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Le sette autorivelazioni di Gesù.

 

Il Signore Gesù è venuto nel mondo per condurci al Padre.

Per spiegare meglio il suo pensiero e rendere più accessibili alcune verità spirituali egli le illustrava con degli esempi molto semplici, tratti dalla vita di tutti i giorni o parlando di oggetti d’uso comune.

 

L’evangelista Giovanni, forse quello che meglio li esplicita, registra tredici osservazioni nelle quali Gesù usa “Io sono” (Es 3:14), che può essere considerata un’espressione equivalente di “Dio vivente”“Il Signore è il vero Dio, egli è il Dio vivente e il re eterno” (Gr 10:10), specialmente se seguita da un oggetto simbolico che ne specifica la modalità.

Le asserzioni potrebbero distribuirsi nel seguente gruppo di sette autorivelazioni o raffigurazioni:

1. “Io sono il pane della vita (tre volte in: Giovanni 6:35; 6:41; 6:48).

2. “Io sono la luce del mondo (due volte in: Giovanni 8:2; 9:5).

3. “Io sono la porta (due volte in: Giovanni 10:7; 10:9).

4. “Io sono il buon pastore (due volte in: Giovanni 10:1; 10:14).

5. “Io sono la resurrezione e la vita (una volta in: Giovanni 11:25).

6.“Io sono la via, la verità e la vita (una volta in Giovanni 14:6).

7. “Io sono la vera vite (due volte in: Giovanni 15:1; 15:5).

 

È appunto il tema della vita che unifica queste immagini, “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10:10) riferite da Gesù a sé stesso.

 

 

La prima autorivelazione o raffigurazione

 

“Io sono IL PANE DELLA VITA” (Gv 6:35, 41, 48).

 

Questa solenne definizione che Gesù dà di  stesso va collocata nel contesto delle altre sei definizioni che sono sempre precedute dalla formula: “Io sono”, che va intesa come prolungamento nel Vangelo del modo solenne con cui la Bibbia presenta Dio.

 

Questa espressione per noi enigmatica, era facilmente comprensibile per i Giudei, i quali sapevano che era collegata con la rivelazione del nome di Dio fatta a Mosè (Es 3:14): “Io sono colui che sono”.

 

Gesù identifica  stesso con Dio (Yhwh), come se dicesse: “Io sono colui che sempre fu, sempre è e sempre sarà, al di fuori e al di sopra del tempo e dello spazio… Io sono il Creatore e Signore di tutto, colui per il quale non c’è né passato, né futuro, ma un eterno presente”.

Intorno a questa formula “Io sono” Gesù sviluppa sette importantissimi temi, il primo dei quali è appunto il pane celeste che dà la vita della grazia in terra e della gloria nel cielo.

 

 

Un nutrimento per la vita

 

Il pane è il cibo più comune che vi sia al mondo. Sebbene qualche volta possa variare negli ingredienti e nei metodi di lavorazione, nella forma e nel gusto, il pane è essenziale come nutrimento.

 

La missione di Gesù in seno all’umanità ed il suo modo di esprimersi ha attraversato ogni barriera, in ogni età.

Quando Egli disse: “Io sono il pane della vita” parlò a tutti gli uomini d’ogni tempo.

Cristo è essenziale al nostro nutrimento spirituale, d’ogni giorno, come il pane lo è per il nostro nutrimento fisico.

La sua assenza dalla nostra vita ci lascia spiritualmente affamati, la sua presenza è una gioia ed una sorgente di forza.

 

Soltanto il pane celeste proceduto da Dio, dona vera vita.

In Cristo è la nostra speranza per la salute spirituale poiché egli soltanto, che è il pane vivente della vita, soddisfa largamente ogni necessità.

Il nutrirsi del “pane della vita” non è un atto individuale, ma collettivo, in quanto si attinge alla medesima sorgente di vita.

Gesù, facendo “sedere la gente” (Gv 6:10), non distribuisce solo del cibo, ma presiede un pasto comunitario, che ricorda quello che chiamiamo: la cena del Signore” (Lu 22:7-20).

 

Come cercherò di spiegare più avanti, mangiare questo pane significa entrare in un rapporto completamente nuovo con lui.

Lui è il vero “pane della vita” per l’umanità (Gv 6:48-51).

È lo Sposo che dona  stesso in sacrificio, (quale espiazione per il peccato), per compiere l’unità perfetta con la Sposa.

Non vi è altro cibo che l’amore dello sposo divino stesso.

In quest’amore sta la vita eterna, la vita secondo l’amore nuziale di Dio.

 

 

Cinque pani d’orzo e due pesci.

 

L’episodio che consideriamo, a cui Giovanni darà un senso profondo, aggregando all’evento il famoso discorso sul “pane della vita” (versetto 35), si svolge in riva al mar di Galilea (piccolo lago, conosciuto con vari altri nomi) e poi nei pressi del monte, luogo della presenza e della manifestazione di Dio (Es 34), simbolicamente lontano dagli influssi della mentalità del mondo.

 

In Matteo 5 (dove viene riportato il testo del cosiddetto “sermone sul monte”), il monte è il luogo dell’insegnamento, ma è anche il luogo del banchetto escatologico.

“Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli su questo monte un convito di cibi succulenti, un convito di vini vecchi, di cibi pieni di midollo, di vini vecchi raffinati” (Is 25:6).

 

Al seguito di Gesù c’è molta folla perché in tanti sono attratti dai segni che egli compie sugli infermi.

Gesù con l’episodio che segue, vuole darci un insegnamento ma anche proporci simbolicamente un cibo nuovo, superiore.

Nel Vangelo di Giovanni non compare il termine “miracoli”, che nei sinottici indicano la manifestazione della potenza di Dio che opera in Gesù e che sono generalmente conseguenza della fede in lui; compare invece il termine “segni”, che rimandano a ciò che sta al di là di essi e invitano a percepire qualcosa del mistero di chi li compie.

 

Essi hanno la duplice funzione di suscitare la fede e la manifestazione della gloria di Dio.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani, in Giovanni, non nasce da una situazione di necessità o dalla richiesta di qualcuno, ma è un gesto puramente gratuito di Gesù.

Un gesto di compassione nei confronti di una folla affranta, ma pure un segno ben più esaltante: l’offerta di un cibo spirituale che dura in vita eterna.

“L’opera dell’uomo riguardo a questo cibo apportatore di vera vita, consiste semplicemente nell’appropriarsi ogni giorno del dono che gli porge colui che Dio ha mandato. Senza questo dono, vana sarebbe ogni opera sua, come d’altra parte il dono non avrebbe efficacia alcuna, se non fosse assimilato mediante la fede” (Godet).

 

 

“Dove compreremo del pane?” (6:5)

 

La domanda di Gesù a Filippo è provocatoria e sottolinea l’impossibilità dell’uomo di procurarsi il “vero” pane.

L’apostolo fa i suoi calcoli economici: nemmeno duecento denari di pane, pari al guadagno per duecento giornate lavorative e di sudore, sarebbero sufficienti per darne un pezzettino a ciascuno.

 

Allora da dove si può avere questo alimento?

Già Isaia aveva proposto di “comprare senza denaro” (Is 55:1-2) non cibo che perisce, ma la Parola di Dio, il cui ascolto e osservanza fa vivere e conduce all’alleanza eterna.

Gesù, con la sua domanda, intende aprire l’animo del discepolo a ciò che il nutrimento simboleggia secondo la tradizione profetica.

Ciò sarà ben compreso dall’apostolo Pietro, quando dirà: “Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6:68).

 

Prima che Gesù facesse questa domanda a Filippo, gli apostoli, come raccontano i sinottici (Mt 14:15), già avevano pregato il Maestro di licenziare la folla affinché andasse a comprarsi da mangiare.

Questa domanda fatta da Gesù al suo discepolo era solamente per metterne alla prova la fede, poiché sta scritto che “egli sapeva bene quello che stava per fare” (Gv 6:6).

 

A questo punto interviene Andrea, fratello di Pietro che dice: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?” (Gv 6: 9).

Un fanciullo che, proprio perché è tale, non conta, è chiamato in causa e coinvolto.

La presenza di questo ragazzo è accolta dal Maestro, la sua generosità valorizzata, la sua disponibilità portata ai massimi livelli.

Quello che ha è il “pane dei poveri” (l’orzo), veramente poca cosa davanti a cinquemila persone che attendono!

Ha con sé anche due pesciolini, un companatico sufficiente solo per lui, nulla di più del necessario per quel giorno; però mette tutto a disposizione di Gesù.

 

Questo racconto ci ricorda l’episodio narrato in 1Re 17:8-16 dove il profeta Elia viene nutrito, durante la grave carestia che afflisse Israele, da una povera vedova di Sarepta (città fenicia posta sul Mediterraneo, fra Tiro eSidone), alla quale aveva chiesto di dargli tutto il cibo che le rimaneva.

Certamente il suo non fu un atto di egoismo, ma solo un modo per mettere alla prova la fede. Questa donna pagana dimostra di accogliere prontamente la parola pronunciata dal profeta da parte del Signore, e vieneprima ricompensata e poi ricordata anche da Gesù che la contrappone come esempio di fede, all’incredulità dei suoi concittadini di Nazaret (Lu 4:25-26).

 

Da questa povera vedova e da questo ragazzo ci viene una lezione di vita!

Dobbiamo mettere nelle mani di Gesù quel poco che abbiamo per aiutare chi è nel bisogno.

Egli è l’unico che sa moltiplicare e saziare gli affamati, tanto che “tutti mangiarono e furono sazi; e si portarono via, dei pezzi avanzati, dodici ceste piene” (Mt 14: 20).

Ciò che egli fa, lo fa bene, e in abbondanza.

 

Certamente il Signore avrebbe potuto compiere il miracolo in altro modo, magari trasformando le pietre in pane e invece prima chiede: “Dove compreremo del pane?” e poi prende il poco di un fanciullo e ne fa dono a tutti.

Sorprendente questo modo di moltiplicare.

Di sicuro possiamo pregare dicendo a Gesù che aiuti tutti i bambini che muoiono di fame, e sono tanti, ma poi non dobbiamo sottrarci dal tirar fuori qualcosa dalle nostre tasche per aiutare concretamente questi bambini.

 

Gesù ci interpella sulla necessità della folla bisognosa di pane, cioè di quell’alimento essenziale per la vita e perciò necessario al sostentamento.

Ma quel pane non è solo il cibo materiale, si chiama ascolto, solidarietà, condivisione, fraternità, annuncio della buona notizia.

Noi dobbiamo partecipare agli altri quanto il Signore ci ha donato per poterli far felici, nella certezza che la nostra piccolezza diventa il potenziale perché il “cibo celeste” possa raggiungere moltitudini che attendono la Parola che sazia la loro fame di vita e di eternità.

 

 

La primizia

 

Il testo di Giovanni 6 annota che “c’era molta erba in quel luogo” e che i pani erano d’orzo, che oltre ad essere il pane dei poveri, è segno di primizia, perché è il primo frumento a maturare. Annota anche che “era vicina la Pasqua”.

Pasqua è la festa più grande dei Giudei, ordinata da Dio per commemorare la liberazione del suo popolo dalla schiavitù d’Egitto, intesa a tipificare il sacrificio di Cristo, l’agnello di Dio ucciso per i peccati del mondo (1Co 5:7-8).

Ed è Gesù stesso, la “primizia dei risuscitati” (1 Co 15:20) a distribuire il pane (ed il companatico) dopo “aver reso grazie” e dopo aver fatto accomodare ben cinquecento uomini (cioè i capofamiglia, senza contare le donne e i fanciulli), dando cibo a “quanti ne vollero”, parole che mettono in luce la grandezza del miracolo.

 

Nei sinottici è detto che sono i discepoli a farlo, questo perché l’insegnamento è diverso.

Mentre là si trattava di far loro capire la loro responsabilità, ricevendo essi stessi dal loro Maestro ciò di cui avevano bisogno, qui (nell’evangelo di Giovanni), si vede il Signore Gesù operare direttamente, divinamente, in mezzo alla rovina e alla incapacità dell’uomo.

Tutte modalità per dire che la folla si sfama veramente, ma il contesto segnala il “di più”, già dato, anche se non ancora compreso.

Lo stesso raccogliere dodici ceste di avanzi non è la prova (non richiesta) del miracolo, né tanto meno una questione (legittima) di pulizia ecologica e di rispetto del cibo, ma molto di più. Il pane raccolto “perché niente si perda è un pane che rimane, un pane non deperibile, il pane che va custodito: la Parola.

 

Anche se la folla non capisce, il Signore Gesù continua a moltiplicarlo ancora oggi.

Il sovrappiù nella Bibbia manifesta la generosità sovrabbondante di Dio nei confronti dell’uomo: “Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più (Mt 6:33).

 

 

Dio si prende cura dei nostri bisogni.

 

Gli evangelisti collocano la predicazione e i gesti di Gesù nel contesto di forme e modelli che si rifanno all’Antico Testamento e al mondo circostante, giudaico ed ellenistico.

Tuttavia, nell’insieme del Vangelo di Giovanni, questo “segno” presenta caratteristiche rilevanti.

 

Innanzitutto è importante cogliere la dimensione eucaristica del segno. E qui è necessario ricordare che il termine “eucaristia” deriva dal greco (Lu 22:19; Mt 26: 27; 1Co 11:24) e significa ringraziamento o rendimento di grazie a Dio.

È quindi il segno dell’istituzione della cena, quindi segno del “pane e del calice”, quali simboli del suo corpo rotto e del suo sangue sparso per noi.

 

I gesti e le parole di Gesù che moltiplica i pani sono, infatti, le parole e i gesti della Santa Cena.

Giovanni non descrive l’istituzione della Cena come i sinottici che la collocano nel contesto pasquale (Mt 26:17-20; Mr 14:12-25; Lu 22:7-20), ma essendo ormai universale, nel momento in cui scrisse il suo Vangelo, la sua osservanza in tutte le chiese cristiane, ne parla in questo lungo capitolo sei, ove i fatti raccontati corrispondono esattamente a quelli riferiti dagli altri tre evangelisti.

 

Vi è poi il significato più profondo a cui rimanda “il segno” della moltiplicazione dei pani.

L’uomo non può limitarsi alla sola fame materiale né all’abbondanza dei beni che la possono saziare.

“Il segno” della moltiplicazione dei pani esprime il forte bisogno dell’uomo di essere in comunione con Dio, di avere fame di lui e della sua Parola.

 

Infine questo “segno” conduce al riconoscimento della vera identità di Gesù.

Gesù non è solo un profeta; l’espressione: “Questi è certo il profeta che deve venire nel mondo” (6:14), richiama la figura di Mosè e quella del profeta per eccellenza, la cui venuta era stata profetizzata proprio dallo stesso Mosé“Per te il Signore, il tuo Dio, farà sorgere un profeta come me; a lui darete ascolto” (De 18:15).

Gesù è il Signore della vita.

 

Soltanto sotto la sua signoria l’uomo può condurre un’esistenza pienamente realizzata e può essere nella vera abbondanza (il numero “dodici”, riferito alle ceste con i pezzi di pane avanzati, nel simbolismo biblico indica proprio abbondanza, pienezza e compimento).

 

Giovanni in questa pagina evangelica, ci presenta il miracolo in tutto il suo valore di “segno”: quell’evento prodigioso conduce ben oltre la semplice moltiplicazione dei pani per portare il lettore a comprendere che Gesù è il vero “pane della vita”.

 

La narrazione di Giovanni viene come anticipata dalla lettura del brano del libro dei Re ove si narra del profeta Eliseo che esorta colui che aveva portato dei pani a darli alla gente (2Re 4:42-44).

È una struttura analoga a quella della moltiplicazione: c’è la stessa incredulità che ritroviamo nei discepoli e la stessa qualità di pane (orzo), ma anche la stessa generosità di Dio che supera ogni grettezza umana.

Il miracolo è opera di Dio, ma richiede pure la disponibilità dell’uomo.