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Ormai dovremo gradualmente abituarci alla sintesi del linguaggio: i moderni mezzi di comunicazione incoraggiano infatti la scritture di testi sempre più brevi, con parole spesso private dell’ultima sillaba o di altre lettere e con l’uso sempre più convenzionale di sigle (TVTB = “Ti voglio tanto bene”; DTB = “Dio ti benedica”): con una battuta si potrebbe dire che forse fra un po’ saremo più biblici solo perché elimineremo l’uso delle vocali come nella lingua ebraica.

Fra queste sigle convenzionali recentemente la più gettonata, perché apparsa su cartelli, striscioni e pagine Facebook (ahimé anche di credenti in Cristo!) è stata indubbiamente la sigla RIP. Vi sono state purtroppo due tragedie familiari, trasformate dalla fama dei personaggi e dai media in tragedie nazionali, che ne hanno incoraggiato ed amplificato l’uso. Il riferimento è ovviamente alla morte improvvisa di un noto calciatore capitano della Fiorentina e di un ancor più noto presentatore televisivo. Così la sigla RIP è apparsa nelle curve degli stadi, nelle piazze, davanti alla RAI e, come detto, anche nei messaggi sui social. Ed è diventata ormai una sigla assai sbrigativa da utilizzare per essere solidali davanti alla morte di qualcuno.

RIP è l’acronimo di “Riposi In Pace” o, in inglese, di “Rest In Peace”. In realtà però si tratta dell’acronimo delle ultime parole di una nota preghiera cattolica recitata solitamente nel corso delle cerimonie funebri. “L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino In Pace. Amen”: una vera e propria invocazione a Dio perché conceda riposo per sempre a chi ci ha lasciato. Chi scrive quel “RIP”, lo fa dunque perché desidera esprimere partecipazione, considerazione, affetto e, secondo un noto dizionario, “fede in una vita futura oltre la morte”. Così, pensando all’al di là, al RIP si sono aggiunte frasi emotivamente suggestive: “Continua a recitare e a presentare gli spettacoli in cielo… gioca a calcio in un grande stadio sopra le nuvole…”. Tutto apparentemente commovente, consolante, buono. Ma il futuro di chi ci ha preceduto non dipende dalle nostre preghiere né dai nostri auguri per una vita eterna di riposo. Affidare la nostra visione dell’aldilà alle emozioni, ai sentimenti, alla religione è la scelta peggiore che potremmo fare. Una volta “partiti”, non riceveremo certo il dono della vita eterna a forza dei RIP di chi è rimasto! La nostra eternità non si costruisce sulle emozioni, sui sentimenti, sulle ingannevoli prospettive di una religione.

Dio non ascolta le preghiere dei vivi in favore dei morti; egli prende atto delle scelte compiute da coloro che sono morti mentre erano ancora in vita sulla terra. È qui, ora, durante il nostro “soggiorno terreno” che si decide la nostra eternità: di gioia e di riposo oppure di tormento e di sudore. Guardiamoci dal lasciarci coinvolgere dalla visione mielosa di un Dio sempre e comunque misericordioso ed accondiscendente e testimoniamo con convinzione e con forza quanto Dio rivela di sé, del suo amore, della sua santità e della sua giustizia, nella sua Parola. Ma anche quanto rivela in relazione alla nostra eternità. Ricordiamo che “è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola dopo di che viene il giudizio” (Eb 9:27) e che questo “giudizio” non sarà espresso in base ai RIP di chi ancora vive sulla terra. Ad avere vita eterna e a non venire in giudizio saranno, secondo le parole di Gesù (Gv 5:24) soltanto coloro che avranno creduto nella sua parola e in colui che lo ha mandato sulla terra. Gli uomini hanno più che mai bisogno di conoscere la Verità che li liberi dall’inganno dei loro sentimenti e delle loro emozioni. Il loro RIP non dipenderà dalle invocazioni degli altri, ma dalla loro scelta compiuta ora e qui sulla terra. La scelta della fede in Cristo ci darà la gioia di vivere il RIP, il “riposare in pace” già ora. Egli infatti “è la nostra pace” (Ef 2:14) ed è solo in lui che possiamo trovare “pace” (Ro 5:1).