Piaga indegna di un paese civile
Satnam Singh è il nome del bracciante agricolo lasciato morire dissanguato da chi esercita un violento caporalato nelle campagne del nostro Bel Paese. Un macchinario avvolgi plastica, usato per raccogliere il frutto del loro duro lavoro, aveva strappato un braccio al malcapitato e chi avrebbe dovuto soccorrerlo lo ha scaricato come un pacco fastidioso vicino al tugurio dove abitava. Ventiquattro ore è durata l’agonia del povero immigrato venuto da noi dalla lontana India, spinto semplicemente dalla sopravvivenza. Quanti per non trovare la morte nel loro paese l’hanno trovata nel luogo dove avevano posto la loro speranza!
In questi giorni, in seguito a questa vicenda che ha fatto inorridire più di una persona, si è parlato spesso della piaga del caporalato ma forse pochi sanno cos’è. È una forma di reclutamento e organizzazione della manodopera a costo bassissimo, indegno di una nazione civile. Spesso dietro a questo traffico c’è la tentacolare ombra della malavita organizzata. Chi è impegnato in questa “tratta” è definito caporale. Il rispetto delle regole di assunzione e dei diritti dei lavoratori rasenta lo zero: un pesante lavoro giornaliero anche di 12–14 ore per pochi soldi, che servono appena per la sopravvivenza. Quando riusciremo a renderci conto che l’immigrazione clandestina offre un ampio bacino di manodopera per le mafie dai diversi colori?
Già nel 1980 si parlava di questo fenomeno, perciò non è cosa recente. Ciò che sta succedendo è sicuramente da annoverare in una nuova forma di schiavitù. In un mio libro recentemente pubblicato, a proposito di schiavitù faccio questa considerazione: “Purtroppo, però, alcune forme di schiavitù permangono ancora oggi e si attuano davanti al nostro sguardo accecato dall’indifferenza: tutto il mondo occidentale si comporta come i due personaggi della parabola del buon Samaritano, passando «oltre nel lato opposto» (Luca 10) per non vedere, per chiudere gli occhi davanti a una realtà ripugnante che darebbe dei “pizzicotti” alle loro coscienze”. Il fatto di cui si sono occupati tutti i media ha smosso le coscienze dei nostri politici che si sono messi all’opera per sconfiggere questa piaga, ma cosa è stato fatto nei 40 anni precedenti?
Colpevole incoscienza
Mentre sto scrivendo, la cronaca è impegnata anche nella narrazione di un’altra terribile piaga: gli omicidi stradali. Una cifra impressionante: dalle stime della Commissione Europea si calcola che circa 10.000 persone muoiono ogni anno in Europa (quasi 3 milioni in tutto il mondo) per incidenti stradali spesso provocati da un eccessivo uso dell’alcol. Ogni volta che un “adoratore del dio Bacco” si mette alla guida di una auto, rappresenta un reale pericolo per chi, disgraziatamente, si trova nei paraggi. Chi ha bevuto un bicchiere di troppo dovrebbe sapere (e forse lo sa, ma il bicchierino ha un’attrattiva più forte) che l’alcol produce scarsa capacità di giudizio (il cervello non funziona in modo normale), che c’è un aumento considerevole dei tempi di reazione e che subentra una minore vigilanza: tutti fattori che aumentano notevolmente il rischio di incidente. Quante vittime, soprattutto giovani, saranno immolate sull’altare del “dio Bacco” in quest’anno?
Anch’io posso essere annoverato tra le vittime della stupidità umana che considera l’abuso di alcol ininfluente. Era il febbraio del 1974, stavo tornando a casa dopo uno studio biblico e accanto a me c’era mio cognato, 17 anni. Da un po’ di tempo era con noi perché voleva prepararsi per un servizio a tempo pieno per il Signore. Quattro giovani che tornavano da una cena, probabilmente dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo (almeno chi era alla guida), non si sono fermati a uno stop e ci hanno travolto. Io riporto ferite multiple in diverse parti del corpo, ma il mio giovane cognato lascia questa terra nella sua giovane età. Per me ci sono state delle conseguenze certamente poco piacevoli: diversi mesi di ospedale e diverse conseguenze che mi hanno limitato notevolmente e che mi hanno accompagnato in tutti questi anni. Chi mi conosce sa che ancora ho delle notevoli difficoltà a deambulare, con una protesi al ginocchio e il 70% di invalidità che mi fa sembrare più vecchio di quello che sono. Tutto questo per qualche bicchiere di troppo.
Ubriachezza e pienezza dello Spirito
Il capitolo 5 della lettera di Paolo agli Efesini è dedicato alla formulazione di varie esortazioni tese a dare dei princìpi per una vita regolata dallo Spirito. Al versetto 18 l’apostolo fa uno strano accostamento, ubriachezza e pienezza dello Spirito: “Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito”. La prima conduce alla sregolatezza mentre la pienezza dello Spirito accompagna il credente alla riconoscenza.
L’esortazione a non cadere nella trappola dell’ubriachezza, posta in forma piuttosto perentoria, è rivolta alla chiesa della città di Efeso. Non suona un po’ strano? Come potrebbe sembrare strano che l’ubriachezza sia posta sullo stesso piano del ladrocinio, dell’avarizia, dell’oltraggio e della rapina o rapacità (1Co 6:10).
La Scrittura non prende con leggerezza il vizio di eccedere con il vino ma lo stigmatizza come qualcosa che non è in linea con un comportamento corretto, quel modo di essere guidato e sostenuto dallo Spirito Santo. I baccanali dell’antica Roma (celebrazioni mistiche in onore di Bacco, il dio greco Dionisio) non possono convivere con le agapi, feste dell’amor fraterno. Sappiamo, tramite ciò che scrive Paolo ai Corinzi, che proprio in occasione di queste feste s’intrufolava il dio bacco col suo diabolico sguardo, portando qualcuno – come si dice – ad “alzare un po’ troppo il gomito”:
“Quando poi vi riunite insieme, quello che fate non è mangiare la cena del Signore; poiché, al pasto comune, ciascuno prende prima la propria cena; e mentre uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse delle case per mangiare e bere? O disprezzate voi la chiesa di Dio e fate vergognare quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo” (1Co 11:21-22).
Con la mia consueta curiosità di chi desidera saperne di più mi sono chiesto: come mai Paolo contrappone l’ubriachezza alla pienezza dello Spirito?
Vivere nella pienezza dello Spirito è il corrispondente di “Camminare secondo lo Spirito” (Ga 5:16). Nell’elenco delle opere della carne (vv. 19-21) troviamo anche l’ubriachezza mentre nel frutto dello Spirito è presente quell’autocontrollo necessario per non farsi irretire dal dio Bacco. Solo da una vita improntata nella sottomissione allo Spirito, che è ubbidienza al Signore, noi troveremo gli elementi necessari per contrastare le “voglie della” carne di cui la tendenza ad abusare dell’alcol ne è una manifestazione.
Consapevoli dei danni che può causare un goccio di troppo, pienamente coscienti dei danni che l’alcol può causare, consci che anche noi abbiamo le nostre fragilità, edotti dalla Scrittura della disapprovazione di Dio non dovremmo vigilare un po’ di più? Forse dovremmo anche noi stare attenti al bicchierino di troppo che ci fa perdere la lucidità e che abbassa le difese morali.