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Note biografiche

Di Giovanni il battista abbiamo già accennato qualcosa negli articoli precedenti, sottolineando la sua umiltà: egli, per nulla geloso di Gesù, non solo non impedisce a due dei suoi discepoli di “cambiare bandiera” (lasciare lui per seguire il Messia), ma addirittura li incoraggia. Un atteggiamento molto raro! Desidero riprendere il discorso su questo personaggio sottolineando alcuni aspetti che mi sembrano importanti.

È opportuno, in questo momento, fare una breve scheda biografica di Giovanni, detto il Battista. I suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta, erano pii Giudei, entrambi discendenti di Aaronne. Elisabetta, cugina di Maria la madre di Gesù, era sterile e, come il  marito, in età avanzata. Zaccaria, mentre svolgeva la sua funzione di sacerdote nel tempio, ebbe la visita di un angelo che gli comunicò il concepimento e la nascita di un bimbo.

Il nome, Giovanni, è stato imposto dal Signore e il suo significato è “L’Eterno ha fatto grazia”. Inoltre l’angelo comunicò a Zaccaria anche quale sarebbe stato il compito del figlio: essere il precursore del Messia, colui che gli doveva preparare la strada, l’ultimo e il più grande dei profeti che hanno preceduto Gesù.

Egli, infatti, annunciò al mondo la venuta del Messia, con la famosa frase:

“Ecco l’agnello di Dio che toglie
il peccato del mondo!”.

Simile al profeta Elia, Giovanni era un uomo rude, con una parola tagliente che spingeva chi lo ascoltava al ravvedimento, testimoniato poi con il battesimo. Con Giovanni termina il “Vecchio Testamento” e siamo introdotti nel Nuovo. “Ecco”, colui che da tanto tempo abbiamo atteso è qui, in mezzo a noi.

Anche lo storico Flavio Giuseppe parla di lui e attribuisce la sua morte per decapitazione, alla gelosia di Erode per la grande influenza che Giovanni aveva sulla folla, ma anche a causa della coraggiosa denuncia sul comportamento immorale del re.

Solo per rivelazione divina

L’episodio è raccontato dai tre Sinottici, Matteo, Marco e Luca mentre Giovanni (l’evangelista) narra l’episodio in cui il Battista introduce Gesù sulla scena del mondo. Queste le sue parole:

“Il giorno seguente, Giovanni vide Gesù che veniva verso di lui e disse: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! Questi è colui del quale dicevo: “Dopo di me viene un uomo che mi ha preceduto, perché egli era prima di me”. Io non lo conoscevo; ma appunto perché egli sia manifestato a Israele, io sono venuto a battezzare in acqua». Giovanni rese testimonianza, dicendo: «Ho visto lo Spirito scendere dal cielo come una colomba e fermarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha mandato a battezzare in acqua, mi ha detto: “Colui sul quale vedrai lo Spirito scendere e fermarsi, è quello che battezza con lo Spirito Santo”. E io ho veduto e ho attestato che questi è il Figlio di Dio»”

(Gv 1:29-34).

Di Gesù è evidenziata sia la sua natura, “Figlio di Dio”, sia la sua funzione, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Ciò che Giovanni sapeva di Gesù era frutto di una rivelazione divina e non di riflessioni personali: “Io non lo conoscevo ma colui che mi ha mandato … mi ha detto: «Colui sul quale vedrai lo Spirito Santo scendere e fermarsi, è quello che battezza con lo Spirito Santo»” (Gv 1:33). È ciò che è capitato anche a Pietro quando risponde in modo corretto alla domanda di Gesù: “E voi chi dite ch’io sia?”.

La risposta dell’apostolo non è stata frutto di una ricerca teologica, ma di una rivelazione:

“Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?» Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Gesù, replicando, disse: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli»”

(Mt 16:15-17).

Queste riflessioni che hanno lo scopo di condurre il lettore a “vedere Gesù” non possono essere svincolate dalla Rivelazione, la Bibbia, ma è da essa che scaturiscono, che trovano la linfa vitale. Quanti disastri ha procurato una teologia che ha creduto opportuno di ragionare su Dio senza il vincolo della Parola di Dio? Togliere la Rivelazione scritta significa voler agire autonomamente dal Rivelatore e una teologia senza Teo (Dio) è solo logia (pensiero umano) con tutti i suoi limiti, lacune ed errori. Una sana teologia non è il discorso dell’uomo su Dio¸ ma è il risultato della riflessione umana, sorretta dallo Spirito Santo, sul discorso di Dio (la Bibbia). L’uomo può parlare di Dio perché per primo egli ha parlato di sé.

Diminuire: un bisogno non un’opzione

Ritorniamo a Giovanni e al suo rapporto con Gesù. C’è una frase del battezzatore che ciascun credente deve far sua se desidera essere un autentico discepolo. Le parole sono pronunciate in un contesto in cui i discepoli di Giovanni si sentono minacciati dalla “concorrenza” di Gesù riguardo il battesimo; quel “tutti vanno da lui” rivela la loro preoccupazione (Gv 3:26). La risposta di Giovanni è ciò che di più significativo può pensare e dire un discepolo: “Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca” (v. 30). La personale “diminuzione” per dare spazio alla crescita non è facoltativa per il discepolo, ma è un bisogno, qualcosa di cui non può fare a meno.

Sono un figlio di Dio da ormai oltre 50 anni e devo confessare che i momenti di vera crescita spirituale sono stati quelli in cui sono riuscito a far mia questa verità e di viverla nel quotidiano: è solo quando io (con le mie pretese, i miei egoismi, le mie presunzioni) sono diminuito e ho dato, di conseguenza, maggior spazio nella mia mente e nel mio cuore a Gesù, che sono spiritualmente cresciuto. Non conosco altra via per la crescita di questa. La verità espressa da Giovanni non è qualcosa da relegare nel mondo della riflessione, ma qualcosa che deve incarnarsi nelle vicende della nostra vita e Giovanni offre degli esempi espliciti di questa verità.

L’invidia, un serio ostacolo per la crescita

“Rabbì, colui che era con te di là dal Giordano, e al quale rendesti testimonianza, eccolo che battezza, e tutti vanno da lui”.

Abbiamo già accennato a questa frase pronunciata dai discepoli del Battista: erano suoi discepoli, ma non erano animati dagli stessi sentimenti del loro rabbì. È evidente, in queste parole, una nota d’invidia. Gelosi del fatto che la concorrenza (in questo caso era Gesù), aveva più successo del loro “leader”, questi discepoli gli chiedono di fare qualcosa (la richiesta è sottintesa nelle loro parole), per avere maggiore successo. La gelosia, nella forma più brutta che è l’invidia, si era radicata nei loro cuori. Purtroppo leggendo la storia biblica constatiamo che questo nefasto sentimento è stato spesso presente nei rapporti interpersonali, fin dall’inizio. Ricordo per inciso che l’invidia è un sentimento di rancore e di astio per la fortuna, la felicità o le qualità altrui. Nella teologia cattolica è uno dei sette vizi capitali e consiste nel provare dolore per il bene degli altri, perché si considera una lesione o una diminuzione del proprio bene.

“Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto… Caino si avventò contro Abele, suo fratello e l’uccise”.

(Ge 4:1-8)

È triste costatare che la gelosia è nata proprio in un contesto “familiar-religioso”, nei luoghi dove dovrebbe regnare l’amore. Conosciamo a che cosa era dovuta l’irritazione di Caino: gelosia, stupidissima gelosia, nata dall’idea che nel cuore di Dio ci fosse posto solo per suo fratello. Eliminare l’avversario per avere un caldo posto al sole: quante volte questo pensiero ha armato la mano degli uomini? Quante volte ha spinto l’uomo contro il suo simile?

Il successo degli altri spesso non ci rallegra, confessiamolo! Paradossalmente, più la persona in questione è vicina a noi, più il suo successo scatena la nostra invidia. Solo un vero amore sradica dal cuore questa erba velenosa e infestante. Con la sicurezza di uno che sa di non poter essere contraddetto, Paolo scrive:

“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia…”

(1Co 13:4)

In quale modo l’amore, autenticamente vissuto, sradica il sentimento d’invidia? È sempre Paolo a darci la risposta. Nello stesso brano citato della lettera ai Corinzi, elencando le caratteristiche dell’amore, egli afferma: “…l’amore non cerca il proprio interesse”; ossia agisce in maniera contraria all’invidia che, invece, cerca il proprio tornaconto. Ciò che conta veramente per l’invidioso è il proprio interesse e sta male quando vede qualcuno più ricco, più interessante e che riscuote più successo. La Scrittura dedica molti passi al tema dell’invidia (che è, lo ripetiamo, la forma più negativa della gelosia). Uno dei passi più significativi è senza dubbio questo:

“Ma se vi mordete e divorate gli uni gli altri, guardate di non essere consumati gli uni dagli altri. Io dico: camminate secondo lo Spirito e non adempirete affatto i desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste… Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sette, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio”.

(Ga 5:21)

L’invidia la troviamo nell’elenco delle opere della carne e spinge gli uomini a divorarsi reciprocamente. Va detto, per non dare adito a una scorretta interpretazione dei testi biblici, che il termine carne non indica il corpo, ma l’essere interiore dell’uomo ancora dominato dal peccato. Non c’è, nel pensiero biblico, una visione dualistica della realtà: da una parte tutto ciò che è corporeo, fisico, in contrapposizione con l’interiorità spirituale dell’uomo. Il contrasto è tra lo Spirito Santo e il peccato.

Ritorniamo all’invidia. Secondo il testo letto essa va considerata un vero peccato, posto alla stessa stregua della fornicazione, dell’impurità, della stregoneria ecc. È così che valutiamo questo sentimento? O, forse, siamo nei suoi confronti più indulgenti? Non possiamo dimenticare quanta influenza negativa ha avuto l’invidia nella storia degli uomini. Se esaminassimo con coraggio anche i nostri rapporti, in famiglia, nella Chiesa, nella società, ci accorgeremmo con stupore quanta influenza ha la gelosia invidiosa in questi rapporti.

La gelosia come tutte le altre “opere della carne” è un serio ostacolo per la nostra crescita cristiana e impedisce di avere un sano rapporto con Gesù e con i nostri fratelli. Va detto che questo sentimento può prendere anche una dimensione collettiva: non è forse vero che esso si manifesta anche nel rapporto inter-ecclesiale?

Quale battesimo purifica di più?

“Nacque dunque una discussione sulla purificazione, tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo”

(Gv 3:22)

La questione del battesimo fa sorgere una discussione sulla purificazione. Perché? La disputa è scaturita, probabilmente, dal fatto che ciascuno riteneva che il battesimo del proprio “leader” di riferimento avesse più valore dell’altro. È l’eterna disputa religiosa: quale fede è migliore? Quale battesimo “lava” di più? Posso concepire che vi siano diverse realtà che esprimono in modo diverso la propria fede, ma ciò che mi sembra lontano dallo spirito cristiano è il ritenere la propria espressione di fede come l’unica possibile e tutte le altre da condannare con un sentimento che poco ha da spartire con la tolleranza cristiana. Quando una conosciuta realtà ecclesiale ha espresso questo sentimento con la frase latina Extra ecclesiam nulla salus (al di fuori della chiesa non c’è salvezza) pensava a se stessa come l’unica chiesa possibile. Non so quanto sia cambiato all’interno di questa realtà, ma è certo che il sentimento espresso da questa frase è stato presente, anche se in forme più soft, persino in realtà ecclesiali più vicine a noi.

Un’altra frase detta dal Battista ci porta a riflettere su questa triste realtà:

“Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra vivamente alla voce dello sposo; questa gioia, che è la mia, è ora completa”

(Gv 3:29)

Per esprimere il suo pensiero, Giovanni usa l’immagine di una scena matrimoniale. Egli paragona Gesù allo sposo e se stesso all’amico dello sposo. È come se avesse affermato che tra lui e Gesù non c’era quella concorrenza che loro sospettavano, ma un rapporto di amicizia e collaborazione. La loro invidia, perciò, non aveva alcun senso. Giovanni, prima di questa frase aveva già stabilito le giuste priorità:

“L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: «Io non sono il Cristo, ma sono mandato davanti a lui»”.

È lui, colui che voi indicate come concorrente, il Messia: io sono solo un suo servo che ha ricevuto l’onore di preparargli la strada.

Dobbiamo ammetterlo: certi comportamenti, che troviamo nell’ambito delle chiese e denominazioni cristiane, sono un vero scandalo. Giovanni glorifica il Messia, rimanda a lui tutti coloro che desiderano essere toccati dalla grazia di Dio e non cerca di attirare le folle a sé. Si riconosce solo umile servo, non un carismatico leader, non un capo alla ricerca di un suo spazio personale e di una folla osannante. Egli, come amico dello sposo, opera affinché l’unione tra la Chiesa e il suo Sposo riesca nel migliore dei modi.

Come reagirebbe Giovanni di fronte a certi comportamenti dei cristiani di oggi? E Gesù, lo sposo, che cosa direbbe? Se i diversi “amici dello sposo” lavorassero in concorrenza, e spesso in opposizione tra loro, il matrimonio risulterebbe una vera catastrofe (probabilmente la poco edificante situazione della Chiesa è il frutto di questo atteggiamento). La cristianità di oggi ha un cuore come quello di Giovanni? Un cuore nel quale il vero amore ha sradicato l’invidia e ha piantato i fiori della concordia, dell’umiltà, della stima e della tolleranza. È giunto il tempo di dire coraggiosamente che certi atteggiamenti sono un vero scandalo e che dobbiamo recuperare i giusti sentimenti.

Lo abbiamo già detto, ma repetita juvant, spesso i pensieri cristiani sono paradossali, per un modo di pensare che nasce dalla mente dell’uomo svincolato dalla Rivelazione. L’umiltà è spesso un atteggiamento disprezzato, mentre l’arroganza, la presunzione, l’arrivismo, il presenzialismo trovano innumerevoli discepoli. La consapevolezza di ciò che siamo deve portarci all’umiltà! La nostra origine, la materia prima con cui siamo stati fatti, è la terra; siamo polvere e alla polvere torneremo. Numerosi passi della Scrittura ricordano questa realtà, ne cito uno per tutti:

“Poiché egli conosce la nostra natura;

egli si ricorda che siamo polvere”

(Sl 103:14)

Non è un caso che il termine umiltà ci ricorda ciò che siamo (“Umile” deriva dal latino humilis, che a sua volta deriva deriva da humus, terra). Essere umili è vivere nella consapevolezza della propria condizione, né più né meno.

Ora arriva il paradosso! Riconoscere la propria realtà è la conditio sine qua non per la gloria, secondo Dio:

“…l’umiltà precede la gloria”

(Pr 15:33)

“Chiunque si innalzerà sarà abbassato e chiunque si abbasserà sarà innalzato”

(Mt 23:12)

Nella gloria di Dio, molto diversa da quella umana, si entra abbassandosi, diminuendosi. Se l’umiltà è umanamente considerata una diminuzione, essa, invece, è la condizione necessaria per essere approvati dal Signore: è, perciò, una diminuzione che arricchisce, che fa crescere. Giovanni lo aveva capito e vissuto: “Bisogna che Egli cresca e che io diminuisca”, perché se Gesù cresce in me c’è vera crescita per me. Siamo tutti invitati ad avere lo stesso sentimento che è stato il motore delle decisioni di Gesù:

“Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce”

(Fl 2:5-8)

Non è sufficiente “vedere Gesù” così come realmente è, ma occorre prenderlo a modello, avere la sua mente e fare nostri i sentimenti che lo animarono e che lo condussero fino all’estremo dono di sé.