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Un padre disperato e squilibrato, dopo l’ennesima lite con la compagna per l’affidamento del loro unico figlio, “ha risolto il problema” gettando il bambino, di soli sedici mesi, nelle acque del Tevere in una delle più gelide giornate di questo eccezionale inverno romano. La notizia è di quelle che ti sconvolgono e ti tolgono il sonno. Anche se la cronaca ci riferisce, con una frequenza sempre più tragica, casi di padri o di madri che si disfano in modo drammatico dei figli, perché la loro presenza è diventata ingombrante, dobbiamo ben guardarci dal prenderne atto con rassegnata abitudine e dobbiamo piuttosto farne motivo di profonda tristezza e di riflessione. E una seria riflessione critica ci porterà non ad esprimere giudizi di sbrigativa condanna nei confronti di simili padri e di simili madri, ma piuttosto a pensare a tutti quei momenti in cui anche noi, come genitori, abbiamo considerato i nostri figli come “ingombranti”. Certo, da un punto di vista penale c’è un’enorme differenza fra il gettare un figlio nel Tevere ed il “gettarlo” davanti alla televisione o davanti al computer, purché non dia fastidio, ma da un punto di vista morale dobbiamo considerarci responsabili ogni volta in cui “gettiamo” i nostri figli davanti ai tanti “teveri” inquinati ed inquinanti che lasciamo scorrere sotto i loro occhi, nei quali li lasciamo immergere e nei quali corrono il rischio di affogare la loro mente e il loro cuore. Per questo “reato” non saremo perseguiti e chiamati in giudizio davanti alla legge degli uomini, ma saremo certamente chiamati in causa davanti al Signore.
Osservava una volta il fratello Gian Nunzio Artini, che aveva modo di vedere dall’alto della sua casa ad Anghiari scorrere lontano nella valle proprio il Tevere, che questo fiume costituiva un’eloquente metafora della storia del cristianesimo: acqua pura alla sorgente (alle origini!), poi acqua sempre più sporca ed inquinata nel suo corso verso Roma (e qui la metafora diventava anche geograficamente illuminante e stringente!).
Il ricordo di questa metafora mi ha suggerito delle domande: in quale acqua immergiamo i nostri figli? Nell’acqua limpida e pura della sorgente, che li disseta e li rende forti? O nell’acqua fetida del corso del fiume che li avvelena e li uccide? Certo arrivare a Roma, sui vari “lungoteveri” è sicuramente più agevole ed accattivante che salire, con sudore e fatica, sulle pendici del monte Fumaiolo lungo il sentiero che porta alle sorgenti del Tevere. Ma sono proprio il sudore e la fatica che dovrebbero caratterizzare il nostro impegno di padri e di madri. Il Signore ci chiede un impegno totale (oggi, con una frase abusata, si direbbe: “a 360 gradi”). Egli chiede a ciascuno di noi di essere genitore ed insegnante “quando te ne starai seduto in casa, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (De 6:7). Il popolo di Israele conobbe al tempo dei Giudici una delle più tragiche pagine della sua pur drammatica storia, perché la terza generazione dopo Giosuè “non conosceva il Signore né le opere che egli aveva compiute in favore d’Israele” (Giudici 2:10). È evidente che i genitori della generazione di mezzo erano venuti meno al loro compito: avevano evitato la fatica e il sudore ed avevano lasciato “affogare” i loro figli nell’idolatria e in ogni sorta di immoralità. Spesso ci succede di giudicare negativamente i nostri figli, i nostri giovani perché li vediamo nuotare in un fiume inquinato. Ma: impariamo a giudicare prima noi stessi, perché spesso ciò accade non solo per la loro personale responsabilità di scelta, ma per il nostro aver evitato la fatica e il sudore necessari per portarli alla sorgente!