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Introduzione:

segnali di vita e di morte

 

Abbiamo iniziato questa serie di studi sulla 1Giovanni ricordando che Gesù chiamò l’autore, insieme con suo fratello Giacomo, “figli del tuono” (Mr 3:17). Se “tuono” sta per indicare l’abitudine di fare affermazioni chiare e l’assenza di ogni tipo di compromesso, il contenuto della lettera conferma questa definizione.

 

Così la tematica della lettera potrebbe essere descritta indifferentemente come “segnali di vita” (la definizione che abbiamo scelto di usare) oppure “segnali di morte”.

Infatti per ogni segnale di vita viene indicato anche il suo contrario.

Ad esempio: “In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello” (3:10),

 

Troviamo questa duplice enfasi anche nell’ultimo brano in cui l’apostolo riassume il senso di ciò che ha insegnato.

Parla di cose che definisce “certe” (5:13-21). Il fatto che la parola chiave del brano, “sappiamo”, sia al plurale suggerisce che Giovanni è consapevole di parlare a nome di tutti gli apostoli (si veda anche 1:1-4). Questo verbo ricorre sei volte (vv. 13, due volte nel 15, 18, 19, 20). Consideriamo queste certezze una a una.

Sappiamo di avere la vita eterna

se crediamo nel Figlio di Dio (5:13)

 

Lo scopo della lettera viene descritto in questi termini:

“Vi ho scritto queste cose perché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio”.

 

Le parole “voi che credete nel nome del Figlio di Dio” riassumono tutto ciò che viene detto nei capitoli 4 e 5 sulla natura della fede ortodossa, in particolare la convinzione che l’incarnazione sia avvenuta realmente e che essa fosse finalizzata al compimento della propiziazione per i peccati. Infatti “il nome del Figlio di Dio” rappresenta tutto ciò che egli è e tutto ciò che egli ha fatto e continua a fare.

 

Giovanni informa i suoi lettori che lo scopo del messaggio di cui si sentiva incaricato (1:5) era di illuminarli riguardo al loro vero stato davanti a Dio: chi possiede una fede ortodossa possiede “la vita eterna”.

 

Colpisce la rassomiglianza di questo scopo a quello del quarto Vangelo. I “segni” presentati nel Vangelo di Giovanni “sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome” (Gv 20:31). Lo scopo dell’epistola, invece, è “affinché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio” (1Gv 5:13). È evidente che si tratta dello stesso autore, mosso sia dal desiderio di portare i suoi lettori alla fede in Cristo, affinché abbiano la vita eterna, sia di fugare ogni dubbio riguardo a chi ne è erede.

 

Non bisogna mai perdere di vista ciò che rende certa la vita eterna.

Mentre l’uomo tenta di accumulare meriti sufficienti per varcare le porte del paradiso e si dispera sapendo che le proprie opere e sé stesso rimangono imperfetti, Dio nella sua grazia ha provveduto Gesù Cristo come “il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati” ed “egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1:9-2:2).

Chi ha compreso quale sia il valore infinito del sacrificio di Cristo sa che ponendo la propria fede “nel nome del Figlio di Dio” entra in comunione con il Padre e gode dello status di figlio di Dio (3:1). Il brano non fa riferimento a quanto sia forte la fede; l’importante è la persona in cui viene posta, cioè nel Figlio di Dio e non in sé stessi.

 

 

Sappiamo che, se domandiamo

qualche cosa secondo la sua volontà,

egli ci esaudisce (5:14-17)

 

Anche in questo caso la certezza – di ricevere quello che chiediamo in preghiera – è soggetta a una condizione.

La richiesta deve essere “secondo la sua volontà”. Si possono intendere queste parole in due modi apparentemente diversi ma che, in realtà, sono complementari.

 

Il primo ha a che fare con il modo in cui preghiamo: chi è convinto che soltanto la volontà di Dio per la nostra vita è “buona, accettevole e perfetta”, sarà lieto di aggiungere alla richiesta le parole “se questa cosa è secondo la tua volontà”. Ma siccome il riferimento nel v. 14 è alla volontà del Figlio di Dio (cfr. v. 13), si possono intendere le parole “secondo la sua volontà” anche come un invito a esaminare quale sia la volontà di Gesù per i suoi discepoli per poi allineare le proprie richieste a esse.

 

A questo proposito, per saper pregare secondo la volontà del Figlio di Dio, facciamo bene a prendere in esame le due preghiere di Cristo riportate nei Vangeli, in particolare quella sacerdotale in cui egli prega per i suoi discepoli (Gv cap. 17). È da notare che questa preghiera riguarda anche coloro che sarebbero diventati discepoli per mezzo della parola annunciata e trasmessa dagli apostoli (Gv 17:20-21; cfr. Mt 6:9-13). Più in generale, la volontà di Cristo per i suoi discepoli viene definita nei comandamenti che ogni discepolo è tenuto a osservare (Mt 28:19-20). Del resto Gesù stesso l’aveva detto con grande chiarezza:

“Se dimorate in me e le mie parole [gr. rhēmata, “parole di comando”dimorano in voi, domandate quello che volete e vi sarà fatto” (Gv 15:7). È logico che Gesù, il buon Pastore, conceda ai suoi discepoli che pregano soltanto le cose che rientrano nella sua volontà per le loro vite. Il discepolo disubbidiente, invece, è destinato a vivere frustrato e a non ricevere le cose che domanda a Dio.

 

Dopo aver posto la condizione ed aver espresso la convinzione: “se domandiamo qualche cosa secondo la sua volontà, egli ci esaudisce”, Giovanni mette tale convinzione in relazione con l’esito della preghiera:

“Se sappiamo che egli ci esaudisce in ciò che gli chiediamo, noi sappiamo di avere le cose che gli abbiamo chieste” (1 Gv 5:14-15).

 

Dobbiamo anche pregare per i fratelli, particolarmente per quelli che stanno soffrendo dopo aver commesso qualche peccato.

Lo scopo è che il fratello torni a vivere nel vero senso della parola. La promessa “e Dio gli darà la vita” (v. 16) potrebbe essere un’allusione al ritorno a vivere nella luce, dopo la confessione del peccato commesso (1:6-10).

Secondo l’insegnamento degli apostoli, quando si vede un fratello cadere in peccato, sbaglia chi lo critica; un vero fratello lavora per rialzare il fratello che ha peccato (si veda Ga 6:1) e a questo scopo serve anche la preghiera.

 

Intanto ci si chiede per quale tipo di peccato non bisogna pregare perché esso conduce alla morte.

La risposta del prof F. F. Bruce a questa domanda era molto semplice: un peccato, come quelli indicati in 1Corinzi 11:27-32, che è stato seguito dalla morte fisica. Se infatti un fratello è morto è ovviamente inutile pregare per un suo ravvedimento.

Però il contesto della 1Giovanni suggerisce anche un altro caso, quello degli eretici che rifiutano di credere alla verità dell’incarnazione (si veda 2:18-19; cfr. 3:23).

Se nel primo caso si trattava di un fratello in fede, in questo caso no.

 

Il rifiuto di credere alla verità dell’incarnazione è analogo al peccato contro lo Spirito Santo che Gesù definiva imperdonabile (Mt 12:31-37). Nel periodo precedente la morte e la risurrezione di Cristo si trattava del rifiuto di credere all’evidenza delle opere che egli aveva fatto nella potenza dello Spirito Santo.

Dal momento della sua risurrezione, che dimostrava in modo inconfondibile che Gesù è “Signore e Cristo” (At 2:36), l’oggetto di fede che Dio comanda è la persona del Cristo risorto e non più le opere (1 Gv 3:23).

Quindi è ora imperdonabile il rifiuto di credere all’incarnazione e chi pecca in questo modo non riceverà il perdono di Dio; al contrario è destinato alla morte eterna.

 

 

Sappiamo che chi è nato da Dio

non persiste nel peccare (5:18)

 

Qui si parla ancora di peccato perché è importante sapere quanto esso possa essere presente nella vita di un vero figlio di Dio.

Il participio perfetto usato dall’apostolo per descrivere una tale persona (gr. gegennēmenos) significa “essere stata rigenerata”.

 

Quindi il riferimento è ad una persona che possiede una nuova vita. Anche se questa persona cadesse nel peccato di tanto in tanto (si veda 1:10), la nuova natura che ha ricevuto da Cristo, la cui vita umana proveniva da Dio in modo unico (Lu 1:35), non gli permetterà di persistere nel peccato.

Chi osserva la vita di un figlio di Dio vede un cammino nella luce. Questo orientamento dipende dal fatto che chi ha ricevuto nuova vita è protetto da Gesù stesso.

 

Echeggiano nella promessa che Gesù proteggerà le persone rigenerate dal maligno, queste parole del buon Pastore:

“Io do loro la vita eterna, e non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano” (Gv 10:27-28). Si tratta di persone che hanno imparato ad ascoltare la voce del buon Pastore e a seguirlo. È di grande conforto sapere che Gesù protegge le sue pecore dal dominio del peccato.

 

 

Sappiamo che il mondo,

che si oppone ai figli di Dio,

giace sotto il potere del maligno (5:19)

 

La certezza che tutto il mondo, eccezione fatta per coloro che sono diventati “figli di Dio”, giace sotto il potere del maligno, rende impossibile l’interpretazione a-millenarista di Apocalisse 20:1-6.

 

Nel periodo del regno millenario di Cristo, Satana sarà legato in modo che non potrà sedurre più le nazioni finché siano compiuti i mille anni, “dopo i quali dovrà essere sciolto per un po’ di tempo” (Ap 20:3).

 

Gli apostoli Giovanni, Pietro e Paolo sono tutti d’accordo nel dire che attualmente Satana è molto attivo come seduttore dell’umanità 
(2Co 4:3-4; 11:3-14; 1P 5:8; 1Gv 5:19; Ap 2:13, 24).

Quindi non si può dire che la circostanza che vede Satana legato si riferisca alla vittoria di Cristo su Satana alla croce, come insegnò Agostino.

Ne consegue che Apocalisse 20:1-6 si riferisce a un tempo futuro quando Satana, in quanto legato, cesserà di svolgere attività seduttrici per un periodo di mille anni (cfr. Ap 20:7-8).

 

La dichiarazione contenuta 1Giovanni 5:19 ci ricorda che, dal punto di vista spirituale, non esiste un terreno neutrale: da una parte ci sono persone la cui origine spirituale è “da Dio”, dall’altra c’è il mondo che “giace sotto il potere del maligno”.

 

L’assenza di un terreno neutrale è una verità affermata più volte nella 1Giovanni, contro ogni pretesa di poter rimanere indifferenti di fronte al vangelo.

Per esempio nel capitolo tre afferma, riguardo i figli di Dio: “il mondo non ci conosce perché non ha conosciuto lui” (v. 1) e che “in questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello” (v. 10).

 

Questa certezza ci dà un grande vantaggio nei nostri rapporti con il mondo in quanto sappiamo che, finché una persona non sarà trasformata dalla grazia di Dio, è in qualche modo schiava del peccato.

 

A questo proposito sappiamo pure che lo Spirito Santo convince il mondo, quindi anche la persona che gli sta davanti, di peccato (Gv 16:8-11). I figli di Dio dovrebbero far tesoro di entrambe queste certezze nei loro rapporti con la gente del mondo e cercare di portare la luce del Vangelo a queste persone.

 

Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e che ha fatto conoscere il vero Dio (5:20).

Mentre il mondo nel suo insieme, e in particolare chi rifiuta di credere nell’incarnazione, è “nel maligno”, coloro che hanno la vita eterna sono “nel vero Dio”. Questa condizione di grandissimo privilegio è frutto della realtà dell’incarnazione e del fatto che Dio, nella sua grazia, “ci dà intelligenza per conoscere colui che è il Vero”.Quest’intelligenza ci è data dallo Spirito Santo (Gv 15:26).

 

Giovanni conclude questa lettera nel modo in cui l’aveva iniziata: identificando la vera vita come esistente soltanto nel Figlio di Dio incarnato (5:21; cfr. 1:1-3).

 

A questo proposito è da notare che le tre espressioni seguenti sono in parallelo: “noi siamo in colui che è il Vero”, “cioè nel suo Figlio Gesù Cristo,” ed “egli è il vero Dio e la vita eterna”. Come si vede queste parole equiparano Gesù Cristo, il Figlio di Dio, con Dio stesso.

 

Solo in Gesù, il Figlio di Dio incarnato, che ha fatto conoscere Dio (Gv 1:18), è possibile ottenere una reale conoscenza del vero Dio e soltanto per mezzo di colui che è vero Dio e vero uomo si entra in comunione con Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.

 

 

Per la riflessione personale

e lo studio di gruppo:

 

1. Chiediamoci: queste certezze descrivono il mio cammino di fede e il modo in cui mi relaziono con il mondo intorno a me?

 

2. Di fronte alla direttiva apostolica contenuta nel v. 16, chiediamoci: quando vedo un fratello commettere un peccato, qual è la mia prima reazione?

 

3. In che modo le certezze elencate da Giovanni in 1Giovanni 5:13-20 ci aiutano a “guardarci dagli idoli” (v. 21)?