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L’apostolo Paolo, nei vv. 11-13 del secondo capitolo della sua lettera a Tito, ha ricordato a questo suo discepolo che la grazia di Dio si è manifestata storicamente in Gesù Cristo per la salvezza dell’umanità e che, inoltre, essa continua ad operare nella vita dei figli di Dio insegnando loro come vivere, piacendo al Signore e aspettando il suo glorioso ritorno.

 

Nel v. 14 dello stesso capitolo, l’apostolo Paolo torna all’evento storico del sacrificio espiatorio di Cristo per l’umanità e sottolinea il fatto che tale sacrificio ha anche il significato di un formale atto di acquisto (da intendersi in senso spirituale) di tutti coloro che, dopo aver ricevuto il perdono dei loro peccati e la vita eterna in Cristo, sono chiamati a identificarsi completamente con lui e a vivere un’esistenza piena di opere buone.

 

 

Premesse

 

Leggiamo il testo di questo v. 14 prima di commentarlo in ogni sua parte.

Di Gesù Cristo, “nostro grande Dio e Salvatore” (v. 13), nel nostro brano sta scritto che:

 

“Egli ha dato sé stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone”.

 

L’amore di Dio si affianca, qui, alla sua grazia e, insieme, rifulgono in tutto il loro splendore: il Signore ha scelto volontariamente di venire sulla terra lasciando la gloria del Cielo (cfr. Fl 2:7) e ha scelto, altrettanto volontariamente, di donare la sua vita per la salvezza dell’umanità (cfr Gv 10:17-18), ben sapendo che ciò avrebbe comportato atroci sofferenze per il corpo e per lo spirito.

 

Ma l’ha fatto ugualmente. Per amore. L’ha fatto perché egli è la grazia di Dio, egli è l’amore di Dio fatto uomo… Egli ha donato tutto se stesso per liberare l’umanità dalla schiavitù del peccato e per farla tornare in comunione con Dio, rendendola libera di servirlo nella consapevolezza di appartenere al Re dei re e al Signore dei signori.

 

 

Esaminiamo Tito 2:14

 

Procediamo, quindi, all’esame dei quattro incisi in cui è suddiviso il nostro versetto: per ciascuno di essi cercheremo di evidenziare i tratti salienti delle espressioni verbali utilizzate, oltre agli insegnamenti principali che il Signore ci vuole impartire attraverso di essi.

 

 

“Egli ha dato se stesso per noi…”

 

Il v. 14 si apre con una dichiarazione semplice e forte: storicamente è un dato di fatto che Gesù Cristo sia vissuto su questa terra e che sia stato messo a morte per mezzo del supplizio della croce (cfr. Ga 4:4-5).

 

Da questo punto di vista la Bibbia sembra non affermare niente di nuovo quando dice che “Egli ha dato se stesso”, con un’espressione tipicamente paolina, presente anche in altre parti delle sue numerose lettere (Ga 1:4; 2:20; Ef 5:25 e 1Ti 2:6).

In quel verbo “dare”, però, è racchiusa tutta la grandezza dell’amore di Javè e tutta la bellezza del suo dono per l’umanità, come dimostra il fatto che lo stesso verbo sia utilizzato, per esempio, in Giovanni 3:16, dal momento che esso manifesta la volontarietà e l’esaustività del sacrificio dell’Agnello di Dio, il quale non si è risparmiato ma ha scelto di offrire sè stesso completamente, proprio come succedeva per gli olocausti dell’Antico Testamento, i quali venivano lasciati “sulla legna accesa sopra l’altare tutta la notte fino al mattino” (Le 6:2).

 

Questo verbo “dare” è un verbo assai frequente nel Nuovo Testamento, dato che viene riscontrato almeno 500 volte complessivamente, di cui 9 volte nelle epistole pastorali.

Ciò che la Bibbia aggiunge qui, in modo del tutto originale rispetto a qualsiasi altra rivelazione di origine umana, è il motivo per cui il Signore ha dato sè stesso alla croce: Gesù Cristo, infatti, si è fatto uccidere, con la morte straziante della croce, “per noi”, cioè al posto nostro e per il nostro bene supremo, ovvero per la nostra salvezza eterna.

 

Viene messo in risalto il carattere sacrificale ed espiatorio della crocifissione di Cristo, oltre che l’aspetto sostitutivo della sua morte. In altre parole, il Signore Gesù ha donato tutta la sua vita “per noi”, sì proprio per me e per te, e se noi ora possiamo avere il perdono dei peccati e il condono della pena eterna che giustamente gravava su di noi a causa della nostra iniquità, è soltanto perché Cristo ha dato interamente se stesso al supplizio della croce e ha preso il nostro posto, caricandosi di tutti i nostri peccati… che grande amore… e che grande Dio!

“…per riscattarci da ogni iniquità…”

 

Il versetto al nostro esame entra, a questo punto, nello specifico del motivo fondamentale che ha portato l’Agnello di Dio su quel legno della croce: egli, che era contemporaneamente uomo e Dio, ha dato se stesso per noi “per riscattarci da ogni iniquità”.

C’è un forte richiamo al racconto dell’Esodo e al brano di Salmo 130:8 che qui, assai probabilmente, viene indirettamente citato. Il verbo “riscattare”, in particolare, che è presente nel Nuovo Testamento solo qui oltre che in Luca 24:21 e 1Pietro 1:18; nel nostro versetto ha il significato di “liberare dietro pagamento di un prezzo di riscatto”, che in questo caso è dato dalla vita dell’Agnello di Dio che ha tolto il peccato del mondo.

 

Il riscatto operato dall’uomo-Dio Cristo Gesù non è parziale o incompleto: esso produce effetti su “ogni iniquità”. La parola greca tradotta con “iniquità” rappresenta la più forte negazione della Legge di Dio, ovvero la sua trasgressione nella “normale” vita quotidiana (cfr. 1Gv 3:4, dove viene usato lo stesso termine greco). D’altro canto, è bene ricordare ciò che la Bibbia insegna: nessun peccato, per quanto piccolo o insignificante, può essere perdonato con qualche opera buona o meritoria. Allo stesso tempo nessun peccato, per quanto grande o grave esso sia, può essere escluso dal novero di quelli che il sangue di Gesù è potente da cancellare (cfr. 1Gv 1:9). Se si fa eccezione per la bestemmia contro lo Spirito Santo, di cui lo stesso Gesù fa esplicita menzione in Matteo 12:31, nessuna iniquità è così grave da non poter essere perdonata da Dio per mezzo del sacrificio del suo Figlio Unigenito. Basta chiedergli umilmente perdono e credere nella potenza del suo sangue versato sulla croce.

Da notare, inoltre, che la preposizione greca che noi traduciamo “da”, contiene l’accezione di “allontanamento, andare lontano da” e rende bene l’idea degli effetti del perdono divino sul peccato dell’uomo. Essa, infatti, “indica l’effettiva rimozione dalla sfera del peccato e la nostra liberazione da tutti gli aspetti del suo dominio”.

 

 

“…e purificarsi un popolo

che gli appartenga…”

 

Un secondo motivo, che ha portato Gesù sulla croce, viene aggiunto subito dopo: oltre a riscattarci da ogni iniquità, il Signore ha dato sè stesso in sacrificio espiatorio perché ha voluto anche “purificarsi” un popolo; alla pars destruens dell’eliminazione di ogni peccato, segue la vera e propria pars construens della purificazione dalle sue conseguenze.

È significativo questo verbo greco, usato dallo Spirito Santo, che qui ha il principale significato di “rendere puro, purificare”, in riferimento sia alle purificazioni del corpo (es. Mt 8:2) sia a quelle di tipo cerimoniale inerenti certi cibi (es. Mr 7:19), sia e soprattutto in relazione alle impurità morali e spirituali (es. Gm 4:8).

 

Si tratta, in altre parole, della volontà di Dio di rendere il suo popolo rinnovato e santificato, puro da ogni peccato e da ogni maledizione. Quest’opera si rendeva (e si rende ancora oggi!) assolutamente necessaria a causa dell’impurità morale che la ribellione del peccato produce nella vita dell’uomo e al cospetto di un Dio perfettamente santo.

Dio non ha voluto solo riscattare i singoli uomini ma li ha pure inseriti in un popolo. E non in un popolo qualsiasi, ma nel suo popolo, purificato dalle implicazioni del peccato, un popolo che gli appartiene di diritto in quanto acquistato a caro prezzo.

Ci rendiamo conto delle implicazioni di questa realtà di fatto?

“…zelante nelle opere buone”

 

E una delle implicazioni viene rivelata subito dopo nello stesso versetto: talvolta i cristiani nati di nuovo si fermano alla pur meravigliosa realtà della salvezza per grazia mediante la fede e non arricchiscono la loro vita spirituale con la completa opera che Dio ha fatto e con quella che egli vuole fare ancora, in Cristo Gesù e per mezzo dello Spirito Santo.

 

Come nel secondo capitolo della lettera agli Efesini, laddove si parla della salvezza eterna al v. 8 e poi seguono i vv. 9-10, che trattano anche delle “opere che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo”, nel nostro testo assistiamo ad un arricchimento del profilo puramente soteriologico, finora esposto, al quale si aggiunge l’aspetto pragmatico delle “opere buone” che Dio vuole far compiere ai suoi figli e solo per la sua gloria.

 

Non si tratta di opere meritorie oppure di attività religiose (magari anche “evangeliche”) che siamo tenuti a fare per piacere al nostro Signore e che forse facciamo con fatica e con sforzo. Per la sua grazia, manifestatasi in Cristo, l’amore di Dio è perfetto e non cambia mai: di conseguenza, la salvezza è assicurata dal sangue di Cristo e non dalla mutabilità dei nostri comportamenti.

Si tratta, allora, di quelle opere buone che sono “la risposta di un cuore rinnovato dalla grazia. Cristo non solo libera dal peccato e dalla sua condanna, ma rende capaci di vivere una vita secondo la volontà di Dio in questo mondo, nel presente”.

 

Ma il nostro versetto aggiunge anche che il Signore vuole che i suoi figli siano zelanti in queste opere buone.

È, questo un richiamo a vivere con entusiasmo la vita cristiana, al servizio degli altri e con le “buone opere”, perché si attende con passione il ritorno del Signore e, finché ciò non avverrà, perché si è scelto di spendere la propria esistenza al servizio del Re che sta per tornare.