Tempo di lettura: 10 minuti

Desidero affrontare con questo studio il tema della preghiera nel contesto del discepolato cristiano. Il Maestro dedica ampio spazio a questo insegnamento, e sarà opportuno ripercorrerlo nelle sue linee principali.

La stessa preghiera comunitaria perde valore se i membri dell’assemblea, ciascuno per proprio conto, non hanno prima incontrato il Padre celeste nella profondità del proprio animo.

 

La riflessione ci conduce direttamente alla preghiera del cuore: Gesù, nel suo insegnamento liquida ogni forma di preghiera che consista nel pronunciare automaticamente determinate formule, ma: “Quando preghi, entra nella tua camera …” (6,6).

La propria “camera” è indubbiamente un’immagine volta a un insegnamento: la “camera” non è solo uno spazio fisico, né si tratta di un invito di carattere privato e intimistico, quanto piuttosto di una qualità dell’incontro con Dio. La “camera” indica il dialogo del cristiano con il Padre, incontrato nella profondità della propria coscienza.

 

L’insegnamento centrale sulla preghiera è però rappresentato dal “Padre nostro”. Il “Padre nostro” non si presenta come una “formula” di preghiera da ripetere a memoria, bensì come un prototipo, un archetipo su cui modellare la preghiera cristiana.

Oltre alla versione di Matteo che noi seguiremo, la preghiera è riportata anche nel Vangelo di Luca, dove la parabola dell’amico importuno è introdotta dalla preghiera del “Padre nostro”, che l’evangelista ci propone in “versione ridotta” rispetto a quella di Matteo (Lu 11:1-4).

La diversità delle due redazioni della preghiera di Gesù, denota chiaramente che non si tratta di una “formula rituale” ma, come abbiamo detto, di UN MODELLO DI PREGHIERA.

Se si fosse trattato di una formula, sarebbe stata registrata parola per parola, tanto più che questa è l’unica preghiera insegnata direttamente dal Signore.

 

Da questo modello di preghiera emergono almeno tre aspetti fondamentali:

1. La nostra preghiera è rivolta più alla paternità di Dio che alla sua onnipotenza: “Quando pregate, dite: «Padre..».” (Lu 11:2).

 

2. Non è giusto pregare per le proprie necessità umane, senza cercare prima la gloria di Dio (Mt 6: 9-10).

 

3. Non è autentica la preghiera di chi non è uomo di pace (Mt 6:12), da qui l’importanza della riconciliazionenel nuovo ordine delle relazioni umane.

Riprenderemo questi singoli punti in modo più analitico.

“PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI…”

 

È la preghiera più comune e più nota nella civiltà cristiana, il cui significato, però, appare oggi tutt’altro che scontato.

Infatti dire “padre”, “papà”, chiama in causa un immaginario segnato da esperienze umane ambivalenti, più spesso negative. Come quelle espresse da Franz Kafka nella sua tormentata “Lettera al padre” scritta nel 1919:

 

 “Caro papà, recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te, come al solito non ho saputo risponderti, in parte, appunto, per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari… se ora tento di risponderti per lettera, anche questa sarà una risposta molto incompleta, perché anche quando scrivo, mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze, e perché la vastità del tema oltrepassa di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza”.

 

È una lettera struggente che esprime la relazione frustrante con un padre dispotico, che schiaccia il figlio e lo priva della libertà. Ma è anche un testo simbolico che segna un’epoca, siamo nel 1919 quando Franz Kafka scrive questa “Lettera al padre”, egli ha 36 anni, non è più un ragazzino, è ormai un uomo adulto.

Scrive al suo papà sostenendo che l’esperienza da lui vissuta è sempre stata l’esperienza del padre padrone, del padre tiranno che toglie la libertà, un padre che schiaccia. Questa lettera che Kafka scrisse non giunse mai al suo papà, la ricevette la madre, e rimane un simbolo per tutti noi.

 

 

Da una società di padri padroni

ad una società senza padri

 

È vero, tanti padri hanno schiacciato nella storia e, se c’è un padre di famiglia che schiaccia i figli, ci sono anche dei padri padroni che hanno schiacciato intere società: è la storia degli assolutismi, dei totalitarismi.

Siamo nel 1919, è appena terminata la prima guerra mondiale con i suoi milioni di vittime, ma già si profilano all’orizzonte altri totalitarismi che porteranno alla seconda guerra mondiale con le sue immani tragedie.

Attenzione, anche nel nome di Dio Padre è possibile alimentare ogni forma di tirannia. La scritta “Gott mit uns”, “Dio è con noi” impressa in rilievo sulla fibbia metallica delle cinture della Wehrmacht, diventa il Dio che dà la forza per schiacciare il fratello. Siamo di fronte alla più scellerata strumentalizzazione del nome di Dio, compiuta in palese e colpevole disobbedienza al chiaro comandamento della Bibbia: “Non nominare il nome di Dio invano”.

 

Ma dopo che tutti questi assolutismi si sono frantumati, così come s’è sgretolata la grande statua con i piedi di argilla, resta una domanda incalzante: cancellata quell’immagine di padre e padrone, immagine potente e dominante, cosa resta del “padre”?

Viviamo in una società che è stata definita “la società senza padri”.

Alcuni segni di questa “messa in congedo” della figura paterna, sono sotto gli occhi di tutti. La stragrande maggioranza dei figli delle coppie separate sono affidati alla madre, alcuni a istituzioni pubbliche, ma pochissimi al padre.

Il risultato è che ci sono sempre più ragazzi che crescono senza una figura paterna accanto.

 

Negli ultimi anni sono nate moltissime associazioni dei padri separati per rivendicare il diritto di essere genitore dopo la separazione. Ci sono state anche dimostrazioni plateali come quella di Jason Hatch, il papà-Batman che rimase appeso per ore ad una parete di Buckingham Palace.

L’esautoramento del padre è evidente anche nelle leggi sull’aborto. La madre, da sola, ha il diritto di decidere, con il risultato che un uomo può vedersi privato di uno dei diritti fondamentali della persona – quello di diventare padre – anche se il figlio è stato concepito all’interno di una relazione matrimoniale.

Questa è forse la reazione nei confronti di una società in cui il padre decideva tutto da solo, decideva della moglie e dei figli, ma, come in ogni reazione estrema, si riproduce sotto altra forma lo squilibrio che si voleva correggere.

 

 

Una religione senza Padre!

 

Questa situazione ci interessa anche per il riflesso che ha nel campo religioso: a una società senza padri, può corrispondere più facilmente una religione senza Padre.

Oggi dobbiamo dire che il grande sconosciuto è il Padre. Più che sconosciuto: rifiutato!

La cosiddetta “teologia della morte di Dio”, in auge negli anni ’70, era in realtà la teologia della morte del Padre (era lui che si intendeva con il termine “Dio”!). Ma senza arrivare a queste assurdità, vi sono chiese cristiane la cui teologia presenta delle evidenti carenze: Gesù Cristo e il suo Spirito Santo, e basta.

 

Il Padre non viene negato, ma è trascurato, non si capisce quale sia il suo ruolo. Riflettono, per esempio, questo tipo di teologia sbilanciata i canti negro spirituals, pur così belli e pieni di fede. A stento se ne trova fra essi uno, non dico interamente dedicato al Padre, ma almeno che ne faccia menzione.

Ma se il Padre è “la radice dell’essere”, senza di lui non possiamo che sentirci “sradicati”.

Quasi tutte le rivoluzioni moderne, a partire da quella francese, si sono proposte di realizzare una società di tutti fratelli, ma si sono sbarazzate del Padre.

 

Ma, tolto un padre comune, in chi saremo fratelli? Se Gesù parlasse oggi, dovrebbe ripetere la sua triste constatazione:

“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17:25).

Le cause dell’oscuramento della figura di Dio Padre nella cultura moderna sono molteplici. Al fondo però c’è sempre la sete implacabile di autonomia e di potere dell’uomo. E siccome Dio Padre si presenta come il principio stesso e la fonte di ogni autorità, non restava che negarlo, e così è avvenuto.

 

 

La più grande benedizione:

“conoscere il Padre”!

 

L’esperienza negativa con il padre terreno, per quanto importante, non preclude però a nessuno di accedere alla conoscenza del Padre celeste. A volte le reazioni sono divergenti sul piano dell’esperienza religiosa: c’è chi è spinto dalla propria esperienza negativa a rifiutare la figura di Dio Padre o almeno a nutrire paura anziché fiducia nei suoi confronti e c’è chi invece trae dalla sua esperienza negativa la spinta per gettarsi con una fiducia ancora più totale nelle braccia del padre celeste.

 

Nessuno dunque, per quanto negativa possa essere stata la sua esperienza in questo campo, è escluso dalla possibilità di mettersi alla ricerca del volto e del cuore del Padre celeste; nessuno è escluso dal bene supremo della vita che è, secondo Gesù, “conoscere il Padre” (Gv 17:3).

 

La preghiera insegnata da Gesù, vuole aiutarci a recuperare la figura del Padre, in vista di una comprensione piena e autentica del Padre celeste. Non è un’operazione facile, ma è ciò che vogliamo fare attraverso un esame attento del testo. Non  si tratta tanto di imparare a pregare, quanto cercare di comprendere il cuore di Gesù nel suo modo di rapportarsi a colui che pregava, all’Abbà, all’Adonai.

A noi interessa, in base alle testimonianze che ci sono state lasciate, capire proprio ciò che Gesù sentiva, i sentimenti che erano in lui.

 

Quando pregate dite Abbà (Lu 11:2-4).

Abbiamo alcuni esempi nell’Antico Testamento dove Dio è paragonato a un “padre”, ma pochissimi esempi (solo quattordici casi) nei quali Dio è invocato con il nome di “padre”.

È un modo inedito di rivolgersi a Dio, non attestato nei giudaismi contemporanei a Gesù.

Da alcuni studi risulterebbe che i maestri della Legge si facevano chiamare rabbì, soprattutto nella Giudea e in particolare a Gerusalemme, mentre in Galilea, la patria di Gesù, sembra che si facessero chiamare abbà, papà. Questo perché i loro discepoli dovevano seguire un percorso di studi e di formazione che durava decenni, prima di diventare a loro volta dei dottori della Legge, per cui questi rabbì (abbà) erano per loro come dei papà.

 

Ma Gesù invita a non chiamare nessuno, su questa terra, “maestro”, “rabbì” (il titolo con cui sono soliti farsi chiamare i dottori della Legge a Gerusalemme), perché uno solo è il vostro Maestro, e voi siete tutti fratelli…”, e neanche “abbà”, “papà” (il titolo con cui sono soliti farsi chiamare i dottori della Legge in Galilea), perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste…, e una sola la vostra Guida, il Cristo”.

Gesù introduce un nuovo modo di intendere le relazioni tra le persone, in cui tutti sono fratelli, e vengono accompagnati e guidati da Gesù ad avere in Dio l’unico vero Padre e Maestro. Gesù stesso non si fa chiamare Abbà o Rabbì, ma guida, cioè colui che conduce al padrel’unico Abbà e l’unico Rabbì.

 

Ma quando i dottori della Legge pregavano, come chiamavano il Dio di Israele? Loro che erano i massimi esperti della Legge e pregavano tre volte al giorno come tutti gli Israeliti, come chiamavano Dio? Sappiamo che loro non chiamavano Dio né Abbà, né Rabbì, ma Adonai (il Signore). Alcuni studi hanno confermato che di regola, nessuno nella preghiera chiamava il Dio di Israele Abbà, papà: sembrava un po’ sfrontato, sembrava inusuale.

Il nome famigliare abbà, che in aramaico corrisponde all’italiano papà è il nome di Dio che l’evangelista Marco coglie sulle labbra di Gesù anche nell’Orto degli Ulivi:

Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”.

Ma con quale linguaggio si può parlare del mistero ineffabile del Padre?

 

 

Gli antromorfismi e “il cuore” di Dio

 

La critica del positivismo linguistico è forse servita a farci capire che il linguaggio più appropriato per parlare di Dio non è il concetto, ma il simbolo, la metafora, la preghiera, la narrazione. Questa critica ha spinto la teologia a riaccostarsi al linguaggio biblico! Il simbolo non pretende di definire e racchiudere, ma la sua funzione è quella di suggerire, evocare, far scaturire la luce da un’analogia o da un contrasto. Parabole e simboli sono messaggeri discreti, umili: consegnano la loro parte del messaggio e poi si fanno da parte, lasciando ad altre parabole di completarlo. Non così i concetti e i dogmi: con essi non ci si può fermare a metà strada, non ci si può “contraddire” con essi.

La soluzione non è rinunciare a ogni discorso concettuale su Dio, ma nell’affiancare a esso un discorso simbolico, cioè rendere vivo il discorso concettuale mediante agganci continui al mondo dell’esperienza, mediante simboli, metafore, allegorie, parabole.

Del resto è ciò che fa la Bibbia, utilizzando ampiamente metafore e simboli (cosiddetti antropomorfismi): la mano di Dio, le dita di Dio, il volto di Dio, le ali di Dio, ecc…

Ma la realtà più carica di significati simbolici di tutta la Bibbia è il cuore. Indica ciò che vi è di più intimo e profondo nell’uomo, la sede dell’intelligenza, della volontà, degli affetti, il luogo dove si decide l’orientamento di fondo della persona.

Anche in Dio, cuore indica la sua capacità di volere, gioire e soffrire con l’uomo e per l’uomo.

 

Dopo il peccato, Dio “si addolorò in cuor suo” e si pentì di aver fatto l’uomo” (Ge 6:6). Dio parla di sacerdoti, pastori o uomini “secondo il suo cuore” cioè che rispondono ai suoi più profondi desideri (1Sa 2:35; Ge 3:15).

Ma l’uso più toccante del simbolo del cuore si ha quando Dio parla dei sentimenti che prova nei confronti del suo popolo, nel momento stesso in cui è costretto a minacciarlo e castigarlo:

Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11:8).

Dio prova un tuffo al cuore ogni volta che si ricorda di Efraim (Gr 31:20).

Ecco, il cuore del Padre è il più grande alleato dell’uomo!

 

 

Una relazione non liturgica,

ma viva, intima e personale!

 

“Voi dunque pregate così: «Padre nostro che sei nei cieli…»” (Mt 6:9).

“Quando pregate dite: «Abbà, papà»” (Lu 11:2).

 

Con questa espressione, Gesù Cristo ha voluto eliminare dall’immaginario umano ogni elemento di distanza o di timore servile. Inoltre, fin dall’inizio viene ricordato all’orante che la preghiera è “dialogo”, relazione io-Tu; essa è rivolta a qualcuno, e questo qualcuno è innanzitutto “Padre”.

Si esclude perciò fin dalla prima parola ogni atto liturgico che ruoti intorno a sé stesso, e non sia una viva relazione col Dio vivente. Si comprende subito se, nella nostra preghiera personale, si verifica un autentico incontro con il Padre, oppure no.

Quando infatti questo incontro si è verificato, ci si sente diversi: vale a dire, si lascia la preghiera e si torna alla vita attiva, con la sensazione di essere invasi da una forza nuova.

 

Nel nuovo modo di intendere le relazioni da Gesù, si allude anche alla verità esistenziale dell’orante. La parola di apertura della preghiera, “Padre”, chiama in causa lo statuto di “figlio”in realtà solo chi possiede lo statuto di “figlio” (in quanto adottato in Cristo e unito a lui) e vive da figlio, può sperimentare davvero cosa sia la preghiera cristiana.

Non è in sostanza conciliabile l’atto di rivolgersi a Dio e comunicare con lui, con certe disposizioni d’animo come l’indifferenza verso la sua Parola, la sfiducia o la presentazione di opere di giustizia per essere accettati da lui.

 

 

Figli di uno stesso Padre,

perciò… fratelli

 

La prima parola della preghiera non ammette l’atteggiamento di coloro che si rivolgono alla sua onnipotenza, ma non alla sua paternità, ovvero: quelli che lo accettano in qualità di Creatore, ma non in qualità di Padre.

 

Ci sono in realtà diversi stadi di ingresso nella figliolanza divina e tutti si radicano nella fede: si deve credere che Dio non è soltanto Creatore ma anche un Padre che ama e non soltanto un Padre che ama tutti, ma un Padre che, pur senza trascurare gli altri, ama personalmente proprio me, si prende cura delle circostanze quotidiane della mia vita (Mt 6:26).

 

Se le cose stanno così, allora bisogna saper individuare la sua mano paterna nella vita quotidiana, oltre che nell’intero arco della propria storia. Un cristiano non può ritenere che alcune cose accadano perché Dio le vuole, e altre invece perché gli sfuggono dal controllo. Più correttamente bisogna pensare che tutto ciò che accade, accade in lui.

 

La parola iniziale, “Padre”, oltre a indicare la realtà della divina figliolanza in Cristo, indica pure un’altra conseguenza esistenziale: nel pronunciare questa parola, l’orante si professa fratello di tutti coloro che invocano Dio nella stessa maniera, avendo lo stesso Cristo come fratello primogenito (Cl 1:18).

Dopo la sua risurrezione, Gesù ci chiama “fratelli”, ed è ovvio che l’essere fratelli “suoi” corrisponde con l’essere fratelli “tra noi”.

Possiamo ricordare qualche brano tra i più significativi:

 

“Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea, là mi vedranno” (Mt 28:10).

“Va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro…»” (Gv 20:17).

 

 

Solo attraverso la croce

si comprende il “Padre nostro”

 

Dio, in Cristo, ha voluto discendere per gradi fino al punto più basso:

• la discesa nell’umanità, imponendosi i limiti dello spazio e del tempo;

• la discesa nella povertà, rinunciando ai sostegni del potere umano;

• la discesa nella sofferenza morale, accettando l’incomprensione dei suoi stessi discepoli, il tradimento di Giuda e la persecuzione del sinedrio;

• la discesa nella sofferenza fisica, accettando la morte prematura, e quella morte violenta; la discesa nel mistero dell’abbandono del Padre, che giunge al culmine nell’agonia sulla croce;

• la discesa agli inferi, dove gli spiriti dei giusti lo attendevano per essere liberati.

 

La sua risalita nella risurrezione attraversa poi tutti questi strati e li contagia definitivamente con l’energia divina della risurrezione.

Da quel momento in poi, ogni credente che sperimenta la discesa nella sofferenza morale o fisica, la discesa nella solitudine, nell’incomprensione, nella malattia, si incontra necessariamente con colui che vi è già disceso.

 

Condividendo totalmente la sorte umana, Cristo si è fatto fratello di ciascuno, perché ciascuno sia a sua volta fratello di tutti.

Questo significa che solo chi entra nello spessore della croce, può dire con verità: “Padre nostro”.

Infatti, solo se si entra nel mistero della croce di Cristo, si acquista lo statuto di “fratelli” e di “figli” e si acquista come dono gratuito del Risorto l’effusione dello Spirito Santo.

Questa è pure la ragione per cui, tra le richieste formulate nella preghiera del Signore, non c’è la richiesta dello Spirito Santo. Ed è ovvio: chi prega autenticamente con le stesse parole di Cristo, lo fa mosso dallo Spirito; l’orante ha già ricevuto lo Spirito Santo, perché è già entrato nello statuto di “figlio” (Ro 8:14).

 

Con queste due parole, “Padre nostro”, Gesù ristabilisce il giusto ordine nelle relazioni umane e porta a compimento la profezia di Malachia:

 

“Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e il cuore dei figli verso i padri” (Ml 3:5-6).