore, avrebbe tra l’altro il merito della chiarezza e della semplicità. Ma in realtà la comprensione di questa petizione, come le altre del Padre Nostro, non è così scontata.

 

Noi seguiremo la versione di Matteo per comprenderne bene il significato nel contesto di tutto il brano, perché è Gesù stesso che più avanti ne dà l’interpretazione. E nella redazione di Matteo abbiamo: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Diversamente da Luca, la versione di Matteo lavora più sul concetto di debito che su quello di peccato.

 

È noto che c’è una differenza tra peccato e debito: un conto è il peccato che si commette (la colpa), altra cosa è il debito, cioè la sanzione che scatta nel momento in cui viene riconosciuta la colpevolezza.

Ogni discorso sul debito implica in sostanza che c’è una pena da scontare per rimettere a posto la giustizia.

Quindi la richiesta del Padre Nostro fa riferimento a dei debiti che devono essere in qualche modo annullati, condonati.

 

 

Una contrapposizione errata

 

Ora, però, c’è da intendere bene questa seconda parte: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Perché qui in realtà sembra emergere una vera e propria condizione.

Come dire: “Nella misura in cui noi rimettiamo ai nostri debitori i loro debiti, possiamo chiedere a Dio di condonare i nostri”.

E sembrerebbe effettivamente che l’interpre-
tazione più corretta sia questa, cioè che Dio nel perdonarci sia condizionato dalla nostra disponibilità a perdonare gli altri.

 

Nel vangelo di Matteo, Gesù, dopo aver insegnato il Padre Nostro, va avanti con il suo discorso della montagna e dice:

“Voi infatti se perdonerete agli uomini le loro colpe, allora il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi. Ma se voi non le perdonerete, neanche il Padre vostro celeste le perdonerà a voi” (6:14).

 

L’unica frase di tutto il Padre Nostro che Gesù riprende è questa. Con questa affermazione egli ne chiarisce il senso, cioè dichiara esplicitamente che nella petizione si stabilisce una condizione“Se tu sei disposto a perdonare, anch’io ti perdono; ma se non sei disposto, non ti perdono”.

 

A volte si sente dire: il Dio dell’Antico Testamento è il Dio giudice, severo, talvolta vendicativo, mentre Gesù Cristo ci ha parlato di un altro Dio: il Dio buono, il Dio misericordioso, il Dio dell’amore. Quasi vengono proposte due immagini di Dio opposte l’una all’altra.

Parlare di un Dio dell’Antico Testamento e di un Dio del Nuovo Testamento è in realtà un errore teologico che può condurre a visioni schizofreniche della storia salvezza.

 

Certo, si può comprendere come l’immagine di un Dio misericordioso e che perdona sempre sia più attraente rispetto al Dio che applica la giustizia, ma non è corretto utilizzare i termini giustizia e amore come appartenenti a categorie contrapposte.

Se noi osserviamo bene, vediamo che in realtà la categoria più importante che la Bibbia sceglie e che Gesù fa propria, per indicare la relazione dell’uomo con Dio, è quella della giustizia. Quindi, misericordia, perdono, amore, rientrano nella giustizia di Dio e ne rappresentano il vertice più alto della sua manifestazione.

 

La stessa antitesi a volte affiora nel considerare la legge in contrapposizione all’amore: l’amore viene catalogato tra i sentimenti, tra gli affetti, la legge tra quei doveri un po’ pesanti che bisogna onorare… Ma la Bibbia non la pensa così: non ci dice che da una parte c’è l’amore e dall’altra c’è la legge, ma l’amore è compreso nella legge.

Infatti qual è il comandamento più importante della legge? “Ama Dio e il tuo prossimo”.

 

È interessante notare come ciò che noi poniamo nell’ambito degli affetti, dei sentimenti, nella Bibbia è invece un comandamento. Ma se è un comandamento, significa che rientra proprio all’interno della concezione biblica della giustizia, per cui possiamo affermare che l’amore è la manifestazione più alta della giustizia.

Ecco allora che in questa petizione “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” c’è dentro tutto, ma proprio nell’ambito della giustizia.

 

 

Il desiderio di essere perdonati

e la difficoltà di perdonare

 

Non dobbiamo dunque meravigliarci se quel “rimetti a noi i nostri debiti” ci parla di un condono che Dio è però disposto a concedere – afferma Gesù – nella misura in cui il discepolo è a sua volta disposto a condonare chi è in debito verso di lui.

Non è quindi “gratuito” il perdono di Dio, ma legato a una condizione, che è tutt’altro che facile da realizzare. Se tutti infatti desiderano essere perdonati, perdonare ai propri debitori e ai propri nemici è assai meno facile.

 

Prendiamo ad esempio uno dei profeti cosiddetti minori, il profeta Giona.

Riassumiamo in sintesi la storia: Giona sente la chiamata di Dio che gli ordina di andare a Ninive. Ninive è la grande città, capitale degli Assiri che avevano distrutto il popolo di Israele, quindi la città nemica per eccellenza, la città che in un certo senso bisogna odiare, perché i nemici in genere si odiano, o quanto meno si vogliono tenere distanti. Dio dice: “Va nella città nemica e proclama che la loro malvagità è salita fino a me, e quindi capiranno bene cosa succede se non cambiano vita”.

 

E Giona cosa fa? Fugge dalla parte opposta. Invece di andare verso Oriente fugge verso Tarsis, prende il mare e succede – conosciamo la storia – che finisce nel ventre del pesce, il pesce lo rigetta, e una volta salvato dal cuore delle acque, il Signore ritorna alla carica: “Va a Ninive e di’ loro, ancora 40 giorni e la città sarà distrutta se non si convertono”.

A questo punto Giona – visto come è andata la prima volta – si guarda bene dal disobbedire e va a Ninive. E lì succede qualcosa di straordinario: Giona predica e si convertono tutti, anche il re di Ninive, perfino gli animali fanno penitenza, tutti i viventi a Ninive cambiano vita.

 

Un evento straordinario, che ha dell’incredibile, Giona avrebbe dovuto esultare, avrebbe dovuto fare un doppio salto mortale per la gioia, e dire: “Come sei potente Signore mio! È bastato aprire la bocca – io che ero così prevenuto e riluttante – e guarda che cosa è successo!”

Invece leggiamo: “Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito…” (Gio 4).

 

Concentrato su quella pianta di ricino che Dio gli ha fatto crescere in un giorno e una notte, Giona arriva a preferire la morte alla vita, perché non ha più questa pianta che con la sua ombra lo ripara dal sole cocente.

Quando si perde lo sguardo di Dio si vede solo il proprio particolare. E lo sguardo di Dio aveva invece condotto Giona a osservare in grande, a osservare il fatto che una popolazione intera che era destinata alla morte è stata restituita alla vita.

 

 

Per noi un Dio misericordioso,

per gli altri un Dio giusto

 

Abbiamo compreso dal testo qual’era il problema di Giona. Non era la paura di andare a Ninive perché temeva che lo facessero fuori, la sua paura era legata al fatto che il suo Dio, il Dio che aveva sempre protetto Israele da tutte le popolazioni straniere, quel Dio che aveva condotto il popolo di Israele a schiacciare i nemici,mostrasse la sua misericordia e concedesse il perdono proprio alla grande città di Ninive, la città idolatra per eccellenza, la città nemica.

A Giona non andava più bene questo Dio, avrebbe voluto – potremmo dire – cambiare Dio.

E l’esperienza di Giona non è in fondo così lontana dalla nostra: anche a noi piace pensare a un Dio che sia in primo luogo un Dio misericordioso, ma quando è misericordioso nei riguardi dei nostri nemici, allora molto meglio un Dio giusto, anzi pretendiamo un Dio che sia giusto.

 

Quindi il Dio misericordioso deve esserlo con me, con i miei parenti, con i miei amici, con il mio clan, ma certo non con i miei nemici.

E Giona non riesce ad accettare proprio questo, si oppone all’idea che Dio agisca in questo modo, eppure Dio vuole mostrargli proprio questa dimensione della sua giustizia e del suo agire.

 

A Giona che pretende giustizia, Dio pone la domanda:

“Ti sembra giusto essere così sdegnato?”. “Tu ti dai pena per una pianta di ricino e io non dovrei aver pietà di Ninive? Ti sembra giusto?”.

La domanda finale che pone a Giona non ha risposta nel libro, non sappiamo se Giona, “la colomba” (così vuol dire in ebraico il suo nome) porterà il ramoscello di pace oppure no.

 

Ecco, a proposito della presunta dualità tra il Dio severo dell’Antico Testamento e il Dio misericordioso del Nuovo Testamento: ciò che abbiamo considerato a proposito di Giona riguarda il Dio dell’Antico Testamento. Questo è il Dio documentato in modo polemico dall’Antico Testamento per dire:

“Dio, se è misericordioso, non lo è solo per te, lo è per te solo se accetti prima di tutto che egli sia misericordioso nei confronti dei tuoi nemici”.

 

 

Perdonare… sempre!

 

Prendiamo ora in considerazione un altro brano del vangelo di Matteo che riguarda il perdono: la parabola del servo spietato (Mt 18:21-35).

Pietro si rende conto che per guidare la comunità cristiana e preservarne la vita stessa, è necessario saper perdonare.

Sì, ma quante volte? Sempre?

Gesù risponde: “Settanta volte sette”.

Come sappiamo, il numero sette è il numero della pienezza per Israele, e la risposta di Gesù lavora proprio su questo numero che richiama anche Genesi 4:23-24.

Nella storia raccontata in Genesi siamo agli antipodi rispetto alla possibilità di concedere il perdono, siamo di fronte al dilagare della vendetta e delle rappresaglie. Lamech dice:

“Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette volte”.

Gesù, all’opposto, dice che bisogna perdonare non sette volte, ma settanta volte sette, assolutamente sempre. E per spiegare questo racconta la parabola.

 

Riassumiamola brevemente: un servo ha un debito enorme verso il suo re.

La giustizia – intesa come rigido rapporto di dare e avere – prescriverebbe che il servo sia venduto assieme alla sua famiglia per pagare il debito.

Ma il re, di fronte alle implorazioni del servo, decide di non esigere quanto gli è dovuto, e si appella a una concezione più alta di giustizia, che gli consente di condonare il debito. Ma accade che poco dopo, questo servo si rifiuta di condonare a sua volta un suo servitore che non era in grado di restituirgli una somma modesta di denaro, ma pretende a rigore di giustizia che gli venga restituito il debito interamente.

Il re allora, informato dell’accaduto, esige da quel servo il pagamento, senza sconti, del debito appena prima condonato. Il re, sdegnato, lo dà in mano agli aguzzini mostrando inaspettatamente un tratto violento nel volto del Dio-amore annunciato da Gesù.

 

Generalmente quando si commenta questo brano si approfondisce di più la prima parte, quella relativa al Dio misericordioso, che condona tutto. La seconda parte – che riguarda la consegna del servo in mano agli aguzzini in una situazione peggiore a quella di prima – è spesso lasciata in ombra.

In realtà, dietro questo testo c’è il grande diagramma della giustizia in Israele che Gesù fa propria. Una giustizia che funzionava su due livelli diversi: il livello della giustizia ordinaria, e quello della giustizia straordinaria.

 

La giustizia ordinaria è quella forense, quella retributiva, quella che tutti i sistemi giuridici conoscono e che punisce chi infrange le leggi. L’altra, invece, la giustizia straordinaria, proveniva da antichi codici della Mesopotamia ed era prerogativa del re, il quale poteva vantare un contatto diretto con il divino.

Egli aveva la possibilità di sospendere la logica della giustizia forense che sostanzialmente richiede di sanare il debito, avocando a sé la possibilità di condonare tutto: il re lo poteva fare, era nel suo diritto.

 

In altri termini, il re della parabola, quando il servo invoca misericordia, applica la giustizia del re, per cui gli condona tutto.

Il servo condonato, invece, quando esce e incontra il suo debitore, applica nei suoi confronti la giustizia forense.

Il punto è che l’assemblea dei servi coglie la differenza, la discordanza: il servo poteva rinunciare al suo diritto di recuperare il piccolo credito nei confronti del suo debitore e invece non lo fa… e gli altri lo notano.

Questo vuol dire che la giustizia del re aveva contagiato la mentalità comune in una direzione positiva e di bontà, per cui subito riescono a cogliere l’azione incoerente di questo primo servo. Vanno a riferire al re l’accaduto, e il re che cosa fa? Riapplica la giustizia forense, in modo ancor più radicale di prima, perché lo mette in mano agli aguzzini.

 

 

Misericordia e giustizia nell’azione di Dio

 

Notiamo a questo punto, però, che l’intervento del re non è motivato dal risentimento o dal pentimento per aver concesso il condono a chi si è dimostrato indegno, ma ha luogo per prendere la parte del più debole, che è il secondo servo.

La parabola insegna che il nostro Dio è pronto alla misericordia, ma è anche capace di agire con forza, quando occorre salvare il debole oppresso da un potente.

 

Come quando intervenne con durezza sul Faraone, commosso dal grido di Israele ridotto in schiavitù in Egitto.

Egli è il Dio che va a riscattare l’oppresso, che interviene, scende e prende la parte del più debole.

Quindi il Dio dell’Antico Testamento, è lo stesso Dio del Nuovo Testamento illustrato da Gesù. E non è vero che sia un Dio non-violento tout court, ma è un Dio che sa usare la forza quando serve. Ma non per difendere i propri interessi, ma per difendere gli interessi di colui che è calpestato.

 

Il perdono appare così – secondo Gesù – un’energia creatrice e un dono contagioso.

Un dono che ognuno è chiamato a concedere, ma che giunge a pieno compimento solo quando anche chi l’ha ricevuto si converte, e diviene a sua volta capace di perdonare. Cioè, in altre parole, non esiste perdono autentico che non abbia la capacità creativa di dare vita a nuovi rivoli di grazia e di perdono.

 

 

Una novità con radici antiche

 

A questo punto dobbiamo chiederci: tutto ciò che abbiamo considerato finora sul perdono è una concezione assolutamente originale introdotta da Gesù?

È una prospettiva completamente nuova, oppure Gesù attinge da un’antica tradizione ebraica?

Sicuramente ciò che Gesù propone è qualcosa di innovativo (pensiamo all’amore per i nemici: è una proposta capace di scardinare i nostri codici relazionali), ma questa struttura: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, la possiamo vedere fotografata in una istituzione ebraica speciale che era per l’ebraismo il momento più importante, la sintesi di tutto il tempo, che si realizzava ogni 50 anni, il giubileo.

L’anno giubilare era l’anno che colmava il tempo. Nell’ebraismo il tempo aveva la sua dimensione minima nel giorno, ma la dimensione massima non era nell’anno, ma nell’anno giubilare, ogni 50 anni.

 

Tra i rotoli scoperti nelle grotte di Qumran c’è anche un testo apocrifo dell’Antico Testamento, il libro dei Giubilei, che racconta tutta la storia, dalla nascita di Israele fino al Sinai e all’entrata nella terra promessa, attraverso i giubilei.

E l’anno giubilare iniziava con il giorno delle espiazioni (Yom Kippur), un giorno di perdono, la grande perdonanza.

 

Tutti gli anni gli Ebrei, il decimo giorno del settimo mese, celebravano il giorno più santo, il più importante: lo Yom Kippur, la grande festa della riconciliazione.

In quel giorno, che iniziava con il suono del corno, il sommo sacerdote doveva sacrificare un capro e con il sangue di questo capro doveva entrare nel luogo santissimo, il luogo più recondito del tempio, e cospargerne il coperchio dell’arca dell’alleanza per indicare la remissione dei peccati del popolo nel tempio.

 

Inoltre il sommo sacerdote doveva acquistare di tasca sua un altro capro sul quale doveva imporre le mani per simbolizzare la discesa di tutti i peccati del popolo su questo capro. Dopo di ché il capro veniva inviato fuori da Gerusalemme a sud oltre il monte degli ulivi, perché potesse andare a morire nel deserto.

 

Nello Yom Kippur abbiamo quindi due espiazioni, una per l’impurità del tempio, l’altra per i peccati del popolo.

Un giorno di festa da celebrare tutti gli anni, ma quello che dava inizio all’anno giubilare era ancora più importante e particolare.

Era preceduto da un tempo di riconciliazione, di conversione, una serie di giorni nei quali i membri del popolo dovevano andare dal proprio fratello per chiedere perdono delle offese o delle mancanze avvenute durante quell’anno. Quindi, prima occorreva chiedere e concedere reciprocamente il perdono, e nello Yom Kippur, se tu avevi perdonato il fratello, potevi sperare che Dio perdonasse i tuoi peccati come membro del popolo, mediante il rito sacerdotale che abbiamo ricordato.

 

È interessante come struttura.

Qui siamo a livello delle offese, dei peccati, non ancora a livello delle pene, quindi dei debiti. Ma questo giorno – abbiamo precisato – dava inizio all’anno giubilare nel quale chi si era impossessato – anche legittimamente – dei beni dei fratelli a motivo di acquisti o a motivo di disponibilità finanziarie legate all’attività economica, doveva ridistribuire i suoi beni per rendere equo tutto il sistema economico nel popolo di Israele.

 

Per usare un’espressione tipica del linguaggio informatico, possiamo dire che l’anno giubilare era una specie di reset dell’hard disk di Israele. La grande ridistribuzione prevedeva la restituzione delle terre agli antichi proprietari, la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi e il riposo della terra.

 

 

Il messaggio pratico dell’anno giubilare

 

Da qui riparte la storia, ecco perché il culmine della storia è ogni 50 anni. Riassumendo: lo Yom Kippur, il giorno più importante, è la remissione dei peccati, la grande perdonanza e l’anno giubilare, l’anno più importante, è il grande condono, il condono di tutti i debiti.

 

Perdono dei peccati, e condono dei debiti: rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

È interessante notare che nell’antico calendario sacerdotale detto “dei sabati” scoperto a Qumran, il giorno dello Yom Kippur si svolgeva ogni anno di venerdì, il sesto giorno della settimana.

 

Un giorno che trova il compimento supremo in quel venerdì in cui Gesù, inchiodato alla croce, muore per i peccati del mondo, pregando: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

 

La tradizione cristiana riconosce che il sangue di Cristo è il sangue del nuovo capro espiatorio che viene condotto a morire fuori dalle mura di Gerusalemme.

Questo sangue, versato per l’umanità intera, ci introduce nella grande perdonanza e ci garantisce il grande condono, e avviene proprio il venerdì cosiddetto “santo”.

Bibliografia:
Silvio Barbaglia, ciclo di conferenze sul Padre Nostro – La nuova Regaldi, Novara
R.T. France, Il Vangelo secondo Matteo – Edizioni GBU
Raniero Cantalamessa, La Parola e la Vita – Città Nuova
Luigi Pozzoli, L’acqua che io vi darò – Edizioni Paoline
Corrado Grottoli, Il Giubileo – La casa della Bibbia
Pierluigi Ferrari, Il discorso della montagna – Edizioni Paoline
Bruno Corsani, Matteo – il vangelo del Regno – Edizioni Paoline
Robert G. Stewart, L’Evangelo secondo Matteo e Marco – Claudiana Torino
Gianfranco Ravasi, IL Libro dei Salmi volume 1° – Edizioni Dehoniane – Bologna
Spirito Rinaudo, I Salmi – preghiera di Cristo e della chiesa – ELLE DI CI TORINO-LEUMANN
M. Matussek, Die vaterlose Gesellschaft (La società senza padri), Rowohlt, Amburgo 1998.
Franz Kafka, Lettera al padre