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Verità e amore

 

Riccione, 18 dicembre 2008

 

Caro Mario,

sai bene che non mi piace scrivere, ma questa volta non ho proprio potuto resistere. Scommetto che stai ridendo sotto i baffi per essere riuscito a convincermi.

D’altra parte in questo breve periodo di vacanza avrei comunque studiato un libro della Bibbia e la tua proposta di leggere la terza epistola di Giovanni, scambiandoci le riflessioni via email, mi ha incuriosito.

Proviamoci quindi. Rompo subito il ghiaccio.

“L’anziano al carissimo Gaio, che io amo nella verità” (v. 1).

Che bella espressione! Giovanni, un autorevole apostolo, anziano di età ma soprattutto nella fede, si rivolge a Gaio esprimendogli tutto il proprio amore fraterno. All’epoca, Giovanni poteva scrivere “ti amo” ad un altro uomo senza essere accusato di omosessualità mentre, ai nostri giorni, sarebbe difficile farlo, anche tra credenti, senza che ci siano dei risolini di contorno.

D’altra parte, oggi, quando si parla di amore, si pensa subito all’attrazione fisica, al sesso. Basti pensare che brani come 1Sa 1:26 sono considerati sufficienti per alcuni ad evidenziare una relazione omosessuale tra Davide e Gionatan. Questo luogo comune è talmente radicato che, ad esempio, nella mia città, esiste una associazione cattolica di “gay credenti” che, guarda caso, si chiama proprio “Davide e Gionata”.

Così, anche se usiamo spesso l’espressione “Siamo fratelli in Cristo”, oppure “Ti abbraccio in Cristo”, difficilmente ci sentiamo a nostro agio a dire “Ti amo in Cristo”.

Mario, pare che il mondo ci stia rubando le parole più belle e che, per questo, noi stessi ci sentiamo imbarazzati ad usarle. La parola amore non è certo l’unica; pensa alla parola verità che sta scomparendo pian piano dal nostro vocabolario. In un mondo in cui domina il relativismo, non c’è spazio per il concetto biblico di verità.

Oggi, talvolta anche nella chiesa, la verità è diventata un concetto sul quale discutere piuttosto che un assoluto davanti al quale prostrarsi.

La Parola di Dio è verità (Gv 17:17), Gesù è la verità (Gv 14:6), e i credenti devono amarsi in lui perché sono uniti in lui.

Ma il fatto è che per amare nella verità occorre vivere nella verità e qui si apre un altro punto dolente, vero Mario?

Infatti, nell’Evangelo e nelle lettere di Giovanni, la parola “verità” ha un posto molto speciale; hai notato quante volte Giovanni usa questa parola in una epistola così breve? Pare proprio che per l’apostolo Giovanni, ispirato dal Signore, tutto abbia un senso solo in virtù della verità. Il credente ama nella verità (v. 1), cammina nella verità (vv.3, 4), collabora in favore della verità (v. 8). Insomma, per Giovanni, tutta la vita del credente è immersa nella verità, tutta la vita ha un senso solo in Cristo.

Ma oggi, troppe cose prendono il posto della verità nella nostra vita ed alla verità riserviamo uno spazio di qualche ora alla settimana, magari seduti su una sedia in un locale di culto. Forse è per questo che non ci viene tanto spontaneo dire ad un fratello: “Ti amo nella verità”?

Sono convinto che se la verità avesse davvero un posto preminente nella nostra vita, di riflesso anche l’amore nei confronti dei fratelli sarebbe più facile da esprimere. Il mondo tende ad amare ciò che è attraente o dal quale può trarre vantaggio, ma il credente ama perché non potrebbe amare Cristo e non amare il fratello.

Ecco, se imparo a vedere Cristo nel mio fratello, allora mi verrà più spontaneo dirgli: “Ti amo”. D’altra parte, come potrei non amare il mio Salvatore riflesso nella vita del mio fratello? Scusa se mi sono dilungato un po’, ma vorrei proprio che la verità permeasse le nostre vite in modo che anche l’amore fraterno potesse essere espresso in maniera più spontanea.Verità e amore: parole che il mondo ci sta rubando ma delle quali dobbiamo riappropriarci.

Mi è venuta un po’ di malinconia a pensare che fino a pochi mesi fa leggevamo la Bibbia regolarmente insieme, stando seduti l’uno davanti all’altro nel soggiorno di casa mia. Puoi dire quello che vuoi, ma non è la stessa cosa farlo tramite email. Mia moglie, che è qui accanto a me, mi sta ricordando quante sere tu e Carla siete rimasti a casa nostra fino alle ore piccole per la voglia di comprendere meglio le Scritture. Ora che vi siete trasferiti mi rendo conto davvero di quale grazia mi stava dando il Signore di avere dei fratelli come voi.

Credo davvero di poter dire che “Vi amiamo nella verità”. E ci mancate molto.

Un abbraccio in Cristo

Tommaso

 

 

Verità e salute

 

Riccione, 19 dicembre 2008

 

“Basta che ci sia la salute.

Quando c’è la salute c’è tutto.”

Caro Mario, quante volte lo abbiamo ripetuto come pappagalli senza neanche pensare a ciò che stavamo dicendo?

Hai ragione tu quando dici che nella frase di Giovanni le priorità sono diverse:

“Carissimo, io prego che in ogni cosa tu prosperi e goda buona salute, come prospera l’anima tua” (v. 2).

Giovanni si preoccupa sia della salute fisica che di quella spirituale. Egli è felice che Gaio stia prosperando dal punto di vista spirituale e spera che Gaio goda buona salute e prosperi, ma queste ultime cose sono subordinate rispetto alla prima. Egli non sostiene quindi che “quando c’è la salute, c’è tutto”, ma piuttosto che “oltre alla salute spirituale è una benedizione che ci sia anche quella fisica e che il credente goda della prosperità anche materiale”.

Se l’anima di Gaio non prosperasse, a nulla servirebbe la salute fisica da sola, e tantomeno la prosperità materiale. Oggi, al contrario, la prosperità materiale occupa il primo posto nella vita delle persone, seguita dalla salute fisica che, come spesso diciamo, è tutto. E l’anima prospera oppure no? A chi importa? Basta che ci sia la salute…

Anche noi credenti siamo caduti in questo equivoco. Infatti, come tu stesso mi puoi confermare, basta partecipare alle nostre riunioni di preghiera comunitarie per rendersi conto di quanto siamo propensi a pregare per la salute delle persone (cosa assolutamente biblica e giusta) ma difficilmente abbiamo il coraggio di pregare per un fratello con problemi spirituali. Sembra che ci sia una sorta di pudore che ci porta a non pregare per la salute spirituale e non credo che venga da Dio. Ho notato, ad esempio, che molti genitori si vergognano a pregare per i propri figli, a proporli come soggetti di preghiera quando le cose vanno male spiritualmente, eppure, gli stessi genitori non esitavano a pregare pubblicamente per gli stessi figli quando avevano qualche malattia.

Abbiamo proprio bisogno che i nostri figli siano malati per pregare per loro? Ci preoccupiamo del loro avvenire, della loro carriera, della loro salute e, non abbiamo bisogno di pregare per i loro bisogni spirituali? E se non è così, allora perché tanta difficoltà a presentare in preghiera le cose che contano veramente?

Ti abbraccio nel Signore

Tommaso

 

P.S. Non è facile parlare di queste cose visto ciò che state passando ma sono contento che tu stesso sei entrato nell’argomento. Tu e Carla siete davvero un esempio per noi, perché state affrontando la malattia con una tranquillità che dimostra proprio come la prosperità spirituale sia fondamentale anche e soprattutto quando non c’è quella fisica. Io e Nadia vi siamo vicino in preghiera. Dio sa quanto vorremmo che la salute fisica di Carla ritornasse ad essere pari a quella spirituale. Tu sai che non lo dico tanto per dire. Dalle un bacio da parte nostra.

 

 

 

Verità e testimonianza

 

Riccione, 20 dicembre 2008

 

Caro Mario,

non avevo mai considerato l’importanza della testimonianza che gli altri danno sul nostro conto.

Ho fatto vedere a mia moglie ciò che mi hai scritto e anche lei ne è rimasta molto colpita. Hai ragione quando dici che non ha molta importanza ciò che diciamo di noi stessi se non è confermato dalla testimonianza che gli altri credenti danno di noi. A cosa servirebbe essere convinti di trovarsi nella verità quando tutti gli altri credenti non saprebbero che testimonianza dare del nostro cammino nella verità?

Mi hai strappato un sorriso quando hai scritto: “Cosa direbbero di noi al nostro funerale? Forse sarebbero imbarazzati…” Non essere così pessimista, troverebbero sicuramente delle parole di circostanza tipo “era un brav’uomo”.

A parte gli scherzi, stavo notando che in questa breve epistola troviamo per ben tre volte il concetto di testimonianza che altri rendono al credente:

• “Mi sono rallegrato molto quando sono venuti alcuni fratelli che hanno reso testimonianza della verità che è in te,del modo in cui tu cammini nella verità. (3Gv 3).

• “Carissimo, tu agisci fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, per di più stranieri. Questi hanno reso testimonianza del tuo amore, davanti alla chiesa; e farai bene a provvedere al loro viaggio in modo degno di Dio” (3Gv 5, 6).

• “A Demetrio è stata resa testimonianza da tutti e dalla stessa verità; e anche noi gli rendiamo testimonianza e tu sai che la nostra testimonianza è vera” (3Gv 12).

Di cosa rendevano testimonianza le persone che venivano in contatto con Gaio? La risposta è nel verso 3: rendevano testimonianza del suo modo di camminare nella verità ovvero del suo comportamento coerente con la sua fede. La verità che abita in Gaio è visibile nel modo in cui lui cammina. Sicuramente era lo stesso per Demetrio.

Se ci pensi bene, noi non possiamo entrare nel cuore di un uomo ma osserviamo come si comporta, pertanto la nostra testimonianza si basa essenzialmente sul suo cammino, non sulle sue convinzioni interiori. Ed è giusto che sia così perché il cammino manifesta ciò che si ha nel cuore.

Ecco perché Giovanni aggiunge:

“Non ho gioia più grande di questa: sapere che i miei figli camminano nella verità”(v. 4). Giovanni non è gioioso perché coloro che si sono convertiti attraverso la sua predicazione (i suoi figli) sanno la verità, ma perché camminano nella verità. Il cammino è la dimostrazione che la verità si è radicata nel cuore e ha portato frutto.

Hai fatto caso al modo in cui, invece, oggi si utilizza la frase “Dio guarda al cuore” per mascherare i propri comportamenti peccaminosi, come se il nostro cammino fosse qualcosa di completamente slegato da ciò che alberga nel nostro cuore?

D’altra parte noi viviamo in un mondo in cui hanno più rilevanza le confessioni di fede, intese come l’espressione a parole di ciò che uno crede, piuttosto che il cammino. Così molti, se interrogati sulla propria fede, tirano fuori dalla propria tasca un pezzo di carta e dicono: “Tieni, questa è la mia confessione di fede”.

Quella confessione di fede mi dirà qualcosa sulle convinzioni dottrinali dei fondatori di questo o quel movimento, ma cosa mi dirà realmente sul rapporto tra quella persona e Cristo? Ti ricordi quante discussioni senza fine ci siamo trovati a fare sugli argomenti più disparati, lottando fino all’ultimo versetto come se dalla comprensione di quel particolare concetto potesse dipendere la nostra stessa salvezza? Eravamo convinti di dover dimostrare che ne sapevamo più degli altri, come se fosse la conoscenza intellettuale a fare di noi dei cristiani migliori. Utilizzavamo la verità come un machete con il quale potevamo massacrare chi non la pensava come noi.

Ci preoccupiamo molto di avere una conoscenza più rigorosa e appropriata di ciò che chiamiamo verità e facciamo bene, ma poi quanto ci preoccupiamo della testimonianza che altri possono rendere del modo in cui camminiamo nella verità? Quanto ciò in cui diciamo di credere condiziona il nostro modo di vivere?

La verità non è solo un concetto, ma una via da percorrere, e quella via è Gesù Cristo (Gv 14:20). Camminare nella verità significa camminare in lui, dimorare in lui, e quindi camminare come egli camminò (Cl 2:6, 1Gv 2:6). I fratelli vedevano il cammino di Gaio, il suo comportamento, il modo in cui accoglieva i fratelli stranieri(v.5-6), insomma vedevano il modo in cui Gaio camminava nella verità.

I fratelli stranieri che Gaio accoglieva stavano evidentemente svolgendo un lavoro missionario confidando nel fatto che il Signore avrebbe provveduto al loro bisogno e, quindi, non prendevano assolutamente denaro dai pagani (v. 7) ai quali andavano a predicare. E il Signore provvedeva effettivamente alle loro necessità attraverso il servizio di Gaio. In questo modo, Gaio era coinvolto nel loro servizio e collaborava in favore della verità (v. 8).

Leggendo questi versi, mi chiedo cosa vedano gli altri in me. Ci sono persone che possono rendere testimonianza della verità che è in me o devo proprio dire che sono un cristiano perché gli altri se ne accorgano? E quando lo dico, gli altri sono sorpresi o hanno la conferma di ciò che sospettavano vedendo il mio comportamento?

Devo proprio lasciare che sia una “confessione di fede” a rappresentarmi davanti al prossimo?

Un abbraccio

Tommaso

 

P.S. Quasi dimenticavo. Per rispondere alla tua domanda, stai tranquillo: io sono testimone del modo in cui tu cammini nella verità e saprei benissimo cosa dire al tuo funerale. Ma poi, chi ti dice che io ci sarò ancora per farlo? Forse è meglio che ti tieni preparato anche tu sul mio conto!

 

 

Verità e imitazione del bene

 

Riccione, 21 dicembre 2008

 

Caro Mario,

sapevo che ti saresti acceso (ti immagino con il tuo caratteristico volto paonazzo) quando saremmo arrivati ai versi che parlano di Diotrefe. Però, devo chiederti di fermarti! Non voglio che queste nostre conversazioni diventino una scusa per fare un po’ di maldicenza.

Lo so cosa stai passando perché ci sono passato anche io. E di maldicenza ne ho già fatta abbastanza nella mia vita per cui ho deciso di dire basta e di chiudere le mie orecchie a questo genere di cose. Ho scoperto che la sordità è il migliore antidoto alla maldicenza.

Tutti noi abbiamo avuto a che fare con qualche “Diotrefe” ma questo non può costituire una scusa valida per prendere questi versi e utilizzarli per tagliare e cucire a volontà sulle persone che ci circondano senza costruire nulla di buono.

Ti propongo piuttosto di riflettere sulla esortazione che l’apostolo fa a Gaio nel verso 11:

“Carissimo, non imitare il male, ma il bene. Chi fa il bene è da Dio; chi fa il male non ha visto Dio”.

È importante non imitare il male, ma non è sufficiente fermarsi qui. Occorre imitare il bene, perché chi fa il bene è da Dio. In questa struttura con parallelismo inverso (A-B-B-A, male-bene-bene-male), la frase positiva “Imita il bene, chi fa il bene è da Dio” è al centro, il che sottolinea la sua importanza.

Non si tratta di una affermazione di principio assoluta del tipo, “qualunque persona che nel mondo faccia il bene, è da Dio”. Il contesto è quello di imitare i credenti che fanno il bene, tipo Demetrio di cui parla nei versetti successivi, e di non imitare coloro che fanno il male tipo Diotrefe.

Egli utilizza i versi 9 e 10 per dare un esempio di ciò che non bisogna fare, di ciò che non bisogna imitare, non per dare un pretesto a Gaio di fare un po’ di maldicenza!

Diotrefe aspirava al primato? Gaio avrebbe dovuto aspirare al servizio.

Diotrefe sparlava dei fratelli? Gaio avrebbe dovuto amarli e rispettarli.

Diotrefe non accoglieva i fratelli? Gaio avrebbe dovuto continuare a farlo.

“Carissimo, non imitare il male, ma il bene” (v. 11). Sembra una esortazione scontata, eppure quante volte siamo tentati di fare il male proprio perché lo vediamo fare ad altri?

Gaio correva proprio questo pericolo! Vedendo il comportamento di Diotrefe poteva essere tentato di imitarlo. Avrebbe potuto spendere le sue energie nel combattere Diotrefe, ma l’apostolo Giovanni lo invita ad occuparsi di altro! Gaio doveva continuare a camminare nella verità, a dedicarsi al bene.

“A Demetrio è stata resa testimonianza da tutti e dalla stessa verità; e anche noi gli rendiamo testimonianza e tu sai che la nostra testimonianza è vera” (3 Gv 12).

Meglio spendere le proprie energie nell’accogliere degnamente Demetrio (forse si trattava di un fratello in visita ma poteva anche essere un membro dell’assemblea di Gaio) del quale tutti rendevano buona testimonianza.

Ci troviamo davanti ad una sfida precisa: anche se vediamo il male, non dobbiamo imitarlo.

Ad esempio, fare maldicenza significherebbe imitare il male invece di fare il bene, capisci perché sono stato così brusco con te all’inizio di questa lettera? Ma ti conosco troppo bene e so che non te la sei presa. Se c’è una cosa che riconosco in te è proprio la capacità di accettare serenamente le critiche costruttive e farne tesoro.

Anche l’apostolo Giovanni non ha perso tempo a fare maldicenza ma ha liquidato l’argomento “Diotrefe” con poche parole: “Se vengo, ricorderò le opere che fa”. Diotrefe sarebbe stato svergognato dalle proprie azioni, dal proprio cammino.

Mario, quanto tempo abbiamo perso a combattere i Diotrefe per poi scoprire che stavamo diventando come loro? E nel frattempo, quanti sono i Demetrio con i quali avremmo potuto passare più tempo e che ci avrebbero stimolati a fare il bene?

Ricordi l’ultimo brano su cui avevi predicato in assemblea quando ti trovavi qui? Sono andato a ripescarlo:

“Evita inoltre le dispute stolte e insensate, sapendo che generano contese. Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di insegnare, paziente. Deve istruire con mansuetudine gli oppositori nella speranza che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità, in modo che, rientrati in sé stessi, escano dal laccio del diavolo, che li aveva presi prigionieri perché facessero la sua volontà” (2Ti 2:23-26).

Istruire con mansuetudine gli oppositori nella speranza che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità. Nulla di più, nulla di meno. Non voglio essere ricordato dagli altri perché ho combattuto “dispute stolte e insensate”. Ci sono cose migliori a cui dedicarsi.

A presto

Un abbraccio in Cristo

Tommaso

 

 

Verità e cammino

 

Riccione, 22 dicembre 2008

 

Caro Mario,

da quanto mi scrivi, temo di non essermi spiegato bene quando dicevo di non perdere tempo con i “Diotrefe”. Non intendevo certo suggerire di “fare finta di niente” ma piuttosto di non affrontare il male con le sue stesse armi.

Infatti l’apostolo Giovanni pur invitando Gaio a spendere il suo tempo imitando il bene, non fa molti giri di parole riguardo a chi, dicendosi credente, fa il male: “Non imitare il male, chi fa il male non ha visto Dio”. Se ci pensi, il ragionamento presentato da Giovanni è di una semplicità disarmante: dal momento che verità e cammino sono indissolubili, chi fa il male non può aver visto Dio, non può avere comunione con Dio.

Come vedi, non si può certo dire che l’apostolo Giovanni faccia finta di niente! Ma, a differenza di quanto facciamo noi, Giovanni non risponde al male con il male e evidenzia il vero problema di cui il male è solo un sintomo: la mancanza di un vero rapporto con Dio!

È ovvio che Giovanni non sta parlando di un credente che pecca (tutti pecchiamo), ma di qualcuno che fa il male in maniera continuativa, coscientemente, con impudenza, come se niente fosse. Non è forse questo atteggiamento un segno che non si sia conosciuto il Signore? Giovanni infatti nelle sue epistole non ci esorta proprio a confessare il peccato (1Gv 1:9)? Chi dimora in lui può persistere nel peccare, può fare del peccato il suo modo abituale di vivere? (1Gv 3:6).

Come dicevamo, verità e cammino non possono essere separati. Demetrio parlava infatti con il suo cammino al punto che tutti, compreso Giovanni, erano pronti a renderne testimonianza, e il Signore stesso confermava il suo ministero (v. 12: è stata resa testimonianza da tutti e dalla stessa verità); nello stesso modo anche Diotrefe parlava con il suo cammino, sparlando, non ricevendo Giovanni ed impedendo ad altri di farlo, aspirando ad avere il primato nella chiesa e cacciando fuori dalla chiesa quelli che la pensavano diversamente (9, 10).

Oggi, è molto difficile essere così franchi. Cosa accadrebbe se tu od io dicessimo a qualcuno, pur con l’evidenza dei fatti:“Convèrtiti e cambia il tuo modo di agire! Chi fa il male non ha visto Dio”? Immagino i commenti: “Come ti permetti di semplificare in questo modo? Come puoi giudicare qualcuno in questo modo? Puoi forse vedere il cuore delle persone? Come sei superficiale?”. Siamo sempre alle solite. Oggi, se giudichiamo una persona dalle sue azioni, siamo considerati superficiali perché “Dio guarda al cuore”. Tutto il teatrino si basa sul fatto che ognuno reciti la sua parte senza sconfinare nei ruoli altrui, quindi il peccato non deve essere denunciato ma tollerato, e l’imperativo biblico di “non giudicare” viene parafrasato e trasformato, a proprio comodo, in una sorta di “Fatti i fatti tuoi” con cui si pone fine a qualunque questione morale.

Quindi, non potendo affrontare le cose in maniera corretta, troviamo il nostro sfogo rispondendo all’orgoglio con l’invidia, all’arroganza con la maldicenza, e così via. E tanti saluti al “non imitare il male”.

Che dici Mario? Sto esagerando? Sono forse il solito pessimista?

A domani. Ciao fratellone!

Tommaso

 

 

Verità e comunione

 

Riccione, 23 dicembre 2008

 

Caro Mario,

la mia vacanza sta per volgere al termine, ma anche l’epistola è terminata. Meno male che abbiamo scelto un testo breve!

Spero comunque che continueremo ancora a studiare insieme la Bibbia, anche se è difficile farlo a distanza in maniera efficace. Anzi, vorrei proprio fare mie le parole con cui si conclude l’epistola:

“Avrei molte cose da scriverti, ma non voglio farlo con inchiostro e penna. Poiché spero di vederti presto, e allora parleremo a voce” (v.13). Ovvero, certe cose devono essere discusse faccia a faccia.

Che affetto che traspare dalle parole dell’apostolo! Essere fratelli significa proprio questo: avere voglia di stare insieme, di vedersi il più presto possibile, di parlarsi a voce. Viviamo in una società in cui ormai non ci si incontra quasi maiperché si fa tutto via email, via telefono o via chat. Le persone le conosciamo meglio per i loro nickname che per i loro nomi reali. Eppure, credo che anche oggi, parlare a voce e vedersi faccia a faccia abbia un fascino straordinario. Niente può essere paragonato alla bellezza di incontrarsi, leggere e pregare insieme! I credenti hanno bisogno di stare insieme, non possono accontentarsi della comunione a distanza.

Ho sentito che molti giovani preferiscono partecipare ai forum cristiani piuttosto che a veri incontri in assemblea. Forse è più comodo, perché quando qualcuno scrive in un forum qualcosa che non mi piace, basta spegnere il PC e rimandare il fastidio di dover rispondere ad un altro momento. Forse è più comodo perché posso permettermi di essere più aggressivo rimanendo spesso nell’anonimato. Ma la comunione può esaurirsi sullo schermo di un PC? Una faccina sorridente o una bella frase sullo schermo del PC può sostituire un vero sorriso, una carezza, una pacca sulla spalla o uno sguardo silenzioso ma colmo di significato?

Mario, tu sai che amo molto la tecnologia, ma avere a che fare con persone in carne e ossa è un’altra cosa. Dobbiamo lottare per non perdere questa prerogativa e trasmetterla ai nostri figli perché si conservi finché il Signore torni.

“Ecco quant’è buono e quant’è piacevole che i fratelli vivano insieme!” (Sl 133:1).

Ti ricordi, quando abitavi a due passi da casa mia? Quante ore abbiamo passato insieme a parlare delle cose di Dio! Quante discussioni, anche appassionate, ma sempre nel rispetto reciproco, anche quando non eravamo d’accordo. Regnava sempre la voglia di dialogare e di imparare l’uno dall’altro. Ora, credimi, fatico a trovare qualcuno che abbia questo desiderio. Anche tra credenti, si parla di lavoro, si parla di calcio, si parla della crisi economica, ma pare che non si abbia più voglia di parlare della Scrittura e di incoraggiarsi a vicenda ricordando le promesse del Signore. Quando finisce la riunione oltre a spegnere le luci del locale di culto pare che si spengano anche le luci dell’anima. Si tira giù la serranda del cuore fino alla domenica successiva. Mario, ma perché ti sei trasferito?

Mia moglie mi sta chiamando perché devo ancora preparare la mia valigia, per cui devo lasciarti, ma non prima di aver detto due parole sui saluti finali, quelli che normalmente si leggono con una certa fretta.

“La pace sia con te” (v. 15a) Conoscendo ciò che tu e Carla state passando, credo che le parole dell’apostolo non ti lasceranno indifferente. Prego davvero il Signore perché la sua pace custodisca i vostri cuori e i vostri pensieri, proprio ora che siete nella prova e la pace che dà il mondo rivela tutta la sua inefficacia:

“Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”(Fl 4:6-7).

Non è solo un saluto, ma una preghiera. Qualunque parola spendessi non potrebbe alleviare il vostro dolore, ma il nostro buon Padre può darvi la pace che supera ogni immaginazione. Ne sono convinto.

“Gli amici ti salutano. Saluta gli amici a uno a uno” (3Gv 15).

Anche noi abbiamo molti amici in comune come Giovanni e Gaio, vero? Lo sai che qui tutti aspettano una tua visita e non vedono l’ora di riabbracciarti.

Mia moglie mi ha appena raggiunto con una occhiataccia, ma gli ho detto che stavo per concludere, così ora è seduta qui accanto a me e anche lei ti saluta.

Vi aspettiamo da noi il mese prossimo. Mi raccomando non trovare le solite scuse.

Un abbraccio forte. Che Dio vi benedica!

Tommaso