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Ciò che significa avere comunione con Dio

 

Succede talvolta che le cose importanti sopravvivano soltanto nei loro aspetti formali: ad esempio l’uso dell’espressione “essere in comunione” quando la parola “comunione” figura come un sinonimo di “essere in regola”.

 

Per la chiesa del primo secolo, invece, “comunione” (gr. koinōnia) significava condividere le gioie e i pesi gli uni degli altri e, all’occorrenza, condividere i propri beni con chi si trovava nel bisogno (si vedano At 2:42-46; 4;32; 1Gv 1:7).

In altre parole “avere comunione” significava agire come veri e propri “fratelli”, come i discepoli siriani quando mandarono una sovvenzione ai loro “fratelli” in Giudea che stavano affrontando un periodo di carestia (At 11:27-30).

 

Similmente “avere comunione con Dio” significa partecipare, per mezzo dello Spirito e mediante la fede, a ciò che caratterizza Dio stesso.

Ad esempio partecipare alla vittoria del Figlio di Dio sul peccato significa fare propria la sua vittoria e quindi non avere paura del giudizio.

 

Similmente partecipare alla luce della verità rivelata significa sostenerla anche quando essa appare inverosimile all’uomo profano.

Infine partecipare all’amore di Dio significa esercitare “con i fatti e in verità” l’amore sparso dallo Spirito nei nostri cuori (Ro 5:5; 1 Gv 3:16-18).

Questi sono soltanto alcuni aspetti della comunione con Dio che vengono ricordati nel nostro brano (1 Gv 4:12−5:12).

 

È importante comprendere ciò che ha reso possibile questo livello eccezionale di comunione con Dio.

Con riferimento al nuovo patto, Geremia descrisse in questi termini la comunione con Dio di coloro che vi sarebbero entrati:

 

“Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: «Conoscete il SIGNORE!» poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande” (Gr 31:34).

 

Il sacrificio di Gesù è il fondamento del nuovo patto (Lu 22:20) e Giovanni spiega perché. Egli rivela infatti che il suo sacrificio. che ha valore di “propiziazione” (gr. hilasmos, 1Gv 2:1-2; 4:10), permette a Dio di riprendere una comunione intima con l’uomo peccatore.

 

Infatti, poiché il sacrificio propiziatorio di Cristo soddisfa la giustizia di Dio per conto del peccatore, essorestituisce l’uomo redento a uno stato di comunione perfetta con Dio santo paragonabile alla comunione di cui Adamo ed Eva godevano quando Dio “camminava nel giardino sul far della sera” (Ge 7:8).

Vediamo così che l’appropriazione, per fede, del sacrificio di Cristo apre la strada a una vera a propria partecipazione in ciò che concerne Dio. Si tratta di una comunione che non avrà mai fine, che Gesù e Giovanni chiamano “vita eterna” (Gv 17:3; 1Gv 5:11).

 

In questa parte della sua lettera (1Gv 4:12−5:12) Giovanni torna, con più forza, su alcuni di quelli che abbiamo definito “segnali di vita”.

 

In particolare veniamo a sapere che non basta credere in modo ortodosso; bisogna anche confessare pubblicamente la verità (4:15).

 

Quanto all’amore per il fratello, non basta fare del bene; bisogna che le nostre azioni nascano dall’amore per Dio e quindi dall’osservanza dei suoi comandamenti (5:2).

Questo punto ha una grande importanza pratica. Infatti se i miei tentativi di fare del bene non sono determinati dal mio amore per Dio, c’è il rischio che trascurerò qualche direttiva divina e quindi farò più male che bene, il che non sarebbe frutto del vero amore (cfr. Ro 13:8-10)!

 

Inoltre non basta evitare di amare il mondo, bisogna vincere il mondo mediante l’esercizio della fede (5:4-5).

 

Infine non bisogna soltanto credere alla testimonianza di altri all’incarnazione del Figlio di Dio (4:14; 5:6, 9a);bisogna avere questa testimonianza in sé stessi per mezzo dello Spirito Santo (5:6-10).

 

 

“Qual egli è, tali siamo

anche noi in questo mondo” (4:12−19)

 

Giovanni fa un’affermazione sorprendente in questo brano:

 

“In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo (4:17).

La comunione perfetta nell’amore di Dio si manifesta in una piena identificazione con Dio nel mondo: ovvero il vivere come suoi figli a tutti gli effetti. Sarà questo che ci dà fiducia nel giorno di giudizio.

Il versetto successivo ribadisce questo concetto: “l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo” (v. 18).

 

Chi ha avuto il privilegio di sentire parlare più volte il fratello Abele Biginelli probabilmente l’avrà sentito ripetere queste parole di Giovanni: “Qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo”.

Evidentemente il fratello Abele sentiva profondamente questa sua identificazione con Dio nel mondo. Dio stesso non è visibile nel mondo ma ciò che lo riguarda diventa visibile quando i suoi figli si amano (v. 12).

Questo è frutto della presenza dello Spirito Santo che ci ha dato (v. 13).

 

Il versetto seguente racchiude la testimonianza apostolica a un’altra irripetibile presenza di Dio nel mondo:

 

“E noi abbiamo veduto e testimoniamo che il Padre ha mandato il Figlio per essere il Salvatore del mondo”.

 

Questa dichiarazione non permette di confondere le tre Persone della Trinità:

• il Padre manda,

• il Figlio ubbidisce e così diventa il Salvatore del mondo,

• mentre lo Spirito Santo, che è donato a coloro che ubbidiscono al comandamento di credere in Cristo, conferma il rapporto di comunione fra i figli di Dio e Dio stesso (v. 13; cfr. 3:23-24).

 

Un altro versetto di questo brano che il fratello Biginelli amava citare è il v. 19:

“Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo.”

 

Se fosse dipeso da me non sarebbe mai nato un amore per Dio.

Sono per natura un nemico di Dio, posseduto da uno spirito ribelle “nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Ef 2:1-3).

 

Senonché Dio Padre ha mandato il Figlio nel mondo e “da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi” (1Gv 4:14; 3:16).

Poi lo Spirito di Dio ha infuso il suo amore nei nostri cuori (Ro 5:5).

Quindi nella misura in cui camminiamo per lo Spirito viviamo mossi dall’amore per Dio e amiamo i nostri fratelli.

 

 

Per i figli di Dio i suoi comandamenti

non sono gravosi (5:1-5)

 

Questo brano insegna che la direzione che la nostra vita prende dipende dall’esistenza o meno della fede in Gesù come il Messia e il Figlio di Dio (vv. 1, 5).

 

Giovanni scrisse il quarto Vangelo per rendere testimonianza a questa duplice verità affinché i suoi lettori, credendo, potessero ricevere la vita eterna (Gv 20:30-31).

Ma il mondo non redento rifiuta di credere a questa verità e quindi trova i comandamenti di Dio ostici.

 

La direzione di vita dell’uomo profano è un cammino nelle tenebre dove sono di norma il peccato e la morte. Invece per chi crede in Gesù nei termini indicati qui, e quindi cammina nella luce, i comandamenti di Dio non pesano affatto; anzi illuminano il suo sentiero come testimonia l’autore del Salmo 119.

 

Quindi in definitiva ciò che ci permette di vincere il mondo è la nostra fede

“Poiché tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede” (5:4).

 

Se non avessimo posto la nostra fede in Gesù ci troveremmo a camminare sopraffatti dalle tenebre.

 

 

La testimonianza di Dio (5:6-12)

 

Giovanni ha appena detto che per chi crede nell’incarnazione ubbidire ai comandamenti di Dio non è gravoso. Ma al tempo di Giovanni il movimento capeggiato da un certo Cerinto negava l’incarnazione distinguendo fra l’uomo Gesù e il Cristo. Così l’apostolo affronta qui la questione di come si può sapere che l’incarnazione sia avvenuta realmente.

 

La risposta che dà è: la testimonianza di Dio definita maggiore di quella resa dagli uomini, anche se apostoli (cfr. 1:1-4).

 

La testimonianza di Dio è triplice.

 

La prima testimonianza viene descritta in questi termini: “con acqua”.

Sembra che si tratti di un modo simbolico per far sapere che tale testimonianza avvenne in occasione del battesimo di Gesù. Dopo quest’atto con cui si identificò con i peccati del popolo (Mt 3:13-17; cfr. Mt 1:21) Gesù fu approvato pubblicamente dal Padre.

 

Infatti nel momento in cui Gesù venne fuori dell’acqua e la colomba diede il segno a Giovanni che Gesù era il Messia atteso, si sentì la voce del Padre dire dal cielo:

“Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3:17).

 

Il Padre stava approvando la vita vissuta dal Figlio incarnata fino a quel momento. Ne consegue che la teoria di Cerinto, secondo cui il Cristo divino fosse venuto su Gesù in questo momento, è screditata dalla testimonianza resa in quest’occasione dal Padre.

 

I seguaci di Cerinto negavano altresì che il Cristo divino fosse ancora presente in Gesù al momento della sua morte fisica. Ma le circostanze della morte di Cristo, non meno di quelle del suo battesimo, testimoniarono il carattere straordinario di Gesù in quanto Figlio incarnato di Dio.

 

Basta pensare al fenomeno delle tenebre (Mr 15:33) e all’effetto prodotto sulle persone che si trovavano intorno a considerare il modo in cui Gesù morì (v. 39; cfr. Gv 19:30), per convincersi che Gesù, in quanto Figlio di Dio, stava effettivamente deponendo la sua vita per poi riprenderla (Gv 10:17-18).

Dio è stato glorificato in modo unico nella morte del Figlio incarnato, anche perché da questa morte vicaria sarebbe scaturita vita eterna per tutti coloro che avrebbero creduto in lui (cfr. Gv 12:23-32).

 

La terza testimonianza è quella dello Spirito Santo. In questo caso il riferimento non è ai fatti storici in sé bensì alla testimonianza dello Spirito Santo a Gesù tramite il Vangelo annunciato e scritto (Gv 14:25-26; 15:26-27).

Gesù aveva detto dello Spirito, che sarebbe proceduto dal Padre mediante il Figlio:

“Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà” (Gv 16:14).

 

Con riferimento a questa triplice testimonianza, leggiamo:

 

“Chi crede nel Figlio di Dio ha questa testimonianza in sé; chi non crede a Dio, lo fa bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha resa al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna, e questa vita è nel Figlio suo. Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (1Gv 5:10-12).

Chi dà credito a questa triplice testimonianza “che Dio ha resa al proprio Figlio”, per questo motivo “ha il Figlio”e quindi “ha la vita”. E si tratta di vita eterna.

Chi rifiuta di credere alla testimonianza di Dio, rifiuta la vita eterna che Dio dona per grazia.

 

 

Per la riflessione

e lo studio di gruppo

 

1. Perché è così importante credere alla realtà dell’incarnazione del Figlio di Dio?

 

2. Che cosa significa praticamente avere comunione con Dio?

 

3. Che cosa significa avere vita eterna?