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Dalla corrispondenza che segue ho cercato di eliminare ogni riferimento biografico, per non creare disagio alla persona coinvolta, che apprezzo e stimo per come da anni vive i doni, ricevuti dal Signore, dell’umiltà e della discrezione. È una corrispondenza che però potrà essere particolarmente utile per almeno due motivi.

 

Il primo motivo è che essa potrà costituire un incoraggiamento alle “vecchie” generazioni ad impegnarsi per essere, nel loro cammino con il Signore nella chiesa, un modello ed esempio per i più giovani: nella santificazione, nella consacrazione e nel servizio.

 

Il secondo motivo è che, dall’altro lato, aiuterà le “nuove” generazioni a capire quanto sia importante essere umili, non ritenersi “già arrivati” e guardare alle persone più mature per imparare dal loro esempio e per essere pronti a raccogliere, quando il Signore lo deciderà, il loro “mantello”.

 

P. M.

 

 

Un debito di riconoscenza

 

Caro Paolo,

ho letto con interesse il tuo editoriale di ottobre e credo di poter dare una testimonianza che mostra, contro la “presunzione di onnipotenza” e la “convinzione di non aver più bisogno di nessuno!” di cui parli, il debito invece di riconoscenza che abbiamo, verso i servitori del Signore che ci hanno preceduto, per l’esempio che ci lasciano in eredità.

Sono il primo a dire che ogni “eredità” va “spesa” tenendo conto del “corso monetario in vigore” nel momento in cui va “investita”, però si tratta sempre di un’eredità da considerare con deferenza e rispetto, senza superbe ed altezzose contrapposizioni.

 

Circa un anno fa, ero nel mio studio, allorquando ho sentito l’impulso irrefrenabile di scrivere una lettera a un caro fratello, missionario da oltre trent’anni nel paese dove abito e fondatore della comunità di cui faccio parte ed in cui sto assumendo man mano, secondo la grazia che darà il Signore, un ruolo di responsabilità.

La sera prima, allo studio biblico egli ci aveva parlato del “metodo” usato in tanti anni di missione per portare il Vangelo nelle nostre contrade e le sue parole continuavano a rimbombarmi nella mente e a riscaldare il mio cuore, finché tra le lacrime ho scritto la lettera che riporterò fra breve.

 

 

Esemplificazione pratica

 

Pensavo di aver scritto qualcosa di privato che come tale doveva restare, invece, qualche settimana dopo, mi telefona un anziano di chiesa, che a suo tempo ha stimolato ed incoraggiato questo caro fratello a venire in missione nel suo paese natio, dicendomi con una certa emozione derivante non solo dalla sua veneranda età, che avevo scritto qualcosa di prezioso e che voleva pubblicarlo, se gli davo il consenso.

Visto il carattere privato della lettera dissi che, se andava bene per il suo destinatario, andava bene anche per me.

 

La lettera è stata pubblicata ed è passato circa un anno. Quest’estate, una cara sorella svizzera, anch’essa missionaria da tanti anni in Italia mi dice di aver letto la lettera, com’è stata pubblicata e di aver provato una certa emozione per le parole che avevo scritto.

Ma forse, la cosa che letteralmente mi è rimasta più impressa, è quando, sempre quest’estate, un fratello, anch’esso anziano di chiesa, mi ha stretto e quasi stritolato, dicendomi che era fiero di avermi come fratello.

Così, avendo come Maria “serbato” questi fatti nel cuore e collegandoli col tuo articolo, mi pare che sia una testimonianza cheesemplifichi, in qualche modo, il tuo editoriale. Ecco il testo della lettera:

 

 

Il valore della perseveranza

 

Caro fratello, 

ripensando al racconto che facevate nello studio biblico di ieri sera, dell’opera missionaria che avete portato avanti in tutti questi anni, secondo il “metodo” di Luca 8:1, “andare per città e villaggi, predicando e annunziando la buona notizia del regno di Dio”, e conoscendo, almeno in parte le lotte, di dentro e di fuori, che avete sostenuto in tutti questi anni, ed intuendo quella punta di malinconia che talvolta traspare dai vostri discorsi, per non essere più così “attivo”, sentivo stamattina di dirvi quanto segue.

Ve lo scrivo, perché so che non sarei capace di dirvelo direttamente, perché già sto piangendo nel pensarlo… figuratevi nel dirlo, e perché so, che anche voi vi mettereste a piangere…

 

Ciò che voglio dirvi è questo:

Voi siete un uomo di Dio, non perché lo dico io, ma perché avete lasciato un esempio di perseveranza, difficile da vedere al giorno d’oggi. Dal niente e senza una preparazione adeguata, come spesso voi puntualizzate, avete tirato su un’opera (cioè più di una chiesa), avendo saputo discernere e schivare errori irreversibili ed avendo saputo dare continuità dottrinale. Avete saputo resistere, anche quando l’inferno vi si è scagliato contro, facendo leva sui vostri difetti (ma chi non li ha?), pur di legarvi i piedi ed imbavagliarvi la bocca.

 

Ma tutti siamo testimoni del fatto che quei piedi hanno continuato ad andare e quella bocca ha continuato a parlare.

“Non avete mollato”, come dice mia moglie e tutti l’abbiamo visto. Io so, che il vostro ministero non è stato solo purificato dal sangue di Gesù, ma è stato anche lavato dalle vostre lacrime. Qualcuno ha scritto che “quando verrà la tempesta, l’albero mostrerà quanto profonda è la sua radice” e questo voi l’avete mostrato ampiamente.

 

 

Fatiche e sofferenze nel servizio

 

Oggigiorno esistono idee molto confuse sulla “potenza” di un servitore del Signore. Ma qualcuno ha scritto:

“L’apostolo sapeva di avere le manifestazioni di un apostolo, cioè segni, miracoli e prodigi (2Co 12:12), ma sapeva che la potenza di un apostolo, come quella di qualunque credente, scaturisce da una perseverante sopportazione della sofferenza, come per esempio, la sua spina nella carne, o la paziente sopportazione delle ingiurie e delle difficoltà alle quali fu sottoposto per l’intera durata della sua opera missionaria (1Co 4)”.

Le vostre fatiche e le vostre sofferenze nell’opera, sono ora per voi la vostra gloria (2Te 1:4). È questo che ha fatto di voi un uomo di Dio: la vostra fedele ubbidienza al vostro mandato, malgrado le tante difficoltà. È stata questa la “potenza” del vostro ministero: “l’ubbidienza della fede” (Ro 1:5) e “la comunione delle sue sofferenze” (Fl 3:10).

 

Ricordatevi che avete operato in una terra difficile ed in un tempo difficile dove “questo vangelo del regno sarà predicato in tutto il mondo, affinché ne sia resa testimonianza a tutte le genti” (Mt.24:14).

Lo scopo della nostra predicazione non sono i grandi raccolti, ma che “sia resa testimonianza a tutte le genti, allora verrà la fine” (v.14). Nostro compito è responsabilizzare gli uomini prima del giudizio ed in questo siete stato fedele, malgrado le diaboliche accuse subite in tutti questi anni.

 

 

Ogni cosa a suo tempo!

 

So che i vostri piedi vogliono continuare ad andare e la vostra bocca vuol continuare a parlare, a tempo e a fuor di tempo, ma pure “c’è un tempo per ogni cosa”, e questo è il tempo in cui dovete anche imparare a gioire del lavoro fatto, dell’esempio dato, dei chilometri percorsi

Questo è il tempo per voi in cui dovete anche (ma solo voi potete sapere quanto) imparare ad entrare nel “riposo” di chi ha lavorato (Mr 6:30-31) e nella “gioia” di chi è stato un “servo buono e fedele…in poca cosa” (Mr 25:21,23).

Gesù chiama “fedele in poca cosa”, sia chi ha ricevuto e fatto fruttare due talenti (v. 23) sia chi ne ha ricevuto e fatto fruttare cinque (v. 21). Questo probabilmente perché tutti facciamo solo ciò che “la grazia di Dio” ci dà di fare (1Co 15:10) e davanti a lui, tutti facciamo “poca cosa”, siamo cioè “servi inutili” (Lu 17:10). E per voi questo vuol dire non farvi rubare quella “gioia”, che ora vi spetta di diritto, semplicemente perché non vedete “i frutti” che avreste voluto vedere. Questa è un’accusa diabolica alla quale non dovete prestare “i fianchi della vostra mente”(1P 1:13).

Questo è quello che avevo in cuore di dirvi stamattina. Spero che vi consoli quanto a me ha fatto commuovere. Non so se questi pensieri vengono dal Signore, ma so che voi saprete giudicarlo abbastanza bene. Di sicuro sono lavati dalle mie lacrime. Che Dio continui a benedirvi.

 

Lettera firmata