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LA PREGHIERA

 

L’insegnamento del Signore Gesù

 

Gesù comandò agli apostoli non soltanto di predicare il Vangelo ad ogni creatura, ma anche di ammaestrare i nuovi discepoli che si sarebbero formati (Mr 16:15; Mt 28:19-20). In che cosa consisteva questo “programma” da insegnare? Si trattava di trasmettere ad altri le stesse cose che Gesù aveva insegnato a loro.

Non c’è dubbio che uno degli argomenti insegnati da Gesù durante il suo ministero terreno fu proprio la preghiera.

Perciò la preghiera è una delle realtà basilari che ciascun discepolo di Cristo dovrebbe imparare a praticare sin dai suoi primi passi.

Come abbiamo visto all’inizio dei primi due articoli, Gesù fu esemplare nella preghiera individuale. Egli insegnò anche agli altri il valore del praticare la preghiera da soli e in disparte, nella propria cameretta (Mt 6:5-15; Lc 11:1-4).

In quella ben conosciuta sezione del “Sermone sul monte”, troviamo alcuni principi guida molto importanti per pregare in modo gradito a Dio.

• Primo: la preghiera individuale deve essere rivolta a Dio “nel segreto”, vale a dire lontano dagli sguardi degli altri uomini. Questo mette al riparo da confronti e dalla possibilità di scivolare nell’ipocrisia di cercare di pregare in un modo che susciti il plauso di chi ci vede.

• Secondo: bisogna pregare senza usare “troppe parole”. Chiaramente, ognuno di noi ha un lessico più o meno fornito di vocaboli, l’importante è che non diventiamo preda della ricerca di “paroloni” o di interminabili ripetizioni e lungaggini, perché il Signore che invochiamo non ha affatto bisogno di tutto questo.

Le “troppe parole” potrebbero prendere il posto della sincerità e della chiarezza della nostra preghiera. Dobbiamo fare attenzione a questo pericolo.

• Terzo: invochiamo il Dio che è “Padre nostro”. Purtroppo, la preghiera indicata come modello da Gesù è diventata per molti una formula ripetuta innumerevoli volte, esattamente al contrario di quello che Gesù aveva detto poco prima di pronunciarla, e viene fatta propria da persone che non hanno alcun rapporto di figliolanza con il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il che aumenta il distacco e la freddezza di un simile pregare. Come figli adottivi di Dio, chiamare Dio con l’appellativo di “Padre” (Ro 8:15) è un prezioso diritto che dobbiamo esercitare nella consapevolezza di una relazione con Dio non finta, ma che, in quanto filiale, deve essere vissuta nell’apertura, nella fiducia, nell’amore, nel rispetto.

• Quarto: il Padre “sa le cose…”. Non preghiamo quindi con lo scopo di fare conoscere a Dio delle situazioni o dei bisogni, infatti, chi meglio di lui conosce tutto perfettamente? Preghiamo piuttosto per esprimergli il desiderio che abbiamo che lui prenda parte alle cose che gli sottoponiamo, siano esse della nostra vita o di quella degli altri. Questo è determinante per la disposizione d’animo con cui ci presenteremo davanti al Padre.

 

 

Parlare a Dio

 

Prima di vedere alcune forme che la preghiera può assumere (confessione, offerta a Dio, richiesta ed intercessione) vorrei sottolineare il fatto che questi aspetti non devono essere “comparti stagni”, cioè separati l’uno dall’altro.

Dobbiamo focalizzare il principio basilare per cui la preghiera è prima di tutto parlare a Dio. Perciò il ringraziamento e le richieste non devono essere elenchi simili a liste per la spesa.

La preghiera sincera rispecchia la situazione particolare, anche dal punto di vista emotivo, di chi la innalza. È l’apertura a Dio di tutto il nostro cuore.

Non a caso, Dio non ci chiede di ripetere delle formule predefinite. Anche le preghiere di Gesù rispecchiarono quello che il suo animo sentiva (Mt 11:25; Gv 11:41-42; Mt 26:39,42).

Questo non significa essere preda dei nostri sentimenti, che non sempre sono buoni; i sentimenti, però, non devono essere ignorati. Proprio attraverso la preghiera cerchiamo Dio affinché ci orienti verso il bene purificandoci dalle scorie di malvagità che possono essere dentro la nostra anima.

In preghiera dobbiamo esporre a Dio ogni parte del nostro cuore, anche la più nascosta, affinché egli ne giudichi i sentimenti e pensieri alla luce della sua Parola (Eb 4:12-13; Sl 139:23-24).

C’è un gesto nella Scrittura che mi pare esemplifichi bene l’apertura d’animo davanti a Dio.

Il re Ezechia ricevette dal re di Assiria Sennacherib una lettera piena di sfida e di intimidazioni, nel momento in cui gli Assiri erano già accampati nei pressi di Gerusalemme per conquistarla (Is 36:1-2). Che cosa fece il re di Giuda? Ezechia, dopo averla letta, “salì alla casa del SIGNORE, e la spiegò davanti al Signore” (Is 37:14; 2Re 19:14). Il Signore non conosceva forse il contenuto di quella lettera? Eppure, il gesto di Ezechia non era senza senso: dimostrava palesemente la partecipazione che il re voleva che il Signore avesse in quella circostanza, che lo vedeva molto provato.

Era come se Ezechia dicesse: “Signore, leggi quello che mi hanno scritto, sappi in quale situazione ci troviamo e come siamo trattati dai nostri nemici”.

Consideriamo il Salmo 139. La prima parte del Salmo è la celebrazione della perfetta conoscenza che Dio ha di noi, una conoscenza che Dio ha indipendentemente da noi, dal fatto che lo vogliamo o no, dal fatto che in preghiera parliamo a lui oppure no. Ma Davide verso la fine prega così: “Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore. Mettimi alla prova e conosci i miei pensieri” (v. 23).

Questa è l’espressione del desiderio che Dio ci conosca, che sappia di noi, ed è il senso profondo della preghiera. Se noi sappiamo alcune cose riguardo ad una persona tramite terzi, è una cosa; se invece è quella persona stessa a parlarci di sé è ben diverso, perché in questo modo la nostra relazione si fortifica. Accade così con la preghiera: la nostra relazione con Dio diventa più forte.

Preghiamo per esprimere a Dio un senso di bisogno, di ricerca e di dipendenza.

È in questa prospettiva che anche la semplice descrizione di quello che ci succede ha significato. La preghiera di Giosafat (2Cr 20:5-12) e della chiesa di Gerusalemme (At 4:24-30) ne sono esempi illuminanti.

 

 

In quali forme ci rivolgiamo a Dio

 

Il nostro parlare a Dio, che deve dunque essere una esposizione onesta di quello che viviamo, giudicato e valutato per mezzo della Parola di Dio, deve comprendere la confessione dei peccati.

La conversione di una persona ha luogo con la confessione: la confessione a Dio dei propri peccati e la confessione di Gesù come Signore (Sl 32:5; At 19:18; Ro 10:9). Ma, dal momento che il credente lotta tutti i giorni della sua vita contro il peccato e succede che cada ancora in esso, si rende frequentemente necessaria, durante il corso del suo cammino terreno, la confessione dei peccati al Padre celeste.

 

È scritto così:

• “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1Gv 1:8-9)

• “Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà misericordia” (Pr 28:13).

 

Sebbene in Cristo ogni peccato ci sia stato perdonato (Cl 2:13) e Dio non chieda più alcun “risarcimento” per i nostri debiti (Eb 10:18), ogni giorno dobbiamo esaminarci e confessare a Dio i nostri peccati per ottenere la pace del suo perdono paterno.

È il tipo di perdono di cui abbiamo bisogno non per modificare la nostra “posizione” davanti a Dio, che è già stabilmente quella di “perdonati”, ma per ripristinare la “relazione” di figli chiamati all’ubbidienza, pertanto soggetti, a seconda del tipo di condotta tenuta, all’approvazione o meno del proprio Dio e Padre.

 

Il Salmo 51 è uno dei testi che meglio ci mostra come debba andare a Dio un credente pentito e ravveduto dei propri peccati. La confessione sincera non contempla scuse. È dire insieme a Dio che ciò che abbiamo fatto (e dobbiamo essere precisi, non vaghi) è proprio peccato, iniquità, colpa.

Nella confessione, come vediamo anche nelle preghiere di Neemia (Ne cap. 1) e di Daniele (Da cap. 9), la preghiera si intreccia con la Parola di Dio, perché è quest’ultima a farci comprendere i nostri errori. Così, c’è da aspettarsi che l’ascolto della Parola di Dio, come specchio che ci fa vedere la nostra condizione (Gm 1:20), sia spesso la molla che ci spinge a metterci in preghiera non soltanto per ringraziare Dio di averci parlato, ma anche per umiliarci ai suoi piedi con cuore rotto e invocare il perdono (Da 9:3; Ab 3:2).

 

Attraverso la preghiera esercitiamo poi il compito di sacerdoti che offrono a Dio sacrifici spirituali (1P 2:5).

In Apocalisse 5:8 “le preghiere dei santi” vengono viste come profumi per il Signore. Qui parliamo di quell’aspetto della preghiera che è l’offerta a Dio. La preghiera come offerta del credente a Dio ha varie sfumature: il ringraziamento, la lode, l’adorazione.

 

Con il ringraziamento apprezziamo Dio per i suoi doni. Dobbiamo rendere grazie in ogni cosa (1Te 5:18). Più si conosce il Signore, più si impara a non dare nulla per scontato ma a riconoscere tutti i giorni, anche nelle piccole cose, l’opera del perfetto Donatore (Gm 1:17).

Il mondo è caratterizzato dall’ingratitudine (2Ti 3:2), ma i figli di Dio devono essere diversi! A più riprese troviamo delle esortazioni che riguardano il ringraziamento nella lettera ai Colossesi: dobbiamo ringraziare con gioia (1:12); dobbiamo abbondare nel ringraziamento (2:7); dobbiamo ringraziare in ogni cosa e per mezzo di Gesù (3:15,17) e dobbiamo perseverare nella preghiera con rendimento di grazie (4:2).

 

Con la lode ci rivolgiamo a Dio apprezzandolo soprattutto per le sue opere. Le parole di Ebrei 13:15 ci chiamano all’offerta a Dio di una lode incessante: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome”. Possiamo lodare Dio con canti, con preghiere e dichiarando agli altri le qualità di Dio e delle Sue opere.

Con la lode ci esprimiamo osservando come le opere di Dio siano meravigliose, come i suoi progetti abbiano avuto puntuale realizzazione, quali benefici immensi esse producono. I Salmi ci offrono in questo un aiuto efficace, presentandoci la volontà, l’impegno, le espressioni di chi li ha scritti celebrando Dio.

L’autore del Salmo 45 aveva l’ambizione che la sua bocca fosse capace di celebrare il re come la penna di un abile scrittore, in grado di trovare i versi migliori: che bel pensiero potere lodare Dio così!

 

Con l’adorazione, invece, apprezziamo Dio soprattutto per la sua persona. In effetti, a differenza del ringraziamento e della lode che sono fatti essenzialmente di parole, l’adorazione è piuttosto un atteggiamento del nostro intero essere. Spesso il silenzio (un silenzio di rispetto, di timore, di contemplazione) è adatto ad accompagnare l’adorazione. Adorare è prostrarsi ai piedi di Dio glorificandolo. Il Padre cerca adoratori autentici (Gv 4:23-24): li troverà in noi?

 

Infine, la preghiera è, nella sua accezione più classica, una richiesta o intercessione presso Dio.

Chi di noi non avverte dei bisogni, delle paure, dei desideri? Molti si affidano a uomini per soddisfare anche quello che va oltre le possibilità di intervento dell’uomo. Per ogni ambito si fanno avanti, intorno a noi, sedicenti specialisti pronti ad offrire aiuto, non senza che per ottenerlo si paghi un caro prezzo.

Dobbiamo dire a noi stessi, come il salmista, “Il mio aiuto vien dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra” (Sl 121:2). In altre parole, dobbiamo decidere di volerci affidare a Dio. Che si tratti delle piccole o delle grandi cose, non possiamo fare a meno di Dio, e invocarlo sarà la dimostrazione che vogliamo riconoscerlo Signore su tutto. Lui conosce già i nostri desideri, eppure ci ordina di fare conoscere a lui le nostre richieste in preghiere e suppliche (Fl 4:6).

Dobbiamo sforzarci di esprimere, rendere note a Dio le richieste, esse cioè non devono rimanere semplicemente dei pensieri. Un discepolo di Cristo, si chiederà presto: “È giusto chiedere questo…?”. Così investigherà la Parola di Dio per capire la sua volontà, e torniamo a dire che preghiera e meditazione delle Scritture si intrecciano e si completano a vicenda. Conoscere la volontà di Dio è importante per pregare, ma è anche vero che pregare è importante per conoscere la volontà di Dio.

Quando poi le richieste diventano intense perché frequenti e fervide, si tratta di suppliche. E quando invece le richieste a Dio verranno innalzate non per noi stessi, ma a favore di altre persone, quella sarà una intercessione. Non c’è persona per cui non dovremmo pregare (1Ti 2:1); dovremmo pregare anche per chi ci dovesse maltrattarci o perseguitarci (Mt 5:44; Lu 23:34).

 

 

La perseveranza nella preghiera

 

• “Non cessate mai di pregare” (1Te 5:17).

• “…pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef 6:18).

 

Le esortazioni contenute in questi versetti sono di facile comprensione. Una delle difficoltà che si incontra spesso quando ci si propone di essere fedeli al Signore nel pregare è proprio quella della costanza. Del resto, il Signore ci esorta ripetutamente proprio perché conosce i numerosi ostacoli che incontriamo.

A volte, la pigrizia ci assale. Troppe cose ci distraggono e ci fanno addirittura dimenticare che pregare è importante.

Altre volte, pensieri e sentimenti ci sembrano non adatti per metterci in preghiera.

Oppure, un senso di dovere ci coglie per poco tempo e allora diciamo al Signore qualche frase, ma senza troppa concentrazione.

O ancora, pochi minuti e poi smettiamo perché pregare ci sembra enormemente faticoso. In effetti, pregare è un esercizio spirituale faticoso. Ma è necessario fare violenza sulla nostra inclinazione alla tiepidezza e all’indifferenza, altrimenti ci incammineremo inesorabilmente verso la debolezza ed il declino spirituali. Dobbiamo verificare se, quanto e come preghiamo. Quello che abbiamo letto in Efesini 6:18 è che dobbiamo fare continuamente questo esame di noi stessi, perché ne va della nostra vitalità spirituale e della nostra forza nel combattimento cristiano.

Ci dovremmo porre delle domande del tipo: “Ho pregato oggi? Era una preghiera impegnata o rituale? Per quali ragioni sto trascurando questo esercizio? A che cosa posso rinunciare per trovare il tempo per pregare? Sono cresciuto nel modo di pregare rispetto ad un anno fa?”

Con quale frequenza dobbiamo fare queste verifiche? “Con ogni perseveranza”, il che mi suggerisce che lo dovremmo fare tutti i giorni. Ci sono periodi in cui sembra che pregare sia più facile, forse perché alcune difficoltà ci spingono a cercare Dio con più forza, oppure perché abbiamo trascorso un tempo di intensa ed edificante comunione con altri credenti.

In altri periodi, invece, ci sentiamo freddi e non inclini a pregare. In quei momenti dobbiamo ricordare che il Signore ci chiama alla preghiera non solo attraverso inviti, ma anche attraverso ordini.

È proprio quando “non ce la sentiamo” di pregare che ne avremmo tanto bisogno, perché l’inganno dell’autosufficienza sta bussando alla nostra porta. Dobbiamo ubbidire perché il Signore ce lo comanda, “e i suoi comandamenti non sono gravosi” (1Gv 5:3). Non ignoriamo che è una seduzione di Satana il tenerci lontani dal Signore affinché non alimentiamo la nostra vita spirituale. Il suo suggerimento è di non pregare perché non siamo nella condizione giusta, o perché non ne siamo degni. Resistiamogli sottomettendoci a Dio, ed egli fuggirà da noi (Gm 4:7).

 

In queste riflessioni non ci addentriamo in altri aspetti che riguardano la preghiera, come la guida dello Spirito Santo, l’esaudimento o la preghiera comunitaria, semplicemente perché non sono strettamente legati al tema generale di questi articoli.

Tuttavia, a conclusione di questa parte, possiamo senz’altro affermare che ancora prima dell’esperienza di essere esauditi nelle nostre richieste, c’è un immenso beneficio per chi prega. È “la pace di Dio” che ci custodirà (Fl 4:7) preservandoci dall’ansia, ed è il cambiamento di noi stessi che, “contemplando come in uno specchio la gloria del Signore”, verremo “trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria” (2Co 3:18). Perciò, pur essendo chiamati a pregare “nel segreto”, diventeranno visibili ed evidenti in noi le conseguenze benedette di esserci presentati al trono della grazia.