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Cosa sappiamo di Matteo?

Il primo dei vangeli sinottici porta il nome di Matteo[1]: chi era? Che cosa ha fatto d’importante?

È quello che cercheremo di scoprire, senza dimenticare che il nostro intento è sempre quello di “vedere Gesù” negli scritti che parlano di lui.

“Poi Gesù, partito di là, passando, vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: «Seguimi». Ed egli, alzatosi, [lasciata ogni cosa, Luca] lo seguì. [Levi gli preparò un grande banchetto in casa sua, Luca] Mentre Gesù era a tavola in casa di Matteo, molti pubblicani e peccatori vennero e si misero a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. I farisei, veduto ciò, dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia con i pubblicani e con i peccatori?» Ma Gesù, avendoli uditi, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Ora andate e imparate che cosa significhi: Voglio misericordia e non sacrificio; poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori»”.

(Matteo 9:10-13)

L’episodio è narrato anche da Luca, con la differenza che egli usa il secondo nome di Matteo, Levi. In quel tempo era frequente avere due nomi.

Nel testo, come avrete notato, abbiamo inframmezzato delle frasi di Luca (i due racconti sono sostanzialmente uguali).

Di Matteo sappiamo che:

◆    esercitava il mestiere di “gabelliere”;

◆   aveva un secondo nome, Levi;

◆   accettò subito l’invito rivoltogli dal Maestro;

◆   per riconoscenza preparò un banchetto per Gesù e i discepoli, al quale invitò anche i suoi amici;

◆   diventò uno dei dodici apostoli;

◆   infine, scrisse il vangelo che porta il suo nome.

Matteo, il gabelliere

Il gabelliere era colui che aveva l’incarico di riscuotere la gabella. Egli era chiamato anche pubblicano[2], un termine che troviamo sovente nei
Vangeli e sempre in forma dispregiativa. Uno sguardo alla situazione storica ci aiuterà a capire il perché.

La Palestina in quel periodo storico, come buona parte del mondo antico, era sotto il dominio romano. Come tutti gli invasori, l’impero pretendeva una gabella (una tassa) dai popoli vinti. Per questo scopo appaltavano a ricchi personaggi (come gli Erodi) a riscuotere il dovuto. Costoro avevano dei propri agenti per la riscossione, oppure vendevano parte dei loro diritti a un esattore.

Naturalmente, non essendoci una tassa fissa ed equa e una legge che proteggeva i contribuenti, ognuno ingrassava il suo conto, come meglio (o peggio) poteva. Spesso, ce lo attesta la Scrittura, i gabellieri frodavano senza tanti scrupoli (Lu 3:12, 13) e per questo i gabellieri erano considerati dal popolo dei peccatori, al pari di ladri e prostitute. C’è da aggiungere, inoltre, che addosso a loro c’era anche il marchio dell’infamia di essere dei collaborazionisti (prestavano la loro opera per conto degli odiati nemici) e degli impuri, perché erano in costante contatto con i pagani.

A questo punto permettetemi una domanda: perché proprio a lui Gesù rivolge l’invito a seguirlo? Abbiamo già più di una volta sottolineato che al Maestro piaceva provocare, ma questo sembra troppo! Chiamare al tuo seguito uno sporco collaborazionista, un ladro senza scrupoli, una persona odiata dal popolo… Mi è capitato spesso di pensare che se io fossi Dio tante persone non le avrei mai chiamate a far parte della mia famiglia, non le avrei mai adottate; altrettanto spesso, però, mi è capitato di pensare la stessa cosa nei miei riguardi. Perché proprio me, con tutti i miei difetti, le mie debolezze e gli innumerevoli “spigoli” del mio carattere? Oppure, perché proprio quella persona con tanti problemi? Perché quella donna così antipatica? Perché quell’uomo così avido?

Qualche anno fa ho letto con grande interesse il libro dal titolo “Le relazioni interpersonali di Gesù”[3]. L’autore ha scritto qualcosa anche in merito a ciò che stiamo esaminando. Partendo dalla frase di Gesù “Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi”, egli fa le seguenti considerazioni:

“Io vi ho scelti, disse Gesù. Sicuramente quei primi discepoli si chiesero perché mai la scelta di Gesù fosse caduta proprio su di loro. Gesù era il Re dei re, il Signore dei signori, con ogni gloria a portata di mano: egli aveva il potere di scegliere chiunque avesse voluto. Avrebbe potuto scegliere i rabbini più famosi, i più importanti farisei o sadducei; avrebbe potuto scegliere le persone più ricche o più, popolari, Avrebbe potuto scegliere chiunque avesse voluto, e invece scelse proprio quella piccola banda di dodici uomini”.

Sì, Gesù scelse Matteo! Gesù ha scelto me. Il suo amore lo spinge anche dalle persone più infime, emarginate. Perché? Il motivo lo vedremo dopo.

Lasciare per prendere

“Ed egli, alzatosi, [lasciata ogni cosa] lo seguì”.

Fa pensare il modo in cui Gesù si rivolse al gabelliere: “Seguimi”. La sua richiesta non lascia spazio a repliche o tentennamenti e richiede una risposta immediata. Sorprendente è anche la risposta di Matteo ed è la stessa di altri discepoli[4]. Che cosa c’era in Gesù che spingeva chi lo ascoltava a un simile comportamento? È una domanda che mi pongo sovente.

Per mettersi al seguito di Gesù occorre lasciare qualcosa; Egli, in uno dei suoi discorsi più significativi, disse:

“Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà” (Mr 8:34,35).

Occorre avere le mani sgombre, per afferrare la croce e seguire Gesù. Matteo lascia il banco della gabella, lascia il facile guadagno, per afferrare la croce; Pietro, con suo fratello, lascia le reti e anche lui afferra la croce; Paolo lascia una carriera ben avviata con prospettive di successo nell’ambiente in cui viveva per andare incontro alla persecuzione.

Bel guadagno, direte voi! Occorre essere un po’ suonati, per seguire Cristo… È vero, spesso la fede assomiglia alla pazzia per chi ha impostato la propria vita nell’adorazione del benessere, del cospicuo conto in banca, della bella villa e della lussuosa automobile. Personaggi come Francesco d’Assisi, Valdo di Lione e tanti altri come loro, che lasciarono una vita facile, sono considerati dei pazzi fanatici, degli illusi. Nelle orecchie di costoro sono risuonate con forza le parole del Maestro:

“Che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo

e perde l’anima sua?”

Occorre lasciare la propria vita, per non perderla:

Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”.

La croce, strumento di tortura e di morte, diventa il mezzo per avere la vita; il suo legno, una volta afferrato, diventa il salvagente per chi sta affogando. Sono parole troppo difficili, inquietanti? Non prendetevela con me, sono parole di Gesù.

Una cosa è certa: non possiamo metterci alla sequela di Cristo portandoci dietro tutto ciò che può essere un impedimento al nostro cammino. L’autore della lettera agli Ebrei, pensando alla vita cristiana come a una corsa, fa questa raccomandazione:

“Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio”.

(Eb 12:1-2)

Due verbi sono da evidenziare in questo testo: deporre e correre. Per poter correre occorre prima deporre (lasciare): è da stupidi pensare che si possa correre speditamente tenendo sulle spalle un pesante carico! Che cosa dobbiamo deporre? “ogni peso” e “il peccato”. La distinzione tra peccato e peso è da tenere in seria considerazione. Il peccato è tutto ciò che va contro la legge divina e il peso è tutto ciò che non è esplicitamente peccato ma che appesantisce il nostro cammino, è qualcosa che, pur essendo lecito non è utile (1Co 6:12; 10:23). L’utilità di una cosa si valuta dall’impatto che ha sulla nostra vita spirituale. Per avere la stessa esperienza radicale di Matteo e di altri discepoli dobbiamo valutare attentamente il “bagaglio” che ci portiamo appresso in questo nostro pellegrinaggio.

Aggiungi un posto a tavola

[Levi gli preparò un grande banchetto in casa sua, Luca] Mentre Gesù era a tavola in casa di Matteo, molti pubblicani e peccatori vennero e si misero a tavola con Gesù e con i suoi discepoli”.

L’incontro con Gesù cambia la vita di Matteo-Levi. Egli, per riconoscenza, organizza un grande banchetto (il denaro non gli mancava) e invita chi è diventato il suo nuovo punto di riferimento. L’ex-gabelliere (dico ex perché per mettersi al seguito di Gesù, non poteva più portare avanti la sua redditizia ma poco onesta attività: “Chi rubava non rubi più” raccomanda Paolo) allarga l’invito anche ai suoi amici, pubblicani e “peccatori” come lui. È certo che fece conoscere agli invitati ciò che gli era successo e presentò loro l’Autore della sua salvezza. Questo banchetto è da considerarsi un incontro evangelistico. Chi è stato toccato dalla grazia di Dio non può tenere per sé questo tesoro, ma cerca di condividerlo subito ad altri.

Ho sempre considerato la tavola imbandita un mezzo per incontrare altri, per conoscerli meglio o per avere l’occasione di condividere la mia fede. Ringrazio il Signore di avermi dato una moglie sempre disponibile per tale attività, brava a cucinare senza spendere cifre esorbitanti. Intorno alla tavola i cuori si scaldano e… si aprono. Attenti, però, a non dare l’impressione di aver rivolto l’invito, solo per lo scopo che vi siete prefissi: discrezione e sensibilità d’animo sono i benvenuti. L’ospitalità, non dimentichiamolo, è incoraggiata dalla Scrittura:

“L’amor fraterno continui fra voi. Non dimenticate l’ospitalità; perché, praticandola, alcuni, senza saperlo, hanno albergato degli angeli”

(Eb 13:1-2)

“Provvedete alle necessità dei santi, esercitate con premura l’ospitalità”.

(Ro 12:13)

Credo che sia molto difficile vivere un’autentica vita cristiana, senza uno spirito pronto all’accoglienza, ben rappresentato dal noto motivo musicale: “Aggiungi un posto a tavola, che c’è un amico in più…”.

Chi ha bisogno del medico?

“I farisei, veduto ciò, dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia con i pubblicani e con i peccatori?». Ma Gesù, avendoli uditi, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»”.

Per alcuni Farisei, il cui motto era: “Fatti più in là, perché sono più santo di te”, mangiare insieme a dei peccatori era qualcosa di scandaloso, assolutamente sconveniente per un Rabbi. La loro domanda è rivolta ai discepoli e non al diretto interessato. Perché? È evidente il loro intento di mettere sotto una cattiva luce Gesù, per allontanare da lui chi aveva deciso di seguirlo. Il Maestro, però, non si lascia sorprendere e, prima che i discepoli potessero aprire bocca, comunica il suo pensiero sotto forma di metafora.

Nel pensiero del religioso c’è l’idea che i “santi” non possono avere relazioni con i peccatori: il “santo” deve stare con i suoi simili, per non imbrattare la sua anima con la sporcizia dei peccatori. Gesù che ha scelto di condividere il pasto (un momento importante per la cultura ebraica) con dei peccatori dimostra di essere come loro (questo era sicuramente il pensiero dei pii religiosi). Il Maestro, però, rende evidente l’assurdità del loro pensiero con la metafora del medico e dei malati. Il pensiero espresso è questo: “È vero, queste persone sono dei peccatori, dei malati spiritualmente e proprio per questo hanno bisogno di essere guariti; io sono il medico che ha la soluzione per la loro malattia”.

Gesù divide le persone in due categorie: i sani e i malati. Questa divisione operata dal Maestro ci potrebbe portare a concludere che nel mondo esistono anche delle persone spiritualmente sane, che non hanno bisogno del suo intervento? È evidente il tono ironico di Gesù e spesso occorre saperlo cogliere, per non interpretare male il suo pensiero. I sani sono coloro che confidano nella propria giustizia, che pregano, come il Fariseo:

“O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo”.

Il “sano” è chi non riesce ad alzare lo sguardo da se stesso, che è rinchiuso nelle segrete del suo egoismo, che si nutre della propria religiosità. No, secondo il pensiero di Dio non esistono dei veri sani:

“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”.

(Ro 3:23)

Gesù “mangia con i pubblicani e i peccatori” non perché condivide il loro modo di vivere, ma perché hanno bisogno di lui. La Chiesa, come il suo Signore, deve stare nel mondo senza condividere i pensieri e le azioni del mondo; nel momento che si estranea dalla società in cui vive, perde la sua funzione di testimone. Gesù conclude il suo discorso ribadendo il concetto espresso con altre parole:

“Ora andate e imparate che cosa significhi: «Voglio misericordia e non sacrificio»; poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori”.

In questo passo il Signore dichiara lo scopo della sua venuta, come ha fatto in altre occasioni (elenchiamo solo quelle ricordate da Matteo: 5:17; 9:13; 10:34-36; 18:11; 20:28). I “giusti” sono i sani di prima. Se non si comprende bene la frase rischiamo di pensare che il Maestro ami circondarsi di farabutti, allo scopo di mettere su un’associazione con l’intento di delinquere. Dio apprezza i giusti, ma non chi crede di essere giusto valutando il suo comportamento con dei personalissimi parametri, non chi è giudice di se stesso e si assolve sempre, non chi, come il fariseo citato, pensa di ottenere dei favori da lui a motivo dell’osservanza di regole religiose. Costoro non avranno spazio tra i membri della sua famiglia. Gesù chiama i peccatori, ossia coloro che sanno di non poter contare su una personale giustizia, ma unicamente sulla grazia di Dio.

La “misericordia” è posta in contrasto con il “sacrificio” che in questo caso rappresenta la religiosità. Quando la religiosità (qualsiasi tipo di religiosità) è svuotata dalla misericordia assume delle sembianze che la fanno essere un elemento estraneo al volere di Dio.

Solo un vero ravvedimento può creare in noi lo spazio per un’autentica misericordia; solo se il nostro cammino sarà strettamente vincolato a quello di Gesù potremo avere la sua stessa libertà: liberi da una moltitudine di stereotipi, liberi da un’ipocrita religiosità, liberi dall’idea di essere i migliori, liberi di amare e accogliere il diverso, perché la diversità non ci spaventa.      

[1] Il nome deriva dall’ebraico Mattithyàh, dono del Signore.

 

[2] Il pubblicano, nell’antica Roma, era l’appaltatore di tributi; il termine deriva dal latino publicānus, da publĭcum che significa: tesoro pubblico, imposte.

 

[3] di Martin Goldsmith, edito dai G.B.U. Chieti 2003.

 

[4] Matteo 4:19, 20: “E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, lasciate prontamente le reti, lo seguirono”.