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Ricordo ancora la mia prima gita scolastica: frequentavo la terza media e, nel viaggio verso Assisi, l’insegnante di religione cattolica, che ci accompagnava insieme a quelli di lettere e di matematica, suggerì una sosta alla Basilica di S. Maria degli Angeli. Appena entrati nel “tempio”, partì subito un invito che pareva un ordine perentorio: “Ragazzi, questo è il luogo ideale per confessarsi!”. Io, ovviamente, mi separai dal gruppo e passai il tempo girellando ed osservando i miei compagni in fila disciplinata davanti ad un paio di confessionali. Due di loro, terminato il rito, si avvicinarono a me piuttosto arrabbiati: “Beato te, Moretti… qui è peggio che ad Anghiari: ora ci tocca dire sei «Avemmarie» e sei «Padrenostri»!”. Feci così una doppia scoperta: che le preghiere venivano recitate come strumento punitivo per ottenere il perdono dei peccati e che l’intensità della penitenza era affidata esclusivamente all’arbitrarietà del confessore (i miei compagni erano arrabbiati perché, evidentemente, il prete di Anghiari, per dare l’assoluzione, richiedeva meno preghiere di quello di S. Maria degli Angeli!). Mi chiesi subito quali fossero i motivi che avevano portato la chiesa cattolica a trasformare la preghiera, l’intimo e personale colloquio con Dio, in strumento punitivo di penitenza e di purificazione! E poi: perché sottomettere alla discrezionalità dei preti la grazia divina del perdono, uguale per tutti perché offerta indistintamente a tutti sull’unica base del sacrificio di Cristo? 
    Quest’episodio rafforzò in me le convinzioni, ricavate da una personale lettura delle Scritture. Mi è tornato in mente in questi giorni, leggendo con triste stupore le parole del vescovo Gianfranco Girotti, responsabile della “Penitenzieria Apostolica”, una sorta di ministero del Vaticano addetto al controllo della confessione. A chi gli chiedeva quale fosse per lui il motivo della fuga dei cattolici dai confessionali, ha così risposto: 
    “Penso che tra la gente si stia insinuando un nuovo modo di concepire il peccato che, eliminando la mediazione del sacerdote, porta a momenti di autoassoluzione con presunte forme di dialoghi diretti con Dio, «scorciatoie» mistiche che non fanno bene a nessuno. Circa il 34 per cento dei fedeli ragiona così e rifiuta la mediazione sacerdotale nella confessione”. 
    L’elemento su cui il cattolicesimo fonda ancora oggi il suo cammino è dunque “la mediazione sacerdotale”, in parole povere: il potere della “Chiesa”, esercitato attraverso i sacramenti, di salvare o di dannare, di assolvere o di non assolvere. Ciò che preoccupa davvero le gerarchie ecclesiastiche è “l’eliminazione” di questa mediazione e la possibilità che le persone cerchino un rapporto diretto e personale con Dio. 
    Quindi: ciò che in realtà preoccupa è soprattutto una possibile perdita di potere! 
Il messaggio dell’Evangelo chiama direttamente in causa la responsabilità individuale di ciascuno di noi. È la nostra fede, cioè la nostra positiva risposta personale alla chiamata, che Cristo ci rivolge attraverso la sua Parola e per mezzo del suo Spirito, a produrre in noi i benefici della salvezza, della ritrovata comunione con Dio, del perdono continuo dei nostri peccati, della libertà di invocarlo e di adorarlo, della possibilità di servirlo attraverso i suoi doni, della certezza della vita eterna. Soltanto ricercando, sulla base della fede, un dialogo diretto con Dio, ogni uomo può ricevere le benedizioni che vengono dalla comunione personale con lui! Magari corrispondesse al vero la notizia secondo la quale gli italiani avrebbero scelto il dialogo diretto con Dio, definito in modo blasfemo come “una scorciatoia mistica che non fa bene a nessuno”!! Per chi crede in Cristo è infatti una gioia percorrere e testimoniare ogni giorno questa “scorciatoia” che porta a parlare in modo diretto con lui per confessargli i propri peccati, per ottenerne perdono (1Gv 1:8-2:2) e per invocare protezione e correzione.