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Fermo nella Parola, perché confortato dalla Parola!

 

Mi aveva sempre impressionato la fermezza di Arturo Vigna quando ci visitava, il suo termine era la Parola ed esprimeva una visibile fiducia in ciò che era scritto senza tergiversare.

“Così sta scritto” (Mt 4:4) era il suo motto.

 

Indubbiamente, in tempi nei quali man mano venivano fuori i distinguo e le nuove precisazioni (“c’è scritto così… ma in greco…”) ed in cui si avvertivano le prime influenze di un sapere senza esperienza della Parola e lontano dal servizio faticoso della predicazione nelle ristrettezze, Arturo sembrava un romantico assertore di certezze lontane. Invece no!

 

La fermezza derivava dall’esperienza, dall’aver vissuto in prima persona cosa significa “sperare contro ogni speranza” (Ro 4:18) ed affidare la propria vita al Signore in una costrizione dipendente da umori di uomini/aguzzini veramente malvagi, sempre pronti alla prevaricazione e all’omicidio.

Come sovente è capitato, chi trae conforto e meditazione dalla Parola, si sente portato a scrivere riflessioni per sé e per altri, non conoscendo il fine di quegli scritti e quale fonte di considerazioni e di consolazioni essi avrebbero potuto innescare in futuro.

In questo Arturo è stato un attento osservatore dello stato in cui venne a trovarsi, cronista di ciò che accadde nei giorni bui della perdita della ragione umana mondiale, ma pure della viva fedeltà di Dio in mezzo allo sfacelo e alla violenza gratuita, immaginata da menti sottoposte al nemico, il Diavolo, voglioso ed ebbro del sangue degli inermi.

 

 

1942-2012: avvenimenti trascorsi da settanta anni

 

L’avventura militare di Arturo inizia con la cartolina nel settembre 1942, il miraggio di restare vicino a casa viene spento dalla destinazione: Trieste.

Nel bagaglio trova posto una cassettina contenente oltre a carta, matita, rasoio, aghi, filo, una inseparabile Bibbia e un libro dei cantici.

Accompagnato al distretto dalla mamma e da Amelio suo fratello, dal padre Giovanni al treno, si mette in viaggio pervaso da una evidente commozione.

In caserma nella terra giuliana trova dei compagni di corso Fiat: Riccardo Valerio e Sergio Vizio ambedue di Torino.

“Il Signore sa ogni cosa”: è una massima che lo accompagna in ogni momento; a Trieste incontra Giovanni Giovannini, un evangelico; per lui è un vero conforto.

Nel frattempo riceve l’indirizzo della famiglia di Alfredo Veneziani di Trieste con cui stabilisce una buona comunione.

“Quanta benedizione in quella casa!”: è l’espres-

sione ammirata e riconoscente con cui commenta la sua esperienza.

La semplicità e la fedeltà negli insegnamenti biblici ascoltati in quella famiglia, lo temperano in positivo e lo fanno crescere spiritualmente; qui conosce il fratello Pierino Mungo di Pescara, poi i fratelli De Rosa, Gavio e Vittiglia.

Da Torino gli giungono notizie di bombardamenti: danneggiate sono sia la casa dei suoi genitori che la sala evangelica di via Virle, il 28 novembre 1942.

Una provvidenziale licenza il 7 dicembre 1942 permette il ritorno per cinque giorni a Torino in via Domodossola 33, nuova ubicazione della famiglia Vigna.

La lode a Dio è sempre presente anche nelle difficoltà dei tempi, poi nel febbraio 1943 Arturo è trasferito in servizio a Piacenza dove rincontra Valerio, reduce da un corso di meccanica: il suo commento e la sua preghiera a Dio sono per la conversione dell’amico.

 

Il 4 aprile 1943 è un giorno di grande entusiasmo, si riprende a celebrare il culto, dopo quattro mesi di inagibilità, nella sala di via Virle a Torino; la licenza è giunta propizia per Arturo.

Gustare la comunione con la propria assemblea dopo molto tempo, assieme ai genitori, al fratello Amelio con la moglie Lidia, il piccolo nipote Silvio è una gioia immensa.

Ritornato a Piacenza, saluta il fratello Paolo Ferraro iniziatore dell’assemblea locale e solerte nell’aiuto per i giovani.

Il 13 aprile 1943 raggiunge nuovamente Trieste.

 

 

Trento la nuova meta

 

Ancora un trasloco il 20 luglio 1943, la mèta è Trento, con i soliti problemi di logistica e vitto.

Il 25 luglio 1943 crolla il fascismo, chissà cosa accadrà?

Il padre Giovanni Vigna scrive sovente delle cartoline ad Arturo, con frasi invitanti a confidare nel “Rifugio” e nella“Forte Rocca”.

Il 2 settembre 1943 Trento è bombardata dagli Alleati. Rischiano di essere travolti: Valerio, il compagno, trema come una foglia; è sollecitato da Arturo a credere e dare il suo cuore a Gesù. Chissà?

Nello stesso giorno sono impiegati con turni di soccorso fra le macerie, un lavoro eseguito nei pressi di una trattoria crollata, in uno spettacolo orrendo di morti, distruzioni e detriti.

A Trento incontra nuovamente Giovannini con l’amico Letilloy di Condove (TO); ricordano insieme i momenti felici trascorsi e cantano inni al Signore.

L’8 settembre 1943 irrompe la notizia della fine della guerra; il Signore a cui tutti si appellavano nella disperazione, è presto dimenticato da un’effimera ventata di felicità; infatti già alle 2:30 di notte sparano da tutte le parti.

Un grido nel buio “Aiuto mamma!”, ultima invocazione di un colpito, è il prologo di molte voci simili, di quelli che di lì a poco, saranno scaraventati nel girone infernale dei lager.

 

 

Il viaggio verso l’ignoto, ma con il Signore al fianco

 

Infatti il 9 settembre 1943 i tedeschi requisiscono tutti i soldati italiani, circa 12.000, li conducono scortati nel campo d’aviazione Gardolo, a cinque chilometri da Trento e poi avviati su carri carbone, il 10 settembre, con destinazione ignota.

Due gallette ed una scatoletta di carne è il vitto per il viaggio, lungo due giorni e mezzo: Bolzano, Innsbruk, rivelano il tragitto verso nord; il cambio vagoni, ora quelli bestiame, conducono a Fürstemberg Stalag III B la tappa finale.

Ad attendere i soldati italiani un campo con doppio reticolato con torrette ai lati, fari con mitragliatrici vigilanti, baracche di legno per i nuovi arrivati; alloggiano separati anche prigionieri americani, francesi, serbi.

Bagno e disinfestazione, ritiro degli zaini, sequestro dei soldi, impronte digitali e foto segnaletica con N° 302381 da imparare in tedesco in fretta, poi l’odioso appello che dura più di un’ora e mezza, immobili al freddo, ancora più duro sarà quello al gelo invernale.

Radio campo annunzia “Mussolini liberato” ed il 29 settembre 1943 si verifica l’arruolamento volontario nelle SS accolto da circa 250 elementi su 17.000.

Rispondere no ad un colonnello tedesco è una sfida non indifferente.

Arturo con una coperta confeziona due giubbotti uno per sé, l’altro per Valerio; nel campo, loro due e Letilloy leggono la Bibbia e pregano: non viene meno anche nelle difficoltà lo sguardo verso l’Alto.

 

 

Una nuova destinazione

 

Il primo ottobre 1943 con altri 320 s’avviano a piedi verso Wandern, un percorso di 70 chilometri a piedi, per persone già debilitate dalla insufficienza alimentare (l’alimentazione consiste infatti in brodaglie e poco pane).

La strada dopo il primo giorno di cammino diventa insopportabile, le minacce a dei barcollanti e sfiniti sono inutili.

La riflessione per Arturo va al libro letto in giovinezza “Il pellegrinaggio del cristiano”, pensa al fardello dei peccati portato dal pellegrino in cerca d’asilo, s’identifica nell’analogia spirituale.

Riposarsi sopra un po’ di paglia in un tugurio è la felicità terrena per Arturo, che con la mente, va alle protese braccia di Dio accoglienti le anime affrante ed a cuori stanchi, bisognosi di riposo.

Il nuovo giorno è la ripetizione di quello trascorso, dopo 4 o 5 chilometri quasi tutti sono sfiniti; un camion provvidenziale fa la spola scaricando i reclusi nel Campo. Trenta di loro tra cui Arturo, devono scaricare legna fino a tarda sera: un’ulteriore fatica e stanchezza infinita.

 

La sistemazione in baracche è simile a quella precedente, la giornata si svolge con la sveglia alle ore 4:45, il rancio alle ore 5:15, poi un percorso di 8/9 chilometri per raggiungere un orto dove lavorare, il ritorno alle ore 18:00 con il solito tragitto, il secondo rancio consistente in una minestra di rape e patate sempre più lunga.

I civili teutonici dove sono impiegati non sono cattivi, all’opposto dei soldati tedeschi: il 14 novembre 1943, ad esempio, sono obbligati a portare a piedi travi per una dozzina di chilometri, quando bastava un semplice camion. Stupidità ottusa.

È vera manna il ritrovamento in un campo di alcune patate, preziosissime come le sigarette, che Arturo, non essendo fumatore cambia con una camicia.

 

 

Eben Ezer!

 

Il 25 novembre 1943 altro bando interno per arruolare soldati, 15 accettano; Arturo è disposto a sostenere il suo ruolo di prigioniero e non a tornare in Patria, per imbracciare le armi contro i fratelli italiani.

Di conforto, viste le prospettive di vita e la “camorra” dei cuochi infedeli ed accaparratori, sono le parole di Romani 8:17 (“le sofferenze del tempo presente…”).

L’8 dicembre 1943, per due ore sono al freddo polare per l’appello, le bastonature sono all’ordine del giorno; iniziano i primi furti per sopravvivenza, fuori nevica, vi sono 12 gradi sottozero e la stufa è spenta.

Nella mente di Arturo risuonano le parole “Il vostro cuore non sia turbato” (Gua 14:1).

Il giorno 24 dicembre 1943 ricorre il compleanno di Amelio, suo fratello: quanta nostalgia per la famiglia!

“Natale” è festeggiato con un po’ di carne, barbabietole e patate, scontate l’indomani dalla mancanza del rancio. Soltanto il ricordo delle parole “la mia grazia ti basta” (2 Co 12:9) è quello che procura la vera gioia.

Il 31 dicembre 1943 ed il primo giorno del 1944 per Arturo sono giornate di ricordi, quando il papà Giovanni radunava, per un bilancio delle benedizioni ricevute, tutta la famiglia e quando, dopo aver letto alcuni passi della Scrittura, ringraziava il Signore.

Oggi, cruda realtà, Arturo ha i geloni ai piedi… ma una fede incrollabile in colui che, nonostante tutto, continua a dispensare la sua incommensurabile grazia.

 

 

Inizia il 1944, ma con quali prospettive per i poveri prigionieri?

 

Il mese di gennaio 1944 trascorre con l’ag-

gravarsi del problema alimentare: si scambiano penne stilografiche, orologi, indumenti, per briciole di pane.

Ora Arturo lavora in un magazzino, ogni tanto riceve della minestra sostanziosa dal padrone del locale; impara un po’ di tedesco per comunicare e ripara orologi per i soldati teutonici, questo lo mette in buona luce ed ogni tanto riceve un pezzo di pane extra.

“Il Signore è il mio pastore” (Sl 23:1): verità vissuta come realtà vivente.

 

Il 4 febbraio 1944 è il compleanno di Arturo: il ricordo sono i dolci della mamma, le poesie del babbo, la musica, gli inni; ora nonostante le bucce di patate divenute preziosissime e le ghiande abbrustolite, un grazie al Dio tre volte Santo è la preghiera terminata con l’alleluia, dal nostro fratello.

Il dimagrimento è ormai visibile su tutti, quelli che marcano visita sovente sono bastonati senza motivo, non sono creduti ammalati; all’apello al freddo molti, sfiniti, perdono i sensi.

Zanardi un compagno di reclusione punito con la prigione, riceve un po’di pane di nascosto per solidarietà.

 

Il 28 marzo 1944 è un giorno indimenticabile: il Signore ascolta le grida di dolore e d’unifica-

zione.

Arturo dopo aver riparato un orologio d’oro del maresciallo, l’ha messo al polso per controllarne il movimento, quando (sorpresa!) L’orologio non c’è più sull’avambraccio.

Panico… sapendo la prospettiva della terribile punizione.

Un appello e preghiera vibrante al Signore per ritrovarlo; i pochi percorsi sono infruttuosamente rifatti senza risultato: dell’orologio non c’è traccia.

Assale lo sconforto, vampate di caldo e di freddo, quando all’improvviso, ecco l’orologio per terra forse scivolato dalla manica della giacca in cui s’era impigliato.

“Quale sollievo! Che meraviglioso amore!”: sono le parole impresse nel diario.

Questo lavoro di orologiaio, come accennato, gli permette di ricevere in regalo dai tedeschi dei filoni di pane, sovente li condivide con altri seguendo il detto evangelico: “Date voi da mangiare” (Mr 6:37).

 

 

Aprile 44: le prime conseguenze nel lager dopo i mesi invernali

 

I prigionieri sono minati nel corpo, l’inverno durissimo e gli stenti sono stati e saranno fatali per molti; s’inizia a morire per malattie in un baleno, come un certo Fontana.

Nonostante il ricevimento di due pacchi di preziosi viveri da casa, Arturo debilitato nel fisico ha la febbre molto forte, sfiora i 40 gradi e viene ricoverato a Fürstemberg.

 

Nella baracca in quarantena con i tubercolosi, Arturo scopre di avere una brutta pleurite ed un gonfiore ad un ginocchio; qui si muore come le mosche è l’amara constatazione, colpa solo della guerra o della malvagità degli uomini?

“Signore sgrida la guerra!” è l’invocazione annotata da Arturo.

Tra gli ammalati ritrova Giovanni Giai di Pinerolo, Letilloy ed un certo Aldo Vazone di Susa.

A fine maggio una cartolina gli annunzia la nascita di Silvana, la secondogenita di Amelio; che gioia queste notizie dalla famiglia e sapere della preghiere gli uni per gli altri.

“Radio reticolato” a giugno vocifera degli Alleati a Roma, di alcune coste della Francia occupate; i rombi degli apparecchi americani sopra l’ospedale sono sempre più frequenti, s’intuisce lo sfacelo tedesco.

 

La morte a luglio falcidia moltissimi, nomi anonimi ma dolorosi per le famiglie cui appartengono, eccone alcuni: De Persio, Rossi, Carrara, Soffritti, Claudio Bont, De Mattia, Giannelli, Graziosi, Basili, un certo Antonio.

A metà agosto Arturo incontra un pastore evangelico francese Marc Eldin originario di “Clarmes sur Rahons Ardeche”, (in realtà: Charmes sur Rhòne Ardèche); hanno una buona comunione, in seguito questo fratello consegnerà ad Arturo un pacco di viveri.

Il 9 settembre 1944 si compie un anno di prigionia: quanti episodi, quante avventure, quante sofferenze! Ma nuovamente: “Eben Ezer”!

Un prete italiano, don Marchiaro, che conosce pochissimo la Bibbia, s’avvicina ad Arturo e discorre di fede, v’è uno scambio di opuscoli già conservati gelosamente, ma lo scopo vero del prete era quello di distoglere dalla testimonianza di Arturo alcuni compagni come Letilloy, che ascolta volentieri.

Un opuscolo romano è restituito da Arturo con osservazioni bibliche; entrati più in confidenza il chierico gli racconta della scandalosa condotta di certi suoi compagni nei seminari (non sono cambiati). Tuttavia ciò non aveva incrinato la fiducia di quest’uomo nell’istituzione “Chiesa Romana”.

 

Arturo risponde spiegandogli cosa è la Chiesa secondo 1Pietro 2:4-5, 9-10; è un’assemblea di riscattati dal prezioso sangue di Gesù, affascinati dalla sua Parola.

 

In modo profondamente diverso proseguono i suoi rapporti con Marc Eldin; sono infatti rapporti fraterni e pieni di gioia spirituale, meditano a lungo insieme su Efesini 5:6 e 1Tessalonicesi 4:13.

 

Ad ottobre e novembre decedono ancora altri compagni: Airoldi di Lecce, Moro, Saliva, Caligari, Cavazzana, Abbate, Rossi, De Bei, Tessari, Paoloni schiacciato da un camion, Campani, De Paoli del 1919 ed altri sconosciuti.

Due pacchi da casa sono vera manna per il febbricitante Arturo; comunque non si lamenta e spera sempre nella fine della prigionia con incrollabile fiducia.

 

Per Natale, il prete, conoscendo il talento musicale di Arturo, cerca di coinvolgerlo nella programmazione di una festa, dandogli dei testi di canti da visionare: sono insignificanti.

Lui propone di suonare e cantare l’inno 96 “Quando il terrestre mio viaggio” che ha già insegnato ad altri.

Non era lo scopo del chierico; quando c’entra la fede, s’irrigidisce.

 

Invece il 26 dicembre 1944 Marc Eldin arriva con due credenti francesi, trascorrono momenti lieti di fraternità e preghiera.

Il prete giunge con una Bibbia Luzzi, recuperata chissà dove, Arturo spera che leggendola possa convertirsi, ma viste le premesse…

 

 

Novità in vista, si avvereranno?

 

Il nome di Arturo è inserito tra quelli destinati ad un prossimo rimpatrio di ammalati in Italia, il viaggio è programmato per il 14 gennaio del 1945.

 

Nella trepida attesa oltre alle lodi e preghiere di riconoscenza al Signore, Arturo scrive una poesia.

 

Mia sola e certa speme

Signor Gesù tu sei

Che in sofferenze estreme

Lavasti i falli miei

 

Per darmi eterna vita

Pace serena e in ciel

Un Padre che m’invita

Coi santi suoi fedel.

 

Da quel cammin che a morte

M’avria condotto alfin

Tu mi strappasti a Forte

O Redentor Divin.

 

E or fa’ che più sicuro

Sia il passo mio Signore

Sull’orme tue d’Amore

Che qui lasciasti un dì.

 

Nel mio pellegrinaggio

Vi son prove e dolor

Deh, infondi tu coraggio

Al debole mio cuor!

 

Deh, per la man mi prendi

Abbi di me pietà

Sostienmi ché dell’uomo

L’aiuto è vanità.

 

Il tempo trascorre, non si parla più del viaggio di ritorno, ma per Arturo la speranza nell’Onnipotente non evapora.

Il 2 febbraio 1945 l’avanzata russa è alle porte del lager, si odono i colpi dei Katiuscia: gli americani prigionieri sono allontanati, le guardie tedesche lasciano momentaneamente il campo.

Nei magazzini stracolmi di ogni bene: pacchi di viveri, marmellata, cioccolata, latte condensato, formaggio, ecc…, indumenti di lana, maglioni, mutande, sono divisi tra i detenuti.

Il 4 febbraio 1945 è il compleanno di Arturo, non v’è tempo per pensarvi, intorno al campo s’è accesa una battaglia, si spera non cadano bombe; purtroppo non si dorme di notte.

Il giorno 7 febbraio i reclusi sono sempre nei lager, nessuno si muove: un capitano italiano organizza il rancio, per fortuna i tedeschi nella fuga hanno lasciato farina per cuocere del pane.

I russi risparmiano il campo con le loro cannonate, la paura comunque è molta, il prete fa recitare il rosario alla truppa.

 

Nel bel mezzo di questa riunione Arturo investito dall’Alto, si alza in piedi e per due volte eleva preghiere con richiesta di grazia e protezione a Dio.

Lode al suo Nome.

 

Il prete cerca di coprire la voce di Arturo, smanacciando sulla fisarmonica e cercando di disturbare l’ascolto pubblico delle preghiere; non contento alla fine dirà che gli ufficiali non approvavano l’intervento di Arturo.

Falso! come al solito.

Tutti invece si congratuleranno per il coraggio che Arturo aveva dimostrato nell’alzarsi e per le parole che aveva rivolto al Signore.

Il prete apparve purtroppo, anche in questo frangente, offuscato nella mente dalla recita inutile di preghiere a persone (Maria, i “santi”), che non possono udirle, non essendo ancora risuscitate.

Pur se fu messa in evidenza la malafede del chierico, tuttavia Arturo non fu distolto da ciò a pregare intensamente per sua conversione.

La morte intanto non cessa di raccogliere dei malati giunti all’estremo, tra questi Arturo annota due nomi: Costagli, Morra, ed altri.

 

Il giorno 9 febbraio 1945 inizia l’esodo dal campo alle ore 4 del mattino. Dopo alcuni chilometri questa processione di larve umane raggiunge dei barconi su in canale, allontanandosi dal fuoco dei mortai e cannoni.

Il viaggio riprende verso Berlino e raggiungono Werder, per una settimana vagano su questi barconi, al freddo di notte e senza brodaglia calda, preoccupati per l’ignoto, perché nessuno sa dove si andrà a parare.

Finalmente il 19 febbraio 1945 i tubercolosi più gravi sono fatti salire su un treno per arrivare a Brandenburgo; Arturo è sempre sulla chiatta, si odono i furenti bombardamenti su Berlino.

La situazione è pericolosa perché è possibile essere scambiati per militari e non per ammalati in fuga.

 

Due rappresentanti della Croce Rossa il 24 febbraio 1945 fanno giungere aiuti agli Americani, ai Francesi, ai Serbi, per gli Italiani tutto tace.

“Signore aiutaci Tu, facci uscire dalla distretta!” è l’invocazione speranzosa di Arturo.

Ora sono sbarcati a terra, riparano in un’officina abbandonata e sostano lì fino al 6 marzo 1945. Lasciano Werder per Brandenburgo come i tubercolosi precedenti, accolti nell’ospedale Reserv Lazaret 103, con letti e lenzuola, riscaldamento, vitto passabile.

Un grande ringraziamento sale a Dio da parte di Arturo, per questa nuova sistemazione.

“A Lui sol savio la gloria, la benedizione e l’adorazione. Amen” (Ro 16:27).

 

In questo ospedale i malati ritrovano il loro cap. Torresini ed il ten. Roia, mentre a Werder sono rimasti il ten. Lenzi e il ten. Alessio Visendaz; si parla di nuovo di rimpatrio.

Immensa gioia è per Arturo sapere che Ludovico Crepaldi ha dato il suo cuore a Gesù, i suoi sforzi nella predicazione non sono stati vani. Alleluia!

I primi giorni di aprile 1945 il nostro va letteralmente all’assalto del Trono di Grazia – così annota sul diario – per chiedere protezione dai bombardamenti alleati, infatti una vera pioggia di bombe s’abbatte tutto intorno all’ospedale, si cerca rifugio nel sotterraneo.

La lode continua per l’approssimarsi della fine della guerra, sono preghiere di adorazione e riconoscenza, sulla bocca di Arturo.

 

 

Il ritorno in Italia

 

Il 10 aprile 1945 inizia il sospirato rimpatrio; Arturo pesa 57 Kg.

il ginocchio è sempre grave, un tormento, anche la febbricola non lo lascia; legge la storia di Sansone legato da funi di morte, ma liberato dalla grazia divina (Gc 16:12).

Il 14 aprile 1945 è il giorno di partenza, il treno N° 802 composto da nove vagoni s’avvia verso la Svizzera.

Arturo è alloggiato nell’ultimo vagone assieme ai compagni Lucarini, Venturini, Vendemmia.

Una preghiera è elevata per i rimasti: “Volgi il tuo sguardo pietoso verso loro”.

Nei pressi di Desdra decede Tesolin; Bugno e Doriano Ruffoni stanno male.

 

Il viaggio per attraversare la Germania è lento ma costante, anche se vi sono soste; ogni giorno un passo avanti, dopo la Svizzera con il suo panorama ordinato e rilassante, ecco la galleria del San Gottardo, la sospirata Patria il 18 aprile 1945.

“Oh Italia!” è il sospiro…

 

Como, Milano, Varese sono le tappe, traguardo finale è l’ospedale di Bizzozzero nel varesotto: sembra un sogno, dopo molti mesi di sofferenze essere accolti da persone che parlano la tua lingua e che hanno modi gentili e premurosi.

Una cartolina alla famiglia è il primo pensiero: arriverà?

Il 22 aprile gli immobilizzano il ginocchio, nel viaggio si è aggravato, anche la febbre è presente, inizia una cura.

 

Il 25 aprile 1945 Varese è liberata dai partigiani.

Il 2 maggio 1945 sembra tutto finito, ma solamente il 7 maggio Arturo ascolta per radio la notizia della resa della Germania e la fine del nazismo. Gloria a Dio!

I giorni della convalescenza dopo l’ingessatura all’arto avvenuta il 29 aprile, passano veloci, i varesini fanno a gara per portare viveri, uova, dolci ai ricoverati.

 

Arturo aspetta con ansia di rivedere i suoi familiari, la gioia indescrivibile si materializza quando il 14 maggio 1945 accanto al letto, si ritrova Lidia ed Amelio.

“Il Signore mi ha ricondotto in famiglia” è il commento riconoscente del caro Arturo.

 

 

Conclusione

 

Le considerazioni finali su questa vicenda appaiono evidenti: in questa lunga vicissitudine risalta come la fede di Arturo sia stata vagliata nel crogiolo col fuoco (1P 1:7), abbondantemente nel tempo e nell’intensità.

 

La sua fede s’è forgiata con costanza e tenacia, sperando contro speranza, quando il panorama di morte e di violenza che vedeva intorno a sé gli suggeriva l’abbandono.

La testimonianza per Cristo, in quel contesto di negazione dell’umanità, ha sempre brillato, attraverso la sua pubblica lettura della Parola.

Essere evangelici in quella bolgia infernale, voleva dire “Cristo è sempre speranza di Gloria” (Cl 1:27). La visibilità della presenza di Dio in Arturo, come testimone della sua Grazia, è stata evidente in ogni situazione.

 

Da questa esperienza nascosta e mai sbandierata, derivò la sua certezza nella potenza di Dio, anche nel proseguimento del suo servizio a tempo pieno nelle Assemblee in Italia.

Il suo tagliare rettamente la Parola (2Ti 2:15), in mezzo a tante Assemblee, annunziando tutto il consiglio di Dio (At 20:27), sono prerogative imparate anche durante la durezza dell’esperienza e dei rischi nei lager.

Per questo, quando appariranno le prime deviazioni, vedranno il combattente Arturo prendere posizione contro il modernismo e le insinuazioni sulla precarietà dell’autorità della Parola.

La sua opposizione a queste forme culturali, lo faranno apparire come “il fratello antico”, ma quale piacere averlo conosciuto ed aver ricevuto i suoi insegnamenti.

 

Al termine di questo commento, mi preme evidenziare come chi ha imparato a piangere e soffrire per la testimonianza, sia degno di ammirazione e di ringraziamento a Dio, per l’esempio che ci ha lasciato.