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Il testo

 

“Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era da condannare. Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati, cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia. Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?»”.

 

 

Introduzione

 

Il brano è conosciuto come “l’incidente di Antiochia”, un modo elegante per descrivere uno scontro avvenuto tra la colonna della chiesa Pietro (Ga 2:9) e l’apostolo delle genti Paolo (1Ti 2:7).

Negli Atti degli apostoli Luca omette il particolare, quando può cerca sempre di appianare i problemi e di non evidenziare le tensioni e i conflitti. Paolo invece, dato che sta parlando di sé e sta difendendo le proprie scelte e il proprio atteggiamento, per onestà deve riconoscere che c’è stata una occasione in cui si è scontrato con Pietro, non per problemi dottrinali ma comportamentali.

 

La lettera ai Galati è datata tra il 54 e il 57 d.C., successivamente alla conferenza di Gerusalemme datata invece tra il 49 e il 50 d.C. È stata scritta da Paolo in un momento di grande preoccupazione, perché una comunità molto fervente, che lui ha fondato con molta pena e a cui è rimasto affezionato, si trova completamente affascinata e sedotta da alcuni giudeo- cristiani.

 

Paolo aveva introdotto il vangelo nella provincia della Galazia fin dal primo viaggio missionario, con Barnaba aveva predicato ad Antiochia di Pisidia (At 13:14). Ma soltanto durante il secondo e terzo viaggio negli anni 50-51 avvenne la vera evangelizzazione della Galazia (At 16:6; 18:23), con la fondazione di alcune chiese.

 

Partito lui e i suoi collaboratori, nella Galazia non tardarono a presentarsi quei cristiani giudaizzanti, che rappresentavano la massima insidia alle comunità fondate da Paolo, perché predicavano la necessità di osservare la legge di Mosè anche dopo avere creduto nel nome di Gesù.

Questi, pur diventati credenti, non avevano abbandonato l’osservanza della Torah, anzi relegavano la salvezza in Cristo all’interno della Legge e sostenevano che, se non si veniva a far parte del popolo di Israele mediante la circoncisione, la salvezza portata da Cristo non era operante.

In questo si può intravedere come questi giudeo cristiani non si erano ancora del tutto liberati dal nazionalismo rabbinico. Inoltre, per poter accreditare meglio il loro insegnamento, i cristiani giudaizzanti avevano iniziato a screditare l’autorità dottrinale di Paolo dicendo che egli non era apostolo come i Dodici, che la sua dottrina era diversa dalla loro, che si era improvvisato predicatore e non andava d’accordo neppure con sé stesso.

Paolo venne a conoscenza della situazione (terzo viaggio missionario) e si preoccupò di intervenire all’istante per stroncare ogni tentativo d’eresia nelle chiese della Galazia: è indubbio, infatti, che, con questi principi, si sarebbe caduti, più che nello scisma, nell’eresia vera e propria.

 

 

Il dibattito di Gerusalemme

 

Per risolvere il contrasto fu indetto un incontro tra le due chiese di Antiochia e Gerusalemme. Quanto viene narrato in Atti 15 si trova intenzionalmente tra il primo viaggio missionario di Paolo e i successivi viaggi.

Prima di andare avanti nell’evangelizzazione era necessario mettere dei punti fermi riguardo la salvezza e le relative conseguenze. Le due parti stabilirono che “Paolo, Barnaba e alcuni altri fratelli salissero a Gerusalemme dagli apostoli e anziani per trattare la questione” (At 15:2).

A Gerusalemme furono accolti dalla chiesa, dagli apostoli e dagli anziani e riferirono le grandi cose che Dio aveva fatte per mezzo di loro, ma l’opposizione dei farisei credenti fu molto dura: bisogna circoncidere i pagani e comandare loro di osservare la legge di Mosè (At 15:4-5).

Il progresso dell’evangelizzazione dei non giudei, inaugurata da Pietro in casa di Cornelio (At 10), continuata dalla chiesa di Antiochia (At 11:20) ed estesa su ampia scala da Paolo e Barnaba (At 11-14), trova ostilità sul versante della sinagoga, contraria all’estensione dell’alleanza ai pagani.

 

L’opposizione è radicale. La discussione dev’essere stata assai dura se Paolo nella lettera ai Galati scrive:

“Noi non abbiamo ceduto alle imposizioni di costoro neppure per un momento, affinché la verità del vangelo rimanesse salda tra di voi” (2:5). La missione dunque più che rallegrare la chiesa, provoca una crisi all’interno della chiesa, innescata dalla protesta dei giudeo-cristiani contro una salvezza predicata senza esigere l’osservanza della Torah e la pratica della circoncisione.

 

Dopo i rispettivi interventi di Pietro e Giacomo si arriva a una conclusione:

“È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose, che sono necessarie: di astenervi dalle carni sacrificate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati, e dalla fornicazione; da queste cose farete bene a guardarvi” (At 15:28-29).

 

La decisione costituisce, di fatto, un compromesso per la sua richiesta del “minimo della Torah”, ma in compenso non si concede alcun compromesso riguardo alla salvezza. Pietro dice che “noi crediamo che siamo salvati mediante la grazia del Signore Gesù allo stesso modo di loro” (At 15:11). Alla fine l’incontro di Gerusalemme propone che i giudei e pagani cristiani siano liberi di seguire la propria etica, con dei riguardi per evitare di scandalizzare l’altro, ma nessuno dei due è autorizzato a considerare la propria salvezza come il risultato della sua pietà.

 

Vi è dunque il rifiuto dell’eccesso: non imporre altro peso al di fuori delle necessità. Ma la cosa più importante da osservare è che la decisione è venuta in primis dallo Spirito Santo.

Si ritrova l’insistenza di Luca a mostrare che tutti gli sviluppi nella vita della chiesa sono governati dallo Spirito Santo.

 

Pietro, Paolo, gli apostoli e tutti i credenti sono “stati sciolti dai legami della legge, essendo morti a quella che ci teneva soggetti, per servire nel nuovo regime dello Spirito e non in quello vecchio della lettera” (Ro 7:6).

Senza nessun timore si può vivere la comunione fraterna in piena libertà, essendo ormai sancito come ogni cristiano deve comportarsi eticamente.

 

 

Pietro ad Antiochia

 

Purtroppo, come spesso avviene, vivere praticamente la Parola diventa difficile per timore delle tradizioni e come, è successo ad Antiochia, per timore di alcuni fratelli circoncisi.

 

Qui arriva Pietro dopo il dibattito di Gerusalemme, quindi pienamente a conoscenza delle decisioni prese e convinto della sua libertà in Cristo sia verso i suoi fratelli provenienti dal giudaismo che dal paganesimo, ma avviene una cosa spiacevole:Paolo riprende Pietro a viso aperto  perché era da condannare.

 

Paolo ama la verità e sa che solo la verità rende libere le persone. La verità è nel dire e nel fare. Se c’è la verità nel dire, ma non c’è nel fare, non è creduta da chi ci sta di fronte.

Ad Antiochia Paolo nota che in Pietro non c’è questa corrispondenza perfetta tra il dire e il fare.

Questo non può esistere in un uomo di Cristo Gesù, ma soprattutto in un uomo che è considerato colonna della chiesa.

 

Paolo si oppone a viso aperto a Pietro.

Perché si oppone? Perché evidentemente aveva torto. In questo atteggiamento scopriamo già tutto il metodo di evangelizzazione di Paolo e tutta la forza dello Spirito Santo che lo spingeva a far sì che in ogni azione, opera, comportamento sempre brillasse la verità di Cristo Gesù.

 

Paolo aveva le idee chiare sul superamento della legge e riteneva che la distinzione dei cibi puri da quelli impuri non fosse fondamentale, ma superabile. Non ha insegnato queste pratiche ai cristiano-pagani e ha lasciato che mangiassero tutti i cibi che volevano. Non ha imposto delle regole alimentari come fondamentali per essere salvati:

“Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza fare inchieste per motivo di coscienza” (1Co 10:25).

Nello stesso tempo ha superato quella distinzione di razze in base alla quale non sta bene che un giudeo mangi con un greco. Divenuti cristiani, Paolo ha insegnato che è bene che Greci ed Ebrei stiano insieme e che, senza problemi di razza, condividano la mensa.

Anzi, diventa un impegno di solidarietà e di fraternità superare tutti quegli schemi religiosi di separazione e di purità rituale; bisogna accogliere il fratello perché è una persona, indipendentemente dalle sue abitudini, dalla sua razza, dal suo merito.

 

La comunità di Antiochia è stata formata in questo modo, quindi è una comunità aperta, disponibile, accogliente che ha superato gli schemi giudaici.

Quando Pietro arriva ad Antiochia e viene introdotto in quella comunità, si adatta a quella situazione. Entra in casa di Greci, mangia insieme a dei Greci, e si adatta anche a quei gusti alimentari che, come giudeo, un po’ lo ripugnavano, ma si adatta.

 

L’incontro di Gerusalemme aveva liberato la chiesa da questo vincolo. Anche Pietro era stato invitato da Dio nella visione di Giaffa a non considerare più impuro ciò che Dio aveva dichiarato puro (At 10:9-16). I pagani davanti a Dio erano stati dichiarati puri, erano stati ammessi alla salvezza in Cristo Gesù allo stesso modo che i Giudei. Agli occhi di Dio tra Giudei e pagani non vi era alcuna differenza.

 

Questa è la verità di fede. Se non c’è alcuna differenza, se gli uni e gli altri sono salvati solo per la fede in Gesù Cristo, se la legge mosaica non obbliga più né Giudei e né pagani, essa non va osservata in nessuna circostanza, in nessun caso, salvo per quei casi che l’incontro di Gerusalemme aveva stabilito (At 15:28-29).

Pietro si reca ad Antiochia e vive questa libertà che Dio gli ha dato. Siede a tavola con i pagani e mangia con loro.

 

 

Libertà senza ipocrisia

 

Ma cosa succede in seguito? Ad Antiochia giungono alcuni da Gerusalemme inviati da Giacomo, che, anche lui, era una colonna della chiesa. Pietro per timore di questi circoncisi, si ritira dalla tavola dei pagani e mangia solo con i circoncisi. Dalla libertà di Cristo passa di nuovo alla schiavitù del timore degli uomini.

Pietro non si dimostra uomo veramente libero in Cristo, non si rivela uomo che ha compreso la novità assoluta del Vangelo e della fede in Cristo Gesù. Qualcuno potrebbe obiettare: ma questa di Pietro non è forse una regola di prudenza al fine di non scandalizzare i circoncisi?

 

Non è regola di prudenza per due motivi.

 

Prima di tutto perché il suo comportamento è dettato dal timore degli uomini. In che consista esattamente questo timore, qui non viene specificato, ma è lecito pensare che si tratti di paura da parte di Pietro di essere rimproverato da loro, oppure di essere additato presso la chiesa di Gerusalemme come uno non più degno di stima a causa del suo tradimento della Legge e della tradizione dei padri. Non è prudenza, perché la prudenza è legge universale, verso gli uni e verso gli altri.

Se da una parte Pietro si preserva dai circoncisi, certamente non rende onore ai pagani. Poiché la sua azione nuoce alla sua reputazione, quest’azione non è fatta secondo la legge della prudenza; è fatta imprudentemente, sconsideratamente, per paura degli uomini ed è questo il torto evidente che Paolo riscontra in lui. Se si trova con Giacomo, va dietro a Giacomo; quando si trova con Paolo va dietro a Paolo.

 

In secondo luogo l’atteggiamento di Pietro ha portato altri a imitarlo, proprio nell’ottica del rispetto. Non è rispetto perché Paolo lo giudica una vera e propria ipocrisia.

L’ipocrisia è finzione, è porre un’azione esterna che non c’è nel cuore, è compiere un atto non supportato dalla verità che è in noi.

Pietro sa, deve saperlo, lo aveva già deciso lui stesso, che la Legge mosaica non è più via di Dio. Questa è la verità. Se non è più via di Dio per la salvezza, non si deve compiere, se non in quelle quattro norme stabilite, due per ragioni di moralità evangelica, due per motivi di prudenza.

Poiché Pietro è uomo ragguardevole nella comunità (Ga 2:9) e sulla sua dichiarazione di fede Cristo ha fondato la sua Chiesa, il suo comportamento non resta senza conseguenze. Barnaba, compagno di Paolo nel primo viaggio missionario, e molti altri Giudei lo imitarono in questa simulazione e si lasciarono attrarre in questa ipocrisia.

Anche loro compiono, sul cattivo esempio di Pietro, un’azione senza convinzione, senza la convinzione della verità che è nel loro cuore: Cristo è venuto a liberarci dall’osservanza della Legge e dalle tradizioni dei padri, Legge e tradizione che non salvano coloro che le mettono in pratica.

 

Bisogna fare molta attenzione al discorso di Paolo. Il ragionamento è molto sottile. È fatto con la sapienza dello Spirito Santo.

A Paolo non interessa ciò che ha fatto Pietro e non dice queste cose per mettere in cattiva luce o per manifestare ai Galati il suo modo di rapportarsi con la verità. Il suo discorso ha un solo intendimento: la Legge mosaica rituale non è più via di salvezza. La Legge mosaica rituale è morta con la morte di Cristo. Ora siamo sotto il segno della sua risurrezione, e il segno della sua risurrezione è la grazia nella fede in Cristo Gesù. Usare la simulazione, l’ipocrisia, o anche il convincimento è cosa che disonora la nuova vita nello Spirito.

 

Paolo dunque giudica la condotta di Pietro una “ipocrisia”, come risulta dall’osservazione testuale: “gli altri Giudei si misero a simulare con lui”.

L’ipocrisia di Pietro si deve interpretare in base alle parole di Paolo:

“Sappiamo che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù, e abbiamo anche noi creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; perché dalle opere della legge nessuno sarà giustificato” (Ga 2:16).

 

Paolo parte dalla migliore “conoscenza” di cui Pietro certamente dispone, come cristiano, egli “sa” precisamente che l’uomo viene giustificato dalla fede e non dalle opere della legge (At 10:43-48). Quindi egli agisce contro la sua coscienza. Dunque il rimprovero di ipocrisia non riguarda il comportamento tattico di Pietro, ma la sua condotta teologica.

 

Il peggio però fu che anche Barnaba, il coraggioso compagno di lotta di Paolo a Gerusalemme, cominciò a cedere e “si lasciò trascinare dalla loro simulazione”, e probabilmente questo improvviso volta faccia di Barnaba colpì personalmente Paolo ancor più di quello di Pietro. Paolo vuole questa chiarezza. Quando non la vede vissuta nei credenti e in modo particolare in coloro che il Signore ha posto come guide, maestri e pastori del gregge (1Co 12:28; Ef 4:11) non può che opporsi risolutamente.

 

Prima di tutto Paolo tiene a precisare qual è stato l’errore di Pietro e degli altri:

“Non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo” (Ga 2:14).

La verità del vangelo per Paolo è una sola: la libertà che Cristo ci ha donato attraverso la salvezza che si compie in noi per mezzo della fede in lui. Siamo salvi per la fede in Cristo, che è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione. Al di fuori di questa fede, non c’è salvezza, non c’è redenzione, non c’è verità.

Compiere gesti, azioni che sono in evidente contrasto con questa fede è simulazione ipocrisia, inganno e falsità.

Poiché Paolo vede Pietro su una strada sbagliata, che allontana dalla verità del vangelo, gliene chiede conto apertamente in presenza di tutti.

 

Fino a questo momento, con larghezza di vedute, Pietro ad Antiochia non ha tenuto conto della legge giudaica sui cibi. Ma ora, sotto la pressione dei nuovi arrivati da Gerusalemme egli vive nuovamente alla maniera dei Giudei. Così, di fatto, costringe i pagani a vivere in modo giudaico se vogliono continuare a mantenere anche esteriormente quella comunione ecclesiale che si manifesta nella comunione di mensa.

La discussione teologica, alla quale Paolo passa in Galati 2:15, sia pure formalmente è indirizzata a Pietro, ma in realtà si rivolge già ai destinatari della lettera, i quali sono proprio personalmente interessati al tema di questa esposizione.

Paolo dimostra le conseguenze teologiche del vivere in modo giudaico: esso annulla il vangelo, perché ripropone nuovamente la speranza della salvezza nelle opere della legge, cosa che adesso anche i Galati vogliono fare.

 

 

Conclusione

 

Dopo questa interpellanza Paolo non riferisce la reazione di Pietro, d’altro canto il suo silenzio lascia supporre che abbia accolto il rimprovero di Paolo, è bello vedere in tutto questo che la comunione tra i due apostoli non è compromessa.

Comportamenti sbagliati, atteggiamenti ipocriti, timore degli uomini, ci sono stati e ci saranno nella comunità cristiana, ma non fanno scadere il rapporto in mancanza di rispetto o in separazione. È per questo che Paolo, senza insistere sull’accaduto, si mette ad esporre la dottrina della giustificazione (Ga 2:15-21).

 

Perché si possa vivere pienamente la libertà in Cristo, bisogna liberarsi dalla tradizione religiosa e dal legalismo. Il rapporto è tra noi e Dio, se tradizione, religione e legalismo entrano in questo rapporto alla fine il risultato sarà uno solo: saranno loro a muoverci e non più lo Spirito. La libertà in Cristo scaturita dalla sua salvezza è ridotta a comandamento umano, tutto quello che il Signore ci ha donato è esposto ad essere trafugato dal legalismo religioso.

 

Il problema esiste oggi come allora.

Quante delle cose che facciamo servono a cercare l’approvazione dei nostri amici, dei nostri parenti, dei nostri colleghi, dei credenti?

E quanto siamo invece interessati a ciò che Dio pensa di noi?

L’apostolo Paolo aveva realizzato che per vivere la sua libertà cristiana, non poteva preoccuparsi troppo di piacere agli uomini.

 

Il cristiano è chiamato a scegliere, ogni giorno, a chi vuole piacere. Se vuole piacere a Dio, non sempre piacerà agli uomini. È inevitabile. Se vogliamo essere discepoli di Gesù, se vogliamo davvero essere al suo servizio, dobbiamo seguire le sue orme.

Egli non si è preoccupato di ciò che pensavano gli altri e non si è lasciato distrarre dalla sua missione, ma solo di fare la volontà del padre. Allo stesso modo, Paolo, che imitava Cristo, non si preoccupava del favore degli uomini ma di quello di Dio.

 

Quando realizziamo che l’unica cosa che conta è vivere la piena libertà della legge dello Spirito per essere gradito a Dio, ci ritroviamo improvvisamente liberi dall’ansia di dover a tutti i costi piacere agli altri:

“Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini” (Cl 3:23).

Prendiamo a cuore la raccomandazione di Paolo e serviamo il Signore senza il peso del legalismo, della religione, della tradizione e non avremo più i timori di Pietro.