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Messaggio dai toni positivi

 

Geremia signitica “Jahvè risollevi dalla miseria e dal bisogno”: di stirpe sacerdotale, chiamato e forzato dal Signore ad essere profeta, un profeta incaricato di annunziare la contrarietà di Dio verso Israele, un messaggero che incarna il messaggio con sofferenza indicibile ed annunzia e vive il pensiero e la volontà di Dio.

Sono famose le sue parole veementi ed i suoi gesti simbolici compiuti per avvalorare il messaggio di giudizio:

• contro l’ingiustizia (5:1),

• contro l’idolatria (2:13),

• contro il tempio trasformato “in una spelonca di ladroni” e di abominazioni idolatriche (7:11),

• contro i falsi profeti (28:9).

Ma, ecco, che in questa circostanza di deportazione e di esilio il suo messaggio assume toni di positività e, al tempo stesso, di richiamo alla consapevolezza circa l’autenticità del rapporto che deve intercorrere fra il popolo e Dio che lo chiama e lo sostiene.

In quella controversa e drammatica situazione Geremia scrive, parla da lontano, ma parla ancora nel nome del Signore dicendo:

“Così parla il Signore degli eserciti a tutti i deportati che io ho fatto condurre da Gerusalemme a Babilonia” (29:4).

Questo messaggio si può riassumere in tre punti:

 

 

Fede nell’universalità di Dio, del Dio di Israele

 

Una vera rivoluzione per le religioni che hanno tutte un luogo di riferimento, un centro di culto. Geremia annunzia invece che è possibile trovare Dio anche in un paese pagano ed invocarlo senza tempio e sacrifici.

La cosa decisiva è che si cerchi Dio con tutto il cuore ed egli si lascerà trovare.

Dio è presente ovunque, ne consegue che riti, segni, sacramenti, gerarchie, rappresentanze e vicariati sono relativi e nocivi per la fede autentica. Infatti non è la fede che produce l’esilio, ma il peccato che Dio indica e punisce.

Tutti i credenti, come cittadini del cielo, sono in esilio nel mondo del peccato, ma è in questo mondo, in un mondo che Dio ha amato e che ama, che essi devono ricordare la vocazione che hanno da lui ricevuto e che devono invocarlo con tutto il cuore: lì stanno la salvezza e la liberazione dal peccato!

Molti credenti si sentono estranei, in esilio, a causa della loro fede e chiamati solo a non confondersi con “la presente storta e perversa generazione”, dimenticando però che è lì che “il Signore li ha condotti”è lì che devono espletare la chiamata alla testimonianza della fede, a testimoniare là dove la fede è stata esiliata dai cuori! Non quindi a giudicare, bensì a portare, vivendola, la Parola di speranza e di salvezza.

Giovanni ricorda le parole di Gesù il quale ha affermato:

“Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3:17).

 

 

Amare “la città” che ci ospita

 

Per il credente “la città” è il mondo, ma in modo particolare il luogo dove vive. Egli deve amare la convivenza, pregare per il bene della convivenza sociale e deve vivere coerentemente secondo i criteri creazionali, deve moltiplicarsi: figli e figlie secondo la carne ma anche e soprattutto secondo lo spirito: “Andate e fate miei discepoli tutti i popoli” (Mt 28:18).

Amare significa dare, ma qui in Geremia Dio ci rivela che il bene che si dà è il bene che si riceve, volere il bene significa ricevere il bene.

Amare è partecipare, costruire, piantare non solo alberi e vigne, ma anche sentirci responsabili della convivenza, moltiplicare dove si è e non diminuire, infine cercare il bene della propria città e pregare il Signore per essa, perché dal suo bene dipende il nostro bene.

Essere autenticamente cittadini del cielo (popolo di Dio) significa coinvolgersi per coinvolgere, essere positivi e propositivi per il bene, per il bene di tutti, essere segni di quel regno di Dio che comincia dai cuori e che si estende verso il mondo:

“Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo”  dice ancora oggi Gesù a coloro che lo seguono e lo ascoltan!

Un sale che sala, una luce che splende!

 

 

Testimoni di speranza

 

L’esilio di Israele è una della più belle immagini di speranza per l’umanità.

Una speranza non facile da viversi, infatti il testo ci parla di settant’anni di durata dell’esilio, il che equivale a dire che nessuno dei destinatari della lettera, tranne forse i neonati, avrebbero conosciuto la liberazione.

Ma il messaggio è proprio questo: la situazione cambierà e la frustrazione è superara dalla promessa:

“Io so i pensieri che medito per voi, dice il Signore, pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza”(29:11): speranza di continuità del popolo e, alla luce di Cristo, di vita eterna.

I falsi profeti in Israele predicavano pace e benessere. Anche oggi tanti falsi profeti insistono su questi temi, sottacendo la Giustizia e la Verità e, quando accennate, sempre declinate in termini interessati e miopi anche religiosamente parlando.

I settant’anni di attesa della liberazione sono il segno della ineluttabilità dell’esilio quindi della morte, ma anche della vocazione fino alla morte, sapendo che il suo sopraggiungere non costituisce la fine della vocazione. Alla fine dell’esilio non ci sarà la fine della vita e della vocazione, ma ci sarà la fine della morte. Questa è la speranza che Dio prospetta al suo popolo, richiamandolo alla fede, alla positività, alla responsabilità, all’amore, alla speranza.

Cristo ha vissuto come esiliato in questo mondo (“Il mio regno non è di questo mondo”), ma ha tolto e perdonato il peccato generando la fede e, con il suo sacrificio, ha posto le basi per una speranza che non confonde, mentre con la sua resurrezione indica che la vita sta al di là di ogni esilio umano.

Geremia è stato profeta e sacerdote per un tempo. Gesù per l’eternità.