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Due inattesi fallimenti

 

Nel racconto di 1Samuele 4:1 leggiamo che il popolo di Israele si accampò presso Eben-Ezer e si volse verso la battaglia contro i Filistei. Il risultato per il popolo di Dio fu disastroso con ben 4.000 morti. Secondo l’analisi fat-
ta dagli Israeliti fu il Signore la causa della sconfitta e si domandarono:

“Perché oggi il Signore ci ha sconfitti davanti ai Filistei?” (v. 3).

Aguzzando l’ingegno uma-
no ecco l’escamotage:

“Andiamo a Silo a prendere l’Arca del patto del Signore”

e – pensarono – sicuramente vi sarà la vittoria nella seconda battaglia.

Nonostante la presenza dell’Arca, di due sacerdoti Ofmi e Fineas con le loro pratiche partecipative, la vittoria non arriva, anzi la sconfitta è ancora più pesante e grave: 30.000 sono i soldati uccisi. La carneficina è di sette volte maggiore della prima. Eppure, tutto ciò che era di buon auspicio per un esito positivo è stato fatto, manca però alla fine il risultato favorevole. Il quadro descritto in 1Samuele 4:17 è tragico: Israele è fuggito, il suo esercito è allo sbando in ogni dove; si verifica una strage di notevoli proporzioni; i due rassicuranti sacerdoti con il loro intervento sono morti, l’Arca, ovvero la presenza di un patto visibile e divino, è catturata dai nemici e il sacerdote Eli muore accidentalmente per dolore. Ancora: sua nuora muore di parto, appena apprende la doppia tragica notizia della morte del marito e del suocero Eli, affermando profeticamente per due volte:

“La gloria si è allontanata da Israele” (v. 22).

Una tragedia inaspettata secondo i disegni umani di buon senso, messi in atto e sbandierati come rassicuranti, secondo logiche già sperimentate e con preghiere invocanti la protezione divina. Nonostante ciò anche i Filistei sono consapevoli che l’Arca è presente e i commenti non sono propizi:

“I Filistei ebbero paura, perché dicevano: «Dio è venuto nell’accampamento». Ed esclamarono: «Guai a noi! Poiché non era così nei giorni passati.  Guai a noi! Chi ci salverà dalle mani di questi dèi potenti? Questi sono gli dèi che colpirono gli Egiziani d’ogni sorta di flagelli nel deserto…»” (vv. 7-8).

 

Una sconfitta inaspettata

 

Purtroppo la sconfitta israeliana è dirompente in tutti i suoi aspetti. Questo ci ammonisce che, anche quando pensiamo di agire conformemente al dettato biblico o nelle forme più ortodosse, se i progetti ben definiti e concepiti in maniera omogenea non sono fedeli alla volontà di Dio, non vi sarà risultato apprezzabile o vittoria conseguente.

L’Arca sebbene fosse un simbolo dimostra che non era un oggetto di poco conto, come certe volte attribuiamo a certi simboli: la sua presenza in mezzo ai Filistei fu causa di un giudizio in mezzo a quel popolo, che fu indotto a restituirla per fermare certe piaghe terribili spuntate dal nulla, ma sicuramente riallacciate a quella ingombrante presenza dell’Arca del patto.

Aver a che fare con i disegni divini e contrastarli, si va incontro a situazioni pericolose per ogni aspetto della nostra vita.

Ma, dopo venti anni di anonima dimora a Chiriat-Iearim, succede che l’Arca inaspettatamente prende nuovamente forza nel messaggio di vittoria. È la stessa situazione della casa del Padre del figliol prodigo, nella ben conosciuta parabola evangelica.

Nell’oblio (Lu 15:17-18) la casa, che un giorno era stata abbandonata e disprezzata, diventa la casa del pane, della vita, della festa coinvolgente e della gioia abbondante per il figlio ravveduto, convertito dal ricordo dell’amore paterno e che torna fiducioso nelle accoglienti braccia familiari.

 

Una storia simile

 

Il frangente nel racconto di Eben-Ezer è uguale; dopo l’eloquente tempo passato nell’indifferenza, la visione dell’Arca prende corpo e la voce del profeta Samuele si erge sul popolo come una grande forza e luce di convincimento. Succede la stessa cosa nella vita degli uomini di oggi; dopo un lungo tempo di peregrinazioni nello stordimento mondano, fatto di allucinazioni, di abbagli che sembrano risolutivi, di una esistenza senza la consapevolezza dell’amore divino, ecco apparire in lontananza l’Arca, ovvero il Signore Gesù con il suo fascino amoroso e il suo Spirito che indirizza il richiamo, la sua piacevole voce, per accedere e incamminarsi verso il Salvatore.

L’appello alla riconciliazione e alla salvezza si snoda in diverse fasi come nella storia analizzata. Samuele propone la verifica della motivazione:

“Se davvero tornate al Signore…” (1Sa 7:3).

Occorre sapere se le intenzioni del nostro cuore sono ferme, convincenti e risolute; se l’obiettivo è quello di tirare a campare, di avere una religione come molte ve ne sono, delle protezioni effimere, allora è meglio non sperare, non illudersi. Se invece l’intento è raggiungere la pace con Dio e proseguire nella testimonianza con Gesù, ecco che le condizioni sono favorevoli per il ravvedimento.

Gesù ci ricorda:

“Ecco Io sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me, Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono” (Ap 3:20).

 

Le parole del riscatto

 

Nelle parole della Bibbia vi è tutto ciò che occorre per avere la vita eterna, l’importante è tornare al Signore e avere la consapevolezza del tragitto da compiere. Il passo successivo è:

“Allora Samuele parlò a tutta la casa d’Israele e disse: «Se davvero tornate al Signore con tutto il vostro cuore, togliete di mezzo a voi gli dèi stranieri e gli idoli di Astarte, volgete risolutamente il vostro cuore verso il Signore e servite lui, lui solo. Allora egli vi libererà dalle mani dei Filistei» (1Sa 7:3).

Samuele indica tre passi decisivi: togliere, volgere servire. In questi tre verbi vi sono i germi della fede: il Signore vuole la confessione del nostro peccato, il dirgli che non siamo in grado di soddisfare la sua giustizia e di non meritare con le nostre opere il suo perdono, perché è già gratuito e disponibile a tutti. Perciò ci affidiamo a Gesù,

“l’Agnello che toglie il peccato del mondo” 
(Gv 1:29).

Il terreno favorevole è Mispa (“Ed essi si radunarono a Mispa, attinsero dell’acqua, la sparsero davanti al Signore, digiunarono quel giorno e dissero: «Abbiamo peccato contro il Signore»”, 1Sa 7:5). Mispa era una delle città rifugio e territorio di raccolta; nel suddetto terreno della grazia caratterizzato da quel attinsero l’acqua”, c’è l’incontro con Gesù.

Mispa è altresì terreno di preghiera, come abbiamo letto, e ancora del digiuno, non per diventare più santi, più presentabili e con un aspetto migliore, ma per essere più consapevoli del progetto redentivo del Signore. Gesù ci riceve come siamo, carichi di peccati ma fidenti. Mispa è il luogo della paura dell’ignoto, di ciò che può capitare nell’inesperienza nostra di essere con Gesù, ma è anche l’ora di non cessare di pregare:

“I figli d’Israele lo seppero, ebbero paura dei Filistei e dissero a Samuele: «Non cessare di pregare per noi il Signore, il nostro Dio, affinché ci liberi dalle mani dei Filistei” (1Sa 7:7-8).

Soprattutto è l’ora del valore dell’olocausto, dell’agnello per antonomasia, di colui che ha offerto la propria vita per il peccatore, per redimerlo e portarlo alla vittoria sul male. Ai vv. 9 e 10 leggiamo che

“Samuele prese un agnello da latte e l’offrì intero in olocausto al Signore; e gridò al Signore per Israele, e il Signore l’esaudì. Mentre Samuele offriva l’olocausto, i Filistei si avvicinarono per assalire Israele; ma il Signore in quel giorno fece rimbombare dei tuoni con gran fragore contro i Filistei e li mise in rotta, tanto che essi furono sconfitti davanti a Israele. Gli uomini d’Israele uscirono da Mispa, inseguirono i Filistei e li batterono fin sotto Bet-Car”.

Dopo alcune centinaia di anni, mentre l’olocausto veniva offerto, il grido che emerse, “quando Gesù ebbe preso l’aceto”, fu. “È compiuto!” (Gv 19:30). Subito dopo, “chinato il capo rese lo spirito”. Il grido di vittoria era stato elevato al Calvario: chi si rifugia in quel grido “è compiuto, si salva per l’eternità.

Guidati da Samuele, gli Israeliti avevano completato tutto ciò che Dio aveva richiesto, si erano presentati ravveduti dalla sua voce e fiduciosi in lui, che li avrebbe riscattati dalle insidie nemiche. E, come accadde “mentre Samuele offriva l’olocausto”, che “i Filistei si avvicinarono per assalire Israe-
le; ma il Signore in quel giorno fece rimbombare dei tuoni con gran fragore contro i Filistei e li 
mise in rotta, tanto che furono sconfitti davanti a Israele”, così Gesù con il valore del suo sacrificio libera eternamente le anime dei peccatori. La Scrittura ci rivela una pienezza di vittoria:

“Non vi è alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Ro 8:1).

 

Un proclama efficace

 

L’apostolo Paolo proclama che

“Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi. Tanto più dunque essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di Lui salvati dall’ira”(Ro 5:8-9).

Come la sconfitta dei Filistei dimostra la vittoria di Israele, così la sconfitta della morte con la resurrezione di Gesù, dimostra il trionfo del Cristo per chi crede in Lui. Il finale della storia è noto:

“Allora Samuele prese una pietra, la pose tra Mispa e Sen e la chiamò Eben Ezer e disse: Fin qui il Signore ci ha soccorsi”.

Quella pietra è simbolica: la Scrittura ci avvisa che Cristo Gesù è la Pietra per eccellenza:

“Accostandovi a lui pietra vivente, rifiutata dagli uomini ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi pietre viventi siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” 
(1P 2:4-5).

La vittoria e la liberazione sono confacenti al sacrificio di Gesù al Calvario, che autodefinisce quell’olocausto sufficiente a redimere gli uomini per la sola fede.

Che possiamo veramente confidare nel soccorso divino per i lunghi mesi che rimangono davanti a noi del 2017, seguendo l’esempio dell’esperienza di Israele come ci è rivelata nel racconto preso in esame.