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Una verità da annunziare e da proteggere

 

Non v’è alcun dubbio che l’incarnazione sia uno dei fatti salienti della verità cristiana. Quando l’apostolo Paolo, cerca di istruire il suo fidato giovane collaboratore Timoteo, che aveva lasciato ad Efeso per presidiare la verità che in tale chiesa era minacciata, gli fa un elenco di cose che titola “il mistero della pietà” e scandisce la lista, iniziando proprio dall’incarnazione:

 

“Senza dubbio, grande è il mistero della pietà: colui che è stato manifestato in carne, è stato giustificato nello Spirito, è apparso agli angeli, è stato predicato fra le nazioni, è stato creduto nel mondo, è stato elevato in gloria” (1Ti 3:16).

 

Questa è la “verità” di cui “la chiesa del Dio vivente” è “colonna e sostegno” (v. 15).

Anche l’apostolo Giovanni ha istruito i suoi lettori a presidiare la verità dell’incarnazione e lo fa con un linguaggio così forte, chiaro e netto da non lasciare dubbi sull’importanza che attribuiva a questa verità.

Egli inizia attaccando: “Chi è il bugiardo se non colui che nega che Gesù (l’uomo) è il Cristo? Egli è l’anticristo, che nega il Padre e il Figlio (Dio) (1Gv 2:22).

 

Poi istruisce i suoi lettori a non essere creduloni verso chi nega tale verità:

“Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio; perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo” (1Gv 4:1-3).

 

Infine sembra quasi violare la privacy domestica quando intima ai suoi lettori di non ospitare chi reca una verità opposta a quella dell’incarnazione:

 

“Poiché molti seduttori sono usciti per il mondo, i quali non riconoscono pubblicamente che Gesù Cristo è venuto in carne. Quello è il seduttore e l’anticristo. Badate a voi stessi affinché non perdiate il frutto delle opere compiute, ma riceviate piena ricompensa. Chi va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non ha Dio. Chi rimane nella dottrina, ha il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non reca questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo. Chi lo saluta, partecipa alle sue opere malvagie” (2Gv 7-11).

 

Insomma, il Nuovo Testamento usa parole alquanto incisive quando c’è in ballo questa dottrina, sostenendo che tale verità non può essere negata, perché Gesù Cristo era veramente “la parola diventata carne” (Gv.1:14).

Domande motivate o domande leziose?

 

L’incarnazione è la fusione dell’eternità col tempo, del trascendente con l’immanente, dell’immutabile col divenire, dell’assoluto con il circostanziato, dello Spirito con la carne, di Dio con l’uomo.

Egli doveva rappresentare tanto Dio, da poter salvare e tanto l’uomo, da poter mediare la salvezza (1Ti 2:5; Eb 2:17).

Egli doveva essere la linea di un orizzonte più vicino, dove cielo e terra si congiungono e si compenetrano, dove il cielo scende sulla terra, affinché, chi è sulla terra, possa andare in cielo: “Io sono la via la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14:6).

 

Tuttavia, se da un lato, questa è una dottrina che non può essere negata, in tempi recenti sta sempre più diventando rilevante una questione che si colloca al polo opposto, cioè: fino a che punto tale dottrina dev’essere affermata?

Fin dove ci si deve spingere per dare rilevanza all’incarnazione di Gesù Cristo? Cosa vuol dire che Gesù Cristo è venuto in carne?

Quali aspetti della sua umanità dobbiamo considerare rilevanti per capire il significato e il valore dell’incarnazione?

Ci sono aspetti che hanno un ruolo secondario e quindi vanno tenuti sullo sfondo?

Oppure tutto dev’essere assolutizzato e portato in primo piano quale elemento fondante dell’incarnazione stessa?

Ad esempio, perché Gesù Cristo si è incarnato maschio e non femmina?

Perché si è incarnato Ebreo e non Greco?

Perché fece il falegname e non il pescatore?

Perché parlò l’aramaico e non il latino?

Perché abitò a Capernaum e non a Gerusalemme?

Perché, assunse una condizione umana determinata piuttosto che un’altra?

 

A prima vista, tutte queste domande parrebbero delle questioni leziose, cucinate con la cavillosa acribia della miglior (o peggior?) scolastica, e servite dal miglior chef delle distinzioni raffinate che la storia ricordi, il “dottor sottile”, però, come quando si divise l’atomo non se ne capirono subito tutte le implicazioni, così spero che la pazienza ripagherà chi leggerà fino in fondo.

 

 

Comprendere l’incarnazione

 

Si potrebbe anche troncar il discorso e tirar dritto considerando che la questione rimane, anche nel caso il Signore avesse scelto di nascere donna piuttosto che maschio, greco, piuttosto che ebreo, prendendo insomma una condizione determinata piuttosto che un’altra e questa considerazione potrebbe spingerci a dire che trattasi di questione senza soluzione, o questione non rivelata del “mistero della pietà” (1Ti 3:15), oppure assimilabile a quelle “genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni invece di promuovere l’opera di Dio, che è fondata sulla fede” (1Ti 1:4).

 

Ma è proprio qui il punto: solo quando riflettiamo sulla questione e capiamo che ci sono elementi dell’incarnazione e dell’umanità di Cristo che il Nuovo Testamento lascia volutamente sullo sfondo, solo quando capiamo quali sono questi elementi, solo allora possiamo evitare di sopravvalutarli, affermando cose che non fanno parte dell’insegnamento apostolico e che finiscono per distorcere la dottrina stessa dell’incarnazione e altre dottrine.

James I. Packer, nel suo classico “Conoscere Dio”, giustamente osserva:

“È dalla miscredenza, o magari da una fede inadeguata, intorno all’incarnazione, che di solito sorgono difficoltà su altri punti del racconto evangelico. Ma una volta compresa l’incarnazione come una realtà, gli altri ostacoli spariscono”. Così, si può ad esempio affermare, che una inadeguata concezione dell’incarnazione può avere dei riflessi negativi sulla nostra identità cristiana, sul nostro essere discepoli e sulla Imitatio Christi.

Ad esempio, se do troppa rilevanza al fatto che Cristo si è incarnato maschio, come posso non evitare una rappresentazione maschilista e sciovinista dell’incarnazione? Se siamo chiamati a “camminare come egli camminò” (1Gv 2:6), quali aspetti del suo cammino terreno devo prendere in considerazione per imitarlo?

Quali aspetti della condizione determinata in cui si è incarnato e ha vissuto devono o dovrebbero influire sulla mia identità di cristiano e suo discepolo?

Avrei dovuto rimanere scapolo, perché lui non si è mai sposato?

Questi esempi mostrano che la questione non è poi così leziosa ed irrilevante, ma acquista vie più rilevanza, man mano che ci rendiamo conto che è strettamente legata alla nostra identità di discepoli e cristiani.

La questione non è: perché Gesù è nato maschio e non femmina, o perché è nato ebreo e non romano, o perché chiamava suo padre abbà e non pater

La questione è: come dobbiamo considerare questi aspetti determinati e particolari della sua umana condizione e come dobbiamo metterli in relazione con la nostra identità e sequela cristiana? Cosa del Cristo incarnato e uomo devo considerare rilevante e normativo nella mia vita di fede?

 

 

Su cosa si concentrano i Vangeli?

 

Per poter rispondere a questa domanda, intanto è significativo rilevare che i Vangeli, che sono le fonti principali della storia di Gesù, getterebbero nello sconforto chiunque volesse scriverne una biografia, vista la carenza di dettagli, particolari e curiosità di cui si nutre e si sostanzia una biografia.

Ad esempio, com’era fisicamente Gesù? Era alto? Era basso? Era grasso? Era magro? Era biondo? Era bruno? Era bianco? Era nero?

Com’è stata la sua infanzia? Dormiva la notte? Quando ha iniziato a parlare? Con cosa giocava? Quando ha iniziato a leggere?

E la sua adolescenza? Quando ha iniziato a lavorare? Quanto leggeva? Aveva amici? Com’è stata la sua vita sentimentale? Che mansione aveva nella falegnameria del padre (cfr. Mt 13:55; Mr 6:3)? Ecc.

Diverse cose che ci sarebbe piaciuto sapere non vengono dette e già questa è un’indicazione che non ogni particolare della sua umanità era rilevante ai fini della missione che doveva compiere. Anche se era necessario che l’Assoluto nascesse in una condizione determinata, perché questo era richiesto dal suo divenire uomo, non dobbiamo assolutizzare questa condizione, elevandola a parametro della nostra identità cristiana. Ecco perché dalla sua nascita al suo battesimo, quindi per circa trent’anni, i Vangeli hanno lasciato un vuoto inaccettabile per una biografia, vuoto che hanno cercato di colmare i cosiddetti “Vangeli dell’infanzia”, senza però riuscirvi.

 

I Vangeli si concentrano invece sul cammino di Gesù “verso Gerusalemme” (Mt 20:17; Lu 9:53) e il maestro stesso lega il discepolato al “prendere la croce” (Mt 10:38; 16:24; Mr 8:34; Lu 9:23). In quest’ottica dovremmo guardare anche i pochi dettagli biografici che i Vangeli riportano, ossia il suo essere nato maschio, ebreo, di lingua aramaica, il suo essere stato un falegname, il suo essere rimasto scapolo, ecc. Questi elementi determinati dell’umanità di Gesù, il teologo Alister McGrath li chiama “le particolarità dell’incarnazione”, che in alcun modo inficiano la sua missione salvifica e universale. Egli afferma molto significativamente:

“Ma la particolarità del sesso maschile del redentore non comporta in alcun modo una corrispondente limitazione sullo scopo della redenzione. Cristo era un ebreo; morì per redimere sia ebrei sia gentili. Cristo era maschio; morì per redimere sia maschi sia femmine. Gesù di lingua aramaica, reca la salvezza a chi ha parlato o parla aramaico, latino, inglese o cantonese. La sua nazionalità, insieme con il sesso, il gruppo sanguigno e il colore dei cappelli, non ha alcun peso nello scopo della redenzione … Scegliendo di entrare nella storia come uno di noi, inevitabilmente Dio si è presa la responsabilità, incarnandosi, di inserirsi in una specifica serie di circostanze storiche. Il Dio incarnato sarebbe stato dotato di nazionalità, cultura, sesso, lingua, gruppo sanguigno e colore di capelli; ma le particolarità dell’incarnazione devono essere contrapposte all’universalità della redenzione, resa in tal modo possibile. L’incarnazione fondamentalmente dichiara che Dio è diventato uno di noi per redimerci, e non che è diventato un maschio ebreo palestinese del primo secolo. Con l’incarnazione non è stata privilegiata alcuna priorità, né di cultura né di sesso né di lingua, e conseguentemente nessuno, di nessuna cultura o sesso o lingua può essere considerato un cristiano di ‘seconda classe’”.

 

 

Cosa è rilevante conoscere?

 

Alla domanda “Perché Gesù è nato maschio, ebreo e di lingua aramaica?” dovremmo dunque rispondere: è irrilevante!

Ciò che è rilevante è che Gesù è nato uomo, cioè con quell’identità umana che ha eguale valore sia per i maschi che per le femmine, sia per gli Ebrei che per i Greci, sia per i liberi che per gli schiavi, sia per i ricchi che per i poveri, sia per i vecchi che per i giovani, sia per i bianchi che per i neri:

“Qui non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o in circoncisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Cl 3:11 cfr. Gv 12:46-47; Ga 3:27-28; Ro 10:12).

Ed è interessante vedere come in alcuni casi, proprio chi aveva una condizione esistenziale diversa da quella determinata in cui Gesù si è incarnato, ha manifestato una maggior apertura alla sua persona e al suo messaggio. Vedi le donne che lo hanno accudito per tutto il suo ministero (Mr 15:41; Lu 8:3; 23:49,55), che lo hanno accompagnato sino ai piedi della croce (Mt 27:55; Mr 15:40) e alle quali Gesù ha dato, per prime, il privilegio di vederlo risorto (Mt 28:5, 9, 10). Leon Morris ha scritto:

“Vale la pena riflettere sul fatto che nei Vangeli non si parla mai di una donna la quale abbia agito contro di lui: i suoi nemici erano tutti uomini. Quale lezione per le femministe di oggi, che vedono nella mascolinità di Gesù una versione misogina dell’incarnazione! Vedi poi i non Ebrei, che, diversamente dagli Ebrei, hanno accolto il Vangelo, tanto che Paolo ha scritto: “Che diremo dunque? Diremo che degli stranieri, i quali non ricercavano la giustizia, hanno conseguito la giustizia, però la giustizia che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge di giustizia, non ha raggiunto questa legge” (Ro 9:30-31).

 

Fino a qualche tempo fa questo discorso poteva apparire scontato, ma poi si sono affacciati dei movimenti di pensiero che fanno dipendere molto dell’identità cristiana proprio da queste “particolarità”, talvolta, facendo leva su di esse e tal’altra, reagendo ad esse. Sono nate così diverse “teologie” che, coadiuvate da una nuova ermeneutica, pongono sotto accusa il cristianesimo storico, per aver trascurato elementi importanti, a loro dire, dell’identità cristiana. Solitamente si sostiene un ritorno alle radici del Nuovo Testamento, senza rendersi conto che questi affondano le loro presunte “radici” proprio in quegli aspetti che McGrath definisce a ragione, “le particolarità dell’incarnazione”. Si crea così un fraintendimento teologico che ha bisogno di ripensare l’ermeneutica, cioè i principi dell’interpretazione biblica, per farci vedere ciò che in duemila anni di storia, il cristianesimo non ha visto.

 

Un esempio è dato dalla “teologia femminista”, che tenta di reagire alla mascolinità di Cristo, reinterpretando i testi che ne parlano. Questa è una descrizione che ne dà una sua sostenitrice: “Gli scritti sacri rispecchiano la società in cui sono stati formulati. Il messaggio cristiano è stato codificato in scritti antropocentrici (il cui punto di riferimento costante è cioè l’uomo) e patriarcali. Non solo, ma nel corso dei secoli sono stati letti, studiati, commentati quasi esclusivamente da uomini. La teologia femminista, quindi, si propone di tornare alle fonti non solo con le diverse tecniche di lettura della ricerca moderna, ma anche con un occhio particolare alle donne… È vero che là dove le Scritture sono state lette o annunciate, hanno portato con sé, rafforzandola, una visione patriarcale del mondo, Ma è anche vero che per la teologia femminista le Scritture contengono elementi capaci di sovvertire quella visione del mondo e addirittura di liberarcene, elementi capaci di introdurre del nuovo e di aprirci alla presenza di Dio. Lo scopo dell’ermeneutica femminista, quindi, è di recuperare quegli elementi e di farli di nuovo parlare”.

 

Un altro esempio è dato dalla “teologia nera”, che tenta anch’essa di far leva su una particolarità dell’incarnazione, sul presunto colore della pelle di Cristo, sostenendo che un “Cristo nero”, contrapposto ad un “Cristo bianco”, meglio esprime quell’anelito alla liberazione di chi è oppresso.

 

Esiste poi un modo di intendere l’ebraicità di Gesù, che travalica il buon uso che se ne può fare nell’ermeneutica, e ne fa una questione di identità, un’identità senza più radici, che ha bisogno, si dice, di riscoprire le proprie origini ebraiche. La riconoscenza, la simpatia e il rispetto che normalmente dovremmo avere per le alterne vicende di un popolo che Dio ha scelto e per il quale ha ancora un programma che ci riguarda da vicino, si trasformano così in un criterio di valutazione della nostra identità e vocazione cristiana.

 

Anche qui possiamo ravvisare quel fraintendimento teologico che sopravvaluta una particolarità dell’incarnazione, cioè la nazionalità di Cristo, svalutando a cristiani di “seconda classe”, per usare le parole di McGrath, coloro che non rientrano in tale schema. La pericolosità di questo approccio è evidente: non solo usa impropriamente “ciò che è scritto”, ma va oltre, aggiungendo al Vangelo elementi estranei, che possono diventare ciò che gli apostoli, pur essendo Ebrei, hanno definito un “giogo” (At 15:10; Ga 5:1).

L’identità cristiana nasce alla croce

 

L’elemento distintivo dell’identità cristiana non è qualche particolarità dell’incarnazione, sia essa rivelata o non rivelata, attinente al genere o alla nazionalità di Gesù Cristo, ma la croce. La vita cristiana inizia con la croce: “Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita” (Ro 6:4). La vita cristiana prosegue con la croce: “Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Ga 2:20). L’esempio da seguire è quello della croce: “Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme” (1P 2:21).

Al centro della nostra identità c’è il Cristo che ha dato la sua vita per noi e nessuno ci deve defraudare di questo: “Dico questo affinché nessuno v’inganni con parole seducenti… Come dunque avete ricevuto Cristo Gesù, il Signore (non il maschio o l’ebreo), così camminate in lui; radicati, edificati in lui e rafforzati dalla fede, come vi è stata insegnata, abbondate nel ringraziamento” (Cl 2:4, 6-7).

A lui dobbiamo guardare, non più “da un punto di vista umano”, sia che ciò riguardi il suo essere terreno, sia che riguardi il nostro modo terreno di guardarlo, “perché siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e ch’egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Co 5:16,14-15). Concludendo, possiamo dire che le particolarità dell’incarnazione, sono state assorbite nell’universalità della missione di Cristo, dove ogni nostra particolarità è raggiunta e guarita, ma ogni tentativo di far riemergere quelle particolarità, significa recare danno al valore universale del Vangelo e quindi al nostro bene particolare.