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Introduzione

Lo Spirito, miracolosamente, ha reso in grado l’assemblea di parlare. Il primo dono dello Spirito è il dono della parola e della proclamazione. La scena si sposta rapidamente dall’interno della camera alta, dove i discepoli erano riuniti, all’esterno, nella strada, dove il messaggio evangelico sta già attirando una folla. All’inizio del suo vangelo, Luca caratterizza Giovanni Battista come uno che “convertirà molti dei figli d’Israele al Signore, loro Dio” (Lu 1:16). Ora, fuori, sulla strada, ci sono “dei Giudei, uomini religiosi di ogni nazione che è sotto il cielo” (v. 5). L’identità dei presenti è accuratamente composta da Luca con alcuni attributi:

  1. Sono Giudei; risiedono a Gerusalemme.
  2. Sono uomini devoti, cioè osservanti della Legge e dei riti di Israele. L’espressione “uomini religiosi”, rende l’idea della loro religiosità fatta essenzialmente di timore di Dio e di osservanza scrupolosa e amorevole della Legge dei padri.
  3. Provengono da nazioni pagane: “tutte le nazioni che sono sotto il cielo” (At 2:5), essi hanno sempre mantenuto la loro identità giudaica ed appartengono a pieno titolo al popolo d’Israele. In breve, la folla rappresenta simbolicamente tutto Israele, dalla diaspora ebraica ai confini del mondo. È in questi termini che Pietro si rivolgerà a loro: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele…” (At 2:36).

E mi sarete testimoni

Il “fragore” della discesa dello Spirito che ha “riempito tutta la casa” (v. 2) dove stava il gruppo apostolico, viene percepito anche all’esterno: i Giudei radunati, per la prima volta si confrontano con la Chiesa. Luca riferisce le loro reazioni e sottolinea con insistenza “l’effetto sorpresa” provocato su di loro dai discorsi degli apostoli. La moltitudine è presentata come in piena confusione (At 2:6) e la loro risposta è lo smarrimento: “Tutti stupivano e si meravigliavano” (At 2:7) e dopo l’enumerazione dei popoli rappresentati nell’uditorio, si dice: “Tutti stupivano ed erano perplessi” (At 2:12). Il turbamento è scatenato da “quel suono”, che in greco ha un doppio significato, rinvia sia a un rumore che a una voce. Anche al Sinai il popolo “tremava forte” (Es 19:18) nell’ascoltare delle voci (Es 19:16).

Questa meraviglia si traduce in movimento, in concitate gesticolazioni e in esclamazioni, poi si formulano una serie di domande che riguardano il prodigio del parlare in lingue. Essi sottolineano dapprima la stranezza del fenomeno, per il fatto che il gruppo apostolico è formato da Galilei: “Tutti questi che parlano non sono Galilei?” (At 2:7); si domandano poi come mai i presenti li sentano parlare nella lingua del loro paese di provenienza: “Come mai li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natìa?” (At 2:8); e successivamente le loro parole si precisano ulteriormente: “li udiamo parlare delle grandi cose di Dio nelle nostre lingue” (At 2:11). È interessante notare come il verbo “parlare” è ripetutamente riferito al gruppo dei discepoli ed è specificato dalle espressioni “la nostra lingua natìa” e “le grandi opere di Dio”. Abbiamo ulteriori elementi per confermare che esiste un evidente distacco tra l’evento della Pentecoste e la glossolalia come carisma dato alla Chiesa, dal momento che quest’ultima necessita di traduzione (1Co 14:13).

Le domande della folla sono tipiche del disorientamento umano di fronte a un avvenimento sorprendente che Luca attribuisce a Dio. Stessa interrogazione davanti alla parola di Gesù a Nazaret: “Non è costui il figlio di Giuseppe?” (Lu 4:22) o davanti al cambiamento di Saul a Damasco: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome” (At 9:21).

Lo Spirito dunque rende capaci i discepoli di parlare nelle lingue delle diverse nazioni alle quali appartenevano questi Ebrei pii ed osservanti. Nasce il linguaggio nuovo della fede, che tutti comprendono e che raggiunge questa moltitudine stupefatta. Nessuna nazionalità degli Ebrei disseminati è esclusa dall’annuncio, come dimostra chiaramente la lista dei popoli presentata da Luca, che pur non essendo esaustiva di tutto il mondo allora conosciuto, è stata inserita con un chiaro significato universalistico: esso rappresenta la pienezza d’Israele, ora simbolicamente radunato come le antiche profezie avevano annunciato per gli ultimi tempi: “Io vi farò uscire dalle nazioni, vi radunerò da tutti i paesi, e vi ricondurrò nel vostro paese… Metterò dentro di voi il mio spirito e farò in modo che camminerete secondo le mie leggi” (Ez 36:24, 27).

Si afferma attraverso questa lista, non solo che l’intero Israele, lì radunato, è il primo destinatario del prodigio dell’effusione dello Spirito, ma che esso farà da legame tra Gerusalemme e il resto del mondo. Dunque in questa moltitudine riunita a Pentecoste occorre vedere tutta l’umanità. Il linguaggio della fede, parlato dal gruppo apostolico a Pentecoste, è destinato a raggiungere gli uomini di ogni popolo e di ogni cultura, perché il linguaggio dello Spirito è un linguaggio universale.

Ma lo stupore dei presenti non riguarda solo il fenomeno del parlare “nel proprio linguaggio”, ma anche e soprattutto, “l’annuncio” sorprendente che viene loro rivolto. Il gruppo apostolico parlando nella lingua stessa degli uditori, proclama con forza e con parole persuasive, intelligibili e comprensibili a tutti “le grandi opere di Dio” (At 2:11). Finalmente il contenuto della predicazione apostolica è ora formulato apertamente e condensato in questa ricca espressione, in cui Dio è al centro della lode. Come era avvenuto per Zaccaria che ripieno di Spirito Santo profetava dicendo: “Benedetto il Signore Dio d’Israele perché ha visitato il suo popolo” (Lu 1:67) o per Maria: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore” e “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” (Lu 1:46, 49), così essi proclamano le meraviglie di Dio, in mezzo alle nazioni.

Questa domanda manifesta il desiderio di comprendere ancora di più “il messaggio” sorprendente degli apostoli. Questo stupore dei presenti, che testimonia in modo molto efficace la natura straordinaria dell’avvenimento, è preambolo della fede. L’essere fuori di sé e la meraviglia erano gli atteggiamenti tipici delle folle di fronte ai miracoli e alla rivelazione divina di Gesù (Lu 8:25; 9:43; 11:14), dunque l’uditorio della Pentecoste ricorda, ma su scala più vasta, quello che Gesù ha conosciuto nell’arco del suo ministero.

Se alcuni si domandano: “Che significa questo?” (At 2:12) manifestando il desiderio di comprendere ancora di più la parola sorprendente degli apostoli, altri invece non vogliono sapere niente, hanno la loro teoria urbana, sofisticata e sarcastica per quelle strane manifestazioni di entusiasmo religioso: “sono pieni di vino dolce” (At 2:13). Si sa che a Pentecoste si beveva del vino (trattato Sukkah 59a) e dietro il sospetto dell’ebbrezza c’è un sarcasmo voluto da Luca: l’antichità accostava l’estasi all’ubriachezza.[1] La potenza che la Chiesa proclama come dono di Dio, il mondo la spiega come ubriachezza. Questa espressione riassume probabilmente quell’esperienza di rifiuto e di derisione che la Chiesa subirà in seguito, quando proclamerà la notizia straordinaria del crocifisso risorto (At 17:32; 26:24).

La prima predicazione pentecostale

Le domande della folla diventano lo spunto affinché uno dei discepoli si alzi e prenda la parola; e Luca si dilunga a interpretare il significato degli effetti dello Spirito per il doppio dei versetti che aveva dedicato al racconto dei fatti stessi. Pietro era già tornato sulla scena in occasione della scelta di Mattia (At 1:16-22), ma rimane ancora il ricordo dei suoi vili atteggiamenti. Era Pietro che si era limitato a “seguire da lontano” Gesù (Lu 22:54), era Pietro che aveva risposto alla serva: “Donna, non lo conosco” (Lu 22:57), era Pietro che aveva giurato e imprecato: “Non conosco quel-
l’uomo”
(Mt 26:74). Lo abbiamo lasciato che piangeva in un cortile: un discepolo messo alla prova e trovato mancante e il meno qualificato a prendere la parola. Eppure qui, davanti alla folla in parte curiosa, in parte sarcastica, Pietro è il primo, proprio il primo ad alzare la voce e a proclamare apertamente la parola che soltanto poche settimane prima non aveva saputo dire. Lo Spirito di Dio aveva dato vita ad un essere umano dalla polvere della terra (Ge 2:7). Qui lo Spirito ha soffiato nella vita in un discepolo, un tempo vile, e ha creato un uomo nuovo che ora ha il dono di parlare audacemente e con la sua divina potenza (At 1:8).

L’accusa di alcuni della folla di ubriachezza e la domanda di altri: “Che significa questo?” (At 2:12), forniscono a Pietro lo spunto per fare la prima predicazione pentecostale. È un modello che vedremo ripetuto negli Atti. La Chiesa si confronta con una folla in cui alcuni capiscono e altri no. La posizione di Pietro che si mette in piedi con gli undici, prelude a un discorso pubblico (At 5:20; 21:40; 27:21). Non siamo nella sinagoga, dove il Rabbì si siede per insegnare, inoltre è interpellata tutta Gerusalemme: “Uomini di Giudea, e voi tutti che abitate in Gerusalemme” (At 2:14), infatti il mandato di essere testimoni del Cristo risorto prescrive di cominciare nel cuore dell’identità giudaica (At 1:8); Samaritani (At 8) e pagani (At 11) verranno dopo.

L’introduzione della predicazione confuta un’interpretazione sbagliata dell’avvenimento della Pentecoste. L’argomento si basa sui fatti: il buon senso induce a concludere che un gruppo non può essere ubriaco alle nove di mattina, il primo pasto avveniva alle dieci. Luca è molto attento all’ambiguità dei fenomeni prodigiosi e attento a scartare le interpretazioni riduttive che esse suscitano (At 3:12; 14:15). Al contrario “il parlare in lingue” indica un’azione di Dio che annuncia la profezia di Gioele 2:28-32. Pietro chiarirà così il senso delle “grandi opere di Dio” di cui i presenti sono testimoni: il Padre ha risuscitato Gesù, lo ha innalzato alla sua destra e ha sparso il suo Spirito come essi stessi possono vedere e udire (At 2:33). È proprio questo dono che viene “dall’alto” che ora permetterà a tutti di proclamare che “Gesù è il Signore” e di gridare, come dirà
Paolo: “Abbà, Padre” (Ro 8:15). L’evento della passione e morte di Gesù che sembrava prima un enigma e una tragedia inspiegabile (Lu 24:21) viene ora compreso come il punto di arrivo di un disegno di misericordia e di salvezza per tutti loro.

Il dono dello Spirito, infatti, dà al gruppo apostolico un’intelligenza “piena” del senso degli avvenimenti della Pasqua (Gv 15:26). Pietro dirà senza esitazione alcuna: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2:36). Che audacia! Prima non ha avuto la forza di testimoniare di Cristo, ora con la potenza dello Spirito non ha vergogna di proclamare il trionfo del Cristo crocifisso. Pietro e tutti gli altri diventano, grazie al dono dello Spirito, “apostoli” e “profeti” nel senso pieno della parola. Comincia da questo momento il tempo dell’annuncio della Parola e dell’inizio dell’evangelizzazione fino alle estremità della terra.

Le prime conversioni

La fede nasce dall’ascolto (Ro 10:17). La folla ha ben ascoltato, perciò gli appelli (At 2:14 e 22) non sono caduti nel vuoto. La formula “compunti nel cuore” rende al tempo stesso l’emozione e la coscienza tormentata della folla a causa dell’accusa di uccisione del Messia (At 2:33,36), che rifiutandolo si è posta in una situazione impossibile. Nel discorso di Pietro vediamo un ebreo che parla ad altri ebrei, collegando la storia di Gesù con le loro Scritture. La narrazione che fa della storia di Gesù provoca una reazione immediata e precisa. Il kerygma ha il potere di trafiggere. Ma la domanda rivolta agli apostoli è fatta su una relazione di fraternità: “Uomini, fratelli che dobbiamo fare?” (At 2:37), così si esprime il testo greco. La stessa domanda fu posta a Giovanni Battista (Lu 3:10-12), ma, diversamente da lui, Pietro non si pone sul piano della solidarietà. Questa domanda serve ad approfondire il discorso. La risposta di Pietro condensa una forma esemplare, unica negli Atti, le condizioni della salvezza elencate in quattro azioni: conversione, battesimo in acqua, perdono dei peccati, dono dello Spirito.

Differenza tra il battesimo di Giovanni e il battesimo cristiano (Lu 3:3; At 2:38)

 

Battesimo

di Giovanni

Battesimo

cristiano

Pentimento Pentimento
Battesimo Battesimo
Perdono dei peccati Perdono dei peccati
  Dono dello Spirito Santo

 

 

Al battesimo di Giovanni Battista mancava lo Spirito (Lu 3:3).

L’inizio dell’esortazione riprende l’appello alla metánoia (cambiare mentalità), che è un capovolgimento dell’esistenza, un cambiamento nel modo di pensare e agire e nello sguardo portato su Dio. Questo termine compare qui per la prima volta. Il cambiamento richiesto deve conformarsi alla nuova offerta di salvezza: ognuno viene invitato a essere battezzato nel nome di Cristo. Il credente così entra in una nuova appartenenza, in una nuova autorità, è incorporato alla sfera della vita che è “il nome di Gesù Cristo”.

Questo ingresso nella sfera della vita ha due effetti: il perdono dei peccati, che rappresenta per la folla (e per chiunque) la cancellazione della colpa legata alla crocifissione; dall’altra, la ricezione dello Spirito. Paolo spiegherà più tardi il significato di tutto questo: “Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito” (1Co 12:13).

Grazie al Signore il dono dello Spirito e il perdono dei peccati non sono solo per i testimoni oculari o per coloro che furono tra i primi a vedere e udire. No: “Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà” (At 2:39). Vi è il richiamo alla profezia di Gioele, nella sua parte finale, la promessa è estesa alla totalità di Israele, quelli presenti: “i vostri figli”, quelli nella diaspora: “quelli che sono lontani”, e tutte le persone che ascoltando il messaggio crederanno: “quanti il Signore ne chiamerà”.

Il potere che viene offerto non è quello dell’abilità omiletica di Pietro di eccitare la folla ad una reazione emotiva, né quello della sincera determinazione interiore della folla di rimettere a posto le cose con Dio. La predicazione di Pietro a Pentecoste è fatta in modo tale da non lasciare alcun dubbio che si tratta del potere dello Spirito. È vero che la folla reagisce, chiedendo che cosa deve fare adesso, ma la sua azione è una risposta, non un’iniziativa. La parola che Pietro ha detto loro non è qualche cosa che abbiano derivato dal loro essere interiore né è parte della loro esperienza o della loro inclinazione naturale. Niente di tutto questo può salvarli, perché appartengono, come tutti noi, a una perversa generazione (At 2:40). Li salva la fede in Cristo (At 16:31).

L’uso che Luca fa della forma verbale dell’imperativo passivo (At 2:40) indica questo carattere esterno dello Spirito e della sua opera a loro favore. Infatti il senso dell’originale non è tanto “Salvatevi…”, quanto piuttosto “Lasciatevi salvare”. Qui c’è la salvezza non come sincero sforzo umano, bensì come salvezza che oltrepassa tale sforzo, una salvezza che può venire solo come chiamata, come risposta e come azione dello Spirito, il quale al tempo stesso ne dà testimonianza e la rende possibile per la folla. Luca non perde mai di vista che anche per la salvezza, che è opera di Dio, l’uomo deve investire la sua libertà e impegnare la sua responsabilità. L’offerta della salvezza legata a Cristo divide il popolo eletto tra un Israele fedele alla sua vocazione e un Israele ostinato, accusato di generazione perversa (De 32:5).

Conclusione

Luca conclude la narrazione dando un’altra notizia straordinaria, l’effetto dell’esortazione di Pietro è sorprendente:

“Quelli che accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone” (At 2:41).

La parola condivisa genera una nuova identità. È lo Spirito che ha fatto nascere la prima comunità di credenti. Il gruppo apostolico sperimenterà così il pieno compimento della promessa fatta ad Abramo di renderlo padre di una “moltitudine di popoli” (Ge 17:4-5; Eb 11,12) e il popolo d’Israele qui radunato e rappresentato da questi Giudei, accoglierà la Nuova Alleanza, proclamata a loro per la prima volta pubblicamente.

L’esegesi cristiana vedrà in questo avvenimento di Pentecoste l’opposto di quanto si verificò a Babele (Ge 11:1-9). Il dono dello Spirito restituisce agli uomini e ai popoli quell’unità che essi avevano perduto, perché la lingua dello Spirito è l’unica capace di unire. Da questo momento la Parola di Dio inizierà la sua corsa per conquistare tutte le genti, cominciando proprio da Gerusalemme. La chiesa edificata da Gesù (Mt 16:18), è ora una realtà e inizia il suo cammino, crescendo e sperimentando altre esperienze simili alla Pentecoste.    

[1] “L’effluvio o soffio divinatorio… apre certi pori che fanno entrare immagini dell’avvenire, alla maniera dei vapori che, quando salgono alla testa, provocano nell’anima movimenti e rivelano pensieri tenuti fino ad ora nascosti e segreti” (Plutarco, De defectu oraculorun 40,432D-De ebrietate 146).