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Memoria storica ignorata o revisionata

 

Il 17 marzo di questo anno, in occasione della Festa per l’Unità nazionale (centocinquantesimo anniversario), l’attuale Papa ha inviato al Presidente della Repubblica un messaggio teso a riconsiderare il ruolo svolto dai cattolici, e dalla “chiesa”, nel processo di unificazione nazionale che chiamiamo Risorgimento.

 

L’atmosfera conciliante ha poi avuto il suo acme nella celebrazione di una funzione religiosa cattolica davanti a tutte le più alte cariche dello Stato e trasmessa in diretta dalle televisioni.

Si tratta sicuramente del punto più alto di un fenomeno teso a riconciliare la memoria storica del nostro paese che vedeva una frattura molto netta tra cattolicesimo e vicende risorgimentali.

Neanche il comico Roberto Benigni ha osato contrastare questo fenomeno quando nella sua performance a Sanremo ha ignorato totalmente il fatto che il Risorgimento si è fatto anche contro la Chiesa di Roma.

 

Nelle righe che seguono cerco allora di accennare a tre punti che naturalmente avrebbero bisogno di ulteriori approfondimenti nel tentativo di alludere al fenomeno del revisionismo, ai suoi limiti e a ciò che esso evoca in noi evangelici.

 

 

Gli obiettivi del revisionismo

 

Agli inizi degli anni ’90 la Conferenza Episcopale Italiana elaborò un’iniziativa volta a coniugare la missione della chiesa (cattolico–romana) e le esigenze più urgenti della nazione, identificando nella “cultura” il terreno in cui questa coniugazione era possibile. Nasce così il Progetto culturale della CEI all’interno del quale viene posto il tema dell’identità italiana.

È in questo quadro che riprende vigore, con tonalità nuove rispetto alla storiografia coeva alle vicende storiche, l’interpretazione del Risorgimento come di un fenomeno anticlericale ostile a un cattolicesimo ingiustamente represso ma che in realtà fu il vero trionfatore, passato il momento più difficile, delle vicende ottocentesche.

 

Costituisce un manifesto di questo grumo di problematiche, tra gli altri, il libro di Massimo Viglione, docente presso l’Università Europea di Roma (Legionari di Cristo), dato alle stampe nel 2005 (Città Nuova), dal titolo“Libera Chiesa in libero Stato? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale”. L’autore si è ripetuto in questo ultimo anno con un altro testo di segno simile, dal titolo: “1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile”.

Viglione prendendo spunto da incisi e commenti che si trovano sparpagliati nella storiografia risorgimentale degli ultimi 50 anni (anche Giorgio Spini serve al suo proposito!) fa emergere nella prima parte del suo libro (Le premesse ideologiche dello scontro) un quadro in cui le vicende del Risorgimento e dell’Unità d’Italia sono state un vero fallimento dal punto di vista dell’identità italiana in quanto questa era assicurata da ben 18 secoli dal legante della religione cattolica:

“È chiaro a tutti, insomma, come l’identità nazionale degli italiani sia debitrice all’azione svolta per diciotto secoli dalla Chiesa romana” (pag. 20).

 

Ratzinger nella sua lettera a Napolitano del 17 marzo non è andato così lontano e si è posto semplicemente l’obiettivo di valorizzare l’apporto dei cattolici e della Chiesa di Roma alla nascita e allo sviluppo della nazione italiana: “Non si può sottacere l’apporto di pensiero – e talora di azione – dei cattolici alla formazione dello Stato unitario”.

In maniera meno faziosa di Viglione anche Ratzinger però rileva che “la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale” e da qui sottolinea il ruolo avuto dal cristianesimo nella forma cattolico romana (la Chiesa) in questa identità pre–risorgimentale.

 

La conclusione di tutta la revisione storiografica e delle diplomatiche manovre vaticane è dunque il concetto di“identità” italiana, concetto che ha l’obiettivo di espungere dall’italianità ciò che non manifesta gli elementi centrali di questa identità, soprattutto la religione e il fantomatico “sangue”!

 

 

È possibile un revisionismo storico così estremo?

 

Non è questo certamente il luogo in cui rispondere a questa domanda. Possiamo però dire alcune cose sinteticamente.

 

Negli studi storici si assiste spesso alle oscillazioni delle interpretazioni proposte dalle varie scuole; ma queste oscillazioni hanno un limite oltre il quale diventano narrazioni mitologiche.

Il Risorgimento non è immune a questa logica e conosce sia una narrazione ufficiale e paludata e sia una serie di miti alternativi quali quello della Chiesa di Roma perseguitata da giacobini, rivoluzionari di ogni risma, massoni e, senti senti, protestanti (nel libro di Viglione c’è un capitolo dal titolo: “Fare gli italiani… protestanti”).Rientra sicuramente all’interno delle narrazioni mitiche il concetto di “identità italiana”.

 

Tuttavia bisogna dire che queste narrazioni mitiche si appoggiano, manipolandoli, a dati che la ricerca storica illumina man mano che procede acquisendo nuovi materiali. Nel caso del Risorgimento quello che sta interessando gli studiosi, al di là del mito dell’identità, è il fenomeno della devozione popolare che in qualche modo sopravviverà alle vicende risorgimentali. È al contrario cosa acclarata il fatto che molti dei protagonisti del Risorgimento erano buoni cattolici. Non bisogna scandalizzarsi di ciò.

 

Ciò che può essere utile ricordare, però, è che tutte le letture revisionistiche del Risorgimento tendono a sottacere o a relativizzare il ruolo che ebbero nell’800 la Chiesa e il Papato in quanto Istituzioni. Il revisionismo tende infatti ad esagerare il ruolo delle correnti razionaliste e laiciste esterne alla Chiesa.

In realtà uno dei problemi più grandi della nostra unità nazionale fu rappresentato dal vistoso distacco tra l’Istituzione ecclesiale, completamente arroccata su privilegi temporali (si ricordi infatti che il Papa era il principe di un vero e proprio Stato) e le aspirazioni di tanti cattolici che nel percepire la possibilità di unire l’Italia, liberandola dagli stranieri, pensavano che un’istituzione come la Chiesa avrebbe facilmente accolto, rinunciando al potere temporale, un ripiego sui suoi interessi esplicitamente religiosi e spirituali. Così non fu e tutte le speranze nutrite per esempio dalla corrente definita “neoguelfismo” e incarnata dall’opera di Vincenzo Gioberti, “Il primato morale e civile degli italiani” (1843), andarono deluse allorquando nel 1848, nel pieno della prima guerra d’Indipendenza, Papa Pio IX pronunciò il 29 aprile davanti al Concistoro la famosa Allocuzione con la quale si sfilava dal conflitto con l’Austria, abbandonando la guerra:

 

“Non possiamo astenerci dal ripudiare, al cospetto di tutte le genti, i subdoli consigli, palesati eziandio per giornali e per vari opuscoli, da coloro i quali vorrebbero che il pontefice romano fosse capo e presiedesse a costituire una simile nuova Repubblica degli universi popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione ammoniamo e confortiamo gli stessi popoli d’Italia, mossi a ciò dall’amore che loro portiamo, che si guardino attentamente da siffatti astuti consigli e perniciosi alla stessa Italia, e di restare attaccati fermamente ai loro prìncipi di cui sperimentarono già la benevolenza e non si lascino mai staccare dalla debita osservanza verso di loro. Qualora altrimenti lo facessero, non solo verrebbero meno del loro debito, ma anche avrebbero pericolo che la medesima Italia non si scindesse ogni giorno di più in maggiori discordie ed intestine fazioni.”

 

Giovanni Spadolini, nella famosa conferenza del 1954 sul rapporto tra Cattolicesimo e Risorgimento parlava a questo proposito della lacerazione del ’48 e del dissidio interiore dei cattolici.

A partire da quel momento la vicenda risorgimentale si arricchisce del capitolo molto complesso costituito dalla posizione del Papa che si opporrà a tutti gli eventi cruciali della liberazione e dell’Unità, che non accetterà il nuovo Regno d’Italia (“Non possumus”), che si riterrà prigioniero all’atto della presa di Porta Pia, rifiutando la benevola Legge sulle Guarantigie e che opererà continuamente per scongiurare i cattolici dal prendere parte attiva alla vita politica e sociale della nazione (“Non expedit” = “Non conviene”, 1868).

 

Nasce così nel periodo di preparazione (1848–1861) il problema della “questione romana” e quello ancor più complesso del rapporto tra Stato e Chiesa.

A queste problematiche, risolte almeno in parte dal genio di Cavour, succederanno dopo l’unificazione le problematiche della Conciliazione, fino al momento della riappacificazione tra mondo cattolico “istituzionale” e potere politico, che avverrà ai tempi dei Patti Lateranensi nel 1929.

 

Dunque la storia presenta un racconto abbastanza stabile sia delle tante anime del Risorgimento sia delle dinamiche del suo accadere: in questo racconto resta ancora fermo il fatto che l’Istituzione romana si oppose alle aspirazioni di libertà dei suoi stessi fedeli, creando lei stessa, nel corpo sociale, un dissidio, anche violento (le insorgenze), tra popolazioni rurali e ceti più colti. Si può dire, insomma, che la Chiesa non fu perseguitata ma scelse lei stessa una strada costellata di atti autoritari fuori dal tempo (come le Encicliche anti-moderniste e il Concilio Vaticano I con il dogma dell’Infallibilità papale) lungo la quale a suo tempo (con il fascismo!) avrebbe operato una clamorosa inversione.

 

 

Cosa abbiamo da dire in qualità di evangelici?

 

Certo, come evangelici non ci ha mai allettato l’ipotesi che a trionfare fosse stata la corrente neoguelfa di Gioberti, il quale voleva un’Italia unita sotto il primato, non più temporale, del Papa di Roma. Negli anni a cavallo dell’Unità, quando era in pieno svolgimento la riflessione sul rapporto tra Chiesa e Stato, dopo il famoso discorso di Cavour in cui questi pose le basi della soluzione del problema Chiesa–Stato (“libera Chiesa in libero Stato”) e ipotecò il destino di Roma, proclamandola capitale del Regno (27 marzo 1861), Teodorico Pietrocola Rossetti ammoniva sulle ipotesi di riconoscere, per legge alla Chiesa (la religione di Stato), un primato spirituale. Nel suo opuscolo “La religione di Stato” (1860–61) egli infatti sosteneva che anche il “potere”spirituale si sarebbe presto trasformato in qualcosa di più sostanzioso.

 

È indubbio che la ricerca sul Risorgimento si sta dilatando e sta illuminando sempre nuovi ambiti e nuove problematiche.

Ciò vale anche per noi evangelici.

Penso per esempio alla precauzione che dovremmo avere nello sposare acriticamente una tesi di dubbia provenienza come quella della riforma mancata elaborata dagli intellettuali hegeliani. Tuttavia come evangelici continuiamo a pensare al Risorgimento come a una stagione provvidenziale per l’Italia, una stagione voluta dal Signore per permettere alla nostra terra, anche se in mezzo a tante difficoltà, di assistere alla diffusione della Bibbia.

 

L’idea che l’Italia, la cui preesistenza culturale era apprezzata anche dai credenti, potesse incarnarsi in una formazione statuale unitaria che contemplasse la possibilità di essere italiani anche se non cattolici fu un’idea che appassionò vivamente i nostri fratelli e le nostre sorelle dell’800.

La passione era in ordine a due, forse a tre obiettivi:

• beneficiare concretamente di un principio che evidentemente non era intravisto tra i benefici che si suppone la Chiesa di Roma avrebbe dato alla terra d’Italia per 18 secoli, quello della libertà dell’individuo;

• in secondo luogo vedere la diffusione della conoscenza della Parola di Dio e del Vangelo e,

• in ultimo, la speranza che la combinazione dei due precedenti obiettivi potesse essere estremamente benefica per il nuovo regno.

 

In ordine a questi obiettivi, e alle strade che si prefiguravano per raggiungerli, gli evangelici dell’800 operarono una diversa lettura dei secoli precedenti: per essi quei secoli non erano stati pacifici secoli di dominio Introduzione

 

Il brano che consideriamo in quest’articolo (2P 1:12-21) torna sulla questione della conoscenza che siamo tenuti ad aggiungere alla fede e alla virtù. Infatti bisogna sapere quale tipo di conoscenza bisogna aggiungere alla fede e alla virtù. Bisogna sapere anche come accedere a questa conoscenza.

 

Non è il caso di accettare proposte di conoscenza senza vagliarne la fonte.

A questo proposito l’apostolo Paolo distingue fra il “buon deposito” e “discorsi vuoti e profani” e “le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza” e a proposito di quest’ultima, aggiunge: “alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede” (1Ti 6:20; 2Ti 1:14).

 

Nozioni o ragionamenti infondati, al posto di arricchire la vita del credente, possono addirittura sviarlo dalla fede. Anche Pietro, più avanti in questa lettera, mette in guardia i suoi lettori dagli esponenti di conoscenza profana (cap. 2; 3:3-5). Si tratta di persone, falsi dottori e schernitori beffardi, che avevano pretese di conoscere ma che, in realtà, facevano “discorsi vuoti” che servivano a sviare dalla fede.

Ma prima di considerare le proposte di conoscenza da evitare, nel nostro brano Pietro definisce le fonti della vera conoscenza di cui dovremmo fare tesoro.

Il brano si divide in tre parti:

 

• Nella prima parte (1:12-15) l’apostolo parla del suo impegno per assicurare che ciò che lui predicava e insegnava fosse sempre a portata di mano dei suoi lettori.

 

• Nella seconda parte (vv. 16-18) ribadisce che la sua conoscenza delle cose di cui scrive è frutto della testimonianza oculare.

 

• La terza parte del brano (vv. 19-21), invece, definisce il valore supremo della “parola profetica”, ovvero la Scritt­­­­ura ispirata dallo Spirito Santo che è ancora “più salda” della stessa testimonianza oculare.

 

 

I propositi di Pietro (1:12-15)

 

Ciò che spingeva Pietro ad agire nel modo indicato in questi versetti era la consapevolezza che gli rimaneva poco tempo da vivere nel suo corpo mortale (“tenda”, v. 14).

È consapevole pure che sarebbe morto nel modo predetto da Gesù, ovvero in modo violento, eppure descrive la sua morte come un “esodo” (gr. exodon, v. 15).

Infatti nell’incontro descritto in Giovanni 21:15-19 Gesù gli aveva detto:

“«Quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti»Disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio” (vv. 18-19).

Quindi possiamo considerare la 2Pietro una sorta di testamento spirituale.

 

La parola “Perciò” con cui il nostro brano inizia fa comprendere che l’impegno di Pietro “di ricordarvi continuamente queste cose” nasce dal suo desiderio che i suoi lettori conseguano un ricco “ingresso nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo” (v. 11).

Si tratta di un atteggiamento di vero pastore che vuole il meglio per le sue “pecore” (cfr. Gv 21:15-17).

 

Il primo proposito che ne scaturisce (vv. 12-13) è di “tenervi desti”, letteralmente “svegliarvi dal sonno” (gr.diegeirein hymas en hypomnēsei). Soltanto così i suoi lettori saranno in grado di riconoscere le proposte dei falsi dottori (2:1) e degli schernitori beffardi (3:3) per quello che sono.

 

Il secondo proposito dell’apostolo riguarda il tempo che segue la sua morte. Il ministero della maggior parte degli apostoli ci è sconosciuto, a parte ciò che ne sappiamo leggendo il libro degli Atti, perché non hanno lasciato alcuno scritto. Pietro, Giovanni e Paolo fanno eccezione in quanto sono stati “spinti dallo Spirito Santo”(per dirlo con le parole di Pietro stesso, 1:21) a mettere per iscritto ciò che dicevano e insegnavano di persona ai loro contemporanei.

Di questo dovremmo essere estremamente grati al Signore ma anche a loro. Infatti le parole “mi impegnerò”(gr. spoudasō) ci ricordano che il far circolare per iscritto le cose che diceva richiedeva pensiero e determinazione. Non era una cosa facile, anche perché ogni copia di una lettera o un libro era costosa e richiedeva un lavoro meticoloso del copista, non come oggi quando un numero illimitato di copie possono essere prodotte da una macchina tipografica. Pietro ha lasciato due lettere dal contenuto molto ricco e, secondo Papia, egli è stato anche promotore del progetto di Marco di mettere per iscritto nel Vangelo che porta il suo nome “le cose che Pietro diceva”.

 

 

Testimoni oculari (vv. 16-18)

 

Le cose predicate e insegnate dagli apostoli risultano inverosimili se giudicate in base a ciò che succede normalmente. Di conseguenza chi si basa sulle proprie esperienze o su ciò che le persone comuni riescono a pensare e a fare, è portato a negare la storicità del racconto del quadriVangelo quando parla dell’incarnazione del Figlio di Dio, generato dallo Spirito Santo, risorto dalla morte, tornato in cielo e di cui è prevista una seconda venuta in gloria.

 

Ad esempio Rudolf Bultmann definisce questi aspetti sovrannaturali del racconto evangelico “mitologici”. Ma chi la pensa così svuota il Vangelo della sua sostanza; se Cristo non fosse vero Dio e vero uomo, morto e risorto per compiere l’opera della redenzione, l’umanità rimarrebbe nella sua condizione di perdizione.

Non solo, chi ritiene che gli apostoli abbiano raccontato dei miti ignora il fatto che questi uomini erano familiari con la categoria del mito ed escludevano in modo categorico che la storia del “Signore Gesù Cristo”fosse mitologica. Ecco ciò che Pietro scrive a questo riguardo: “Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole (gr. mythoisabilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà (v. 16).

 

A dimostrazione che lui e gli altri apostoli non erano succubi di “miti”, Pietro cita il fatto che erano stati “testimoni oculari della sua maestà”. L’apostolo Giovanni insiste sulla stessa cosa all’inizio della 1Giovanni (1:1-4). Qualsiasi interprete serio dei Vangeli deve tener presente la distinzione che Pietro, e il collegio apostolico in genere, faceva fra la categoria del mito e i fatti storici di cui loro erano testimoni.

Uno dei motivi per cui la successione apostolica è improponibile è proprio perché per potersi qualificare come testimone speciale del Signore Gesù era necessario essere stati testimoni di uno degli eventi sovrannaturali di cui parlano i quattro Vangeli: quello della risurrezione di Cristo (At 1:22).

 

Pietro cita qui un altro evento di cui era stato testimone oculare. Parlando del “Signore Gesù Cristo”, scrive:

“Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto». E noi l’abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo” (2P 1:17-18).

Il riferimento è, evidentemente, all’occasione in cui Gesù è stato trasfigurato (Lu 9:28-36).

Oltre a Gesù erano apparsi in gloria anche Mosè ed Elia, che conversavano con lui “del suo esodo [gr. exodon]che stava per compiersi in Gerusalemme” (v. 31).

Mentre Pietro, Giacomo e Giovanni scendevano dal monte con Gesù, questi diede loro quest’ordine:

“Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo sia risuscitato dai morti” (Mt 17:9), ossia finché egli non avesse compiuto l’opera della redenzione, un’opera ben più grande di quella compiuta da Dio in occasione dell’esodo di Israele dall’Egitto (Es cap. 12; cfr. Lu 22:14-16, 19-20)!

 

Nel nostro brano Pietro riassume la morte, risurrezione e ascensione di Cristo con la parola: “la potenza… del nostro Signore Gesù Cristo”Ma gli apostoli rendevano testimonianza anche alla sua“venuta”, ossia alla promessa del suo futuro ritorno in gloria, una promessa che sarebbe stata fortemente contestata dagli “schernitori beffardi” degli ultimi giorni (2P 3:3-5).

La testimonianza oculare degli apostoli della maestà del Figlio di Dio rende certo che anche la promessa del suo ritorno si realizzerà.

 

 

Perché la Scrittura è la suprema autorità nella vita del credente? (vv. 19-21)

 

Pietro descrive la “parola profetica” con una metafora molto efficace:

una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori (v. 19).

 

È da notare che “la parola profetica” della “Scrittura” (v. 20), è da considerare ancora “più salda” della testimonianza oculare apostolica. Siamo invitati a prestare la stessa attenzione alla Scrittura che si presta alla luce che proviene da una lampada in un luogo oscuro, e ciò fino a “quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori”.

 

In Apocalisse 22:16 Gesù, venuto in gloria, viene descritto come “la radice e la discendenza di Davide, la lucente stella del mattino (cfr. Nu 24:17), il che fa pensare che il riferimento temporale sia alla seconda venuta di Cristo in gloria. In altre parole, la “parola profetica”, ovvero la “Scrittura” va vista come l’autorità suprema per la durata della storia dell’umanità.

Dopodiché il punto di riferimento primario per il cuore e la mente del credente sarà Cristo in persona. Fino a quel giorno, come scrive Green, “tutto il corso della nostra vita dovrebbe essere governato dalla Parola di Dio”.

 

Ma attenzione! La funzione di questa Parola dovrebbe essere non quella di uno sterile codice di regole bensì quella di una luce che illumina, giorno per giorno, il nostro cammino (Sl 119: 105).

 

A questo punto Pietro spiega perché le Scritture figurano come la fonte suprema di conoscenza. Premettendo le parole “sappiate prima di tutto questo”, fa comprendere che ciò che sta per dire è di fondamentale importanza: “Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’inter-

pretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo” (2 P 1:20-21).

Le parole greche idias epilyseōs tradotte “da un’interpretazione personale” (v. 20) si prestano a varie interpretazioni, perché il soggetto non è definito. La parola idias significa “proprio” e qui viene usata perescludere che la Scrittura provenga da ciò che è proprio dell’uomo.

Alcuni traduttori (come la Nuova Riveduta) hanno pensato che il riferimento sia a chi interpreta la Scrittura, però il verbo “proviene” (gr. ginetai) suggerisce che idias epilyseōs si riferisca all’origine della Scrittura e non all’interprete. Che questo sia vero sembra trovare conferma nel v. 21 che spiega ulteriormente il v. 20 (si veda la parola “Infatti”).

Così abbiamo il seguente significato: la “parola profetica”, che ha assunto la forma di “Scrittura”, non è scaturita dai singoli autori umani bensì dalla volontà divina. Gli uomini coinvolti in questo processo sono stati mossi dallo Spirito Santo, come una nave viene portata dal vento.

 

Quanto detto da Pietro non implica un ruolo passivo dei portavoce di Dio che hanno contribuito agli Scritti sacri dell’Antico Testamento. Dio se ne è servito secondo le caratteristiche di ciascuno. Lo stesso vale per gli uomini che hanno contribuito alla letteratura del nuovo patto; lo si può vedere leggendo l’introduzione del Vangelo secondo Luca (Lu 1:1-4) e da ciò che Pietro scrive riguardo alle lettere di Paolo (2P 3:14-16).

Il punto è che gli uomini che hanno contribuito agli Scritti sacri sono stati strumenti nelle mani di Dio, a differenza dei “falsi profeti” e “falsi dottori” di cui Pietro si accinge a parlare (2 P cap. 2).

 

 

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

 

1. Qual è il modo migliore di vagliare la validità delle proposte di conoscenza che vengono fatte sia dentro che fuori dell’ambito della chiesa?

2. Quali implicazioni ha la distinzione che Pietro fa tra “testimonianza oculare” e “miti” per l’interpretazione dei Vangeli?

 

3. In base a 2 Pietro 2:20-21 e 2 Timoteo 3:14-17 come descrivesti l’origine e la natura degli Scritti che fanno parte del canone biblico? In che modo questi brani correggono l’opinione di chi considera la Bibbia o soltanto Parola di Dio oppure soltanto parola d’uomini?