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Introduzione

Il pesto genovese è un condimento conosciutissimo e apprezzato da tanti. L’intenso profumo delle foglie di basilico ha fin dall’antichità soddisfatto il gusto dei buongustai che hanno considerato questa erba aromatica come qualcosa di prezioso. Il suo nome, infatti, evoca questa sua preziosità. Basilico, dal greco basilikòn phiton, significa “pianta regale”.

Perché parliamo di basilico per introdurre il brano del vangelo di Giovanni sul quale rifletteremo? Fra poco lo sapremo.

“Trascorsi quei due giorni, egli partì di là per andare in Galilea; poiché Gesù stesso aveva attestato che un profeta non è onorato nella sua patria. Quando dunque andò in Galilea, fu accolto dai Galilei, perché avevano visto le cose che egli aveva fatte in Gerusalemme durante la festa; essi pure infatti erano andati alla festa. Gesù dunque venne di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un ufficiale del re, il cui figlio era infermo a Capernaum. Come egli ebbe udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, andò da lui e lo pregò che scendesse e guarisse suo figlio, perché stava per morire. Perciò Gesù gli disse: «Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete». L’ufficiale del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». Gesù gli disse: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detta, e se ne andò. E mentre già stava scendendo, i suoi servi gli andarono incontro e gli dissero: «Tuo figlio vive». Allora egli domandò loro a che ora avesse cominciato a star meglio; ed essi gli risposero: «Ieri, all’ora settima, la febbre lo lasciò». Così il padre riconobbe che la guarigione era avvenuta nell’ora che Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa. Gesù fece questo secondo segno miracoloso, tornando dalla Giudea in Galilea”

(Gv 4:43-54)

 

Dopo il miracolo compiuto a Cana, durante un pranzo di nozze, Gesù ora compie un secondo miracolo in questa cittadina della Galilea. Un importante personaggio va da Gesù per chiedergli di guarire suo figlio gravemente malato: il nostro testo afferma che era un ufficiale del re”. Il testo greco dà letteralmente tis basilikòs, “del re”, senza specificare la sua funzione che viene dedotta. In questo periodo Erode Antipa era re (basileus) della Galilea e della Perea; quest’uomo era probabilmente uno dei suoi ufficiali. La sua alta posizione sociale, però, non lo esentava da quelle tragedie della vita comuni a tutti gli uomini.

Una fede senza segni

Quest’uomo, di ceto sociale piuttosto elevato, aveva un figlio gravemente malato. Possiamo supporre che egli fosse anche abbastanza facoltoso e che, prima di ricorrere a Gesù, abbia speso parecchio denaro consultando i migliori medici disponibili (come aveva fatto la donna con le perdite di sangue; Lu 8:43). Gesù, ora, rappresenta l’ultima possibilità. A Dio non interessa se qualcuno ricorre a Lui come “l’ultima spiaggia”, l’ultima possibilità per dare un senso alla propria vita: l’importante è prendere la decisione di chiedere il suo intervento prima che la morte tolga ogni possibilità. “Gesù, intervieni, altrimenti per mio figlio non c’è più speranza”: questo è l’accorato appello del funzionario reale.

La risposta di Gesù sorprende: “Se non vedete segni e miracoli voi non credete”. Alla richiesta di un miracolo Gesù risponde con una frase di sapore polemico. È molto probabile che intorno a Gesù e l’ufficiale vi fosse il solito gruppetto di persone che lo seguiva, nel quale non mancavano gli Scribi e i Farisei sempre molto attenti a cogliere nelle parole e nei gesti del Maestro qualcosa che potesse incriminarlo. È possibile che la frase di Gesù fosse rivolta a loro e non direttamente all’ufficiale.

Gesù non amava la richiesta di “segni miracolosi” per poter credere in lui; si doveva credere in base alle sue parole. Credere, infatti, significa dare fiducia a ciò che la persona afferma. Chi ha bisogno di segni per poter credere è chi non ha fiducia in Gesù, nella sua onestà, nella sua assoluta incapacità di dire cose non corrispondenti alla realtà, anche se talvolta appaiono incredibili.

C’è differenza tra chiedere miracoli per poter credere, e chiedere perché si crede. La vera fede, però, non tratta Dio come se fosse una macchinetta distributrice di miracoli a richiesta, ma come il Signore che può decidere a sua discrezione se compierli o no; chi chiede il miracolo perché crede possibile che Dio li compia, accompagna la sua richiesta con la frase “Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. La vera fede, infatti, è sempre accompagnata dalla sottomissione alla sua volontà.

L’ufficiale reale è consapevole che le parole di Gesù non sono rivolte a lui in modo particolare e non raccoglie la sua provocazione; qualcosa di molto più urgente richiedeva l’attenzione del Maestro: “Scendi prima che il bambino muoia”. La risposta di Gesù è immediata: “Va’, tuo figlio vive”. Le sue parole non sono accompagnate da nessun segno evidente ma sono sufficienti per l’uomo che prende la strada di casa con la fiducia che il miracolo richiesto avesse avuto una risposta positiva.

Fede e dubbio

L’uomo “credette” nelle parole di Gesù e ritornò a casa.

Mentre si stava avvicinando i suoi servi gli corsero incontro e con la gioia dipinta nel viso, gli dissero: “Tuo figlio vive”. Il miracolo ha avuto conferma e l’uomo avrà pensato: “Ho fatto bene a credere in Gesù”. In questa vicenda c’è un particolare che mi fa riflettere.

Il verbo credere riferito all’uomo è ripetuto due volte: la prima volta dopo le parole di Gesù e la seconda volta in seguito alla conferma dell’avvenuta guarigione.

Nel primo caso esprime una fede che si basa sulle parole pronunciate dal Maestro, mentre nel secondo caso è la fede che ha trovato conferma dai fatti.

Dopo che i servitori hanno dato la buona notizia dell’avvenuta guarigione, l’ufficiale regale pone loro questa domanda: “A che ora il ragazzo ha cominciato a stare meglio?”. È una domanda che ha lo scopo di cercare una conferma: “Così il padre riconobbe che la guarigione era avvenuta nell’ora che Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa”. Chiedere conferma per avere la certezza che era stato proprio Gesù a compiere la guarigione con il solo ausilio delle sue parole, non nasconde forse un pizzico di incertezza, di dubbio? Credo di sì, e credo anche che la nostra fede di uomini fragili e limitati non sia mai scevra da qualsiasi forma di dubbio.

Il dubbio nemico della fede?

Ma non è forse il dubbio il nemico della fede? Non è forse la fede l’esatto contrario del dubbio? In un altro episodio in cui Gesù si relazione con gli uomini del suo tempo, troviamo ancora un padre che ha un figlio con un grave problema e che chiede l’intervento del Maestro:

«Tu, se puoi fare qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». E Gesù: «Dici: “Se puoi!” Ogni cosa è possibile per chi crede». Subito il padre del bambino esclamò: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità»

(Mr 9:22-24)

Quest’uomo confessa di avere una fede che ancora non si è liberata completamente da ciò che è il suo contrario: l’incredulità. Nonostante questa amara ma sincera confessione, Gesù agisce e guarisce il ragazzo.

La sua azione conferma l’idea che Gesù non aspetta che noi abbiamo una fede completamente priva di dubbi; l’agire di Dio non dipende dalla misura della nostra fede (che può essere piccolissima, come un “granel di senape”) ma dalla sua volontà libera da ogni costrizione. Se il Signore fosse limitato dalla nostra capacità di credere, non sarebbe più il Signore, sovrano sulla storia e sugli eventi, ma un Dio piccolo prigioniero delle nostre limitatissime capacità.

Se Dio chiede la nostra fede è per coinvolgerci nel suo operare, per farci sentire partecipi della sua volontà, ma rimane libero di agire come ritiene opportuno.

Prigionieri di un mare agitato

C’è un testo nella lettera di Giacomo che ci aiuta ad approfondire l’argomento:

“Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore, perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie”

(Gm 1:6-8)

Giacomo usa una metafora per descrivere l’uomo dubbioso: è un’onda spinta dal vento senza una direzione, è una persona doppia e instabile. La sua descrizione sembra demolire la tesi che ho presentato, ma non è così. Per una corretta esegesi di un testo è sempre opportuno confrontarlo con il contesto generale.

Quale differenza c’è tra questa “onda agitata” e il nostro basilikos? L’uomo descritto da questa metafora è in preda al dubbio e si lascia vincere da esso; la sua instabilità non gli permette nessun cammino con una direzione, mentre l’ufficiale del re cammina, ritorna a casa avendo nel cuore i due elementi contrastanti: la fede e il dubbio.

Egli ha ubbidito a Gesù nonostante il dubbio, perché la sua fede aveva una maggiore consistenza rispetto al dubbio.

Ha cercato conferma della sua fede per strappare dal suo cuore ogni erbaccia seminata dalla sua incertezza.

C’è una grossa differenza tra l’essere prigionieri del dubbio e camminare in ubbidienza nonostante gli inevitabili dubbi causati dalla nostra fragilità umana.

Fede e conferme

Il nostro Signore è un Padre che conosce bene la nostra natura. Egli sa che siamo polvere, conosce le nostre fragilità e i nostri numerosi limiti.

È per questo motivo che spesso ci offre delle conferme per rendere la nostra fede più forte e stabile. Siamo un po’ tutti dei Tommaso, il discepolo che voleva conferme prima di credere e abbiamo come Maestro e Salvatore chi, pur rimproverando il discepolo dubbioso, gli offre di toccare con mano la realtà della sua risurrezione.

Certo abbiamo bisogno di una fede sempre più pulita, liberata dalle scorie del dubbio, ma nel frattempo non diamo retta alla voce del nemico che insinua questo pensiero:

Lo vedi? Nella tua fede sono presenti dei dubbi perciò ti conviene lasciar perdere, abbandonare la via della fiducia in Dio!.

Camminiamo nella direzione indicata dal nostro Maestro, anche se siamo appesantiti da qualche dubbio e incertezza.