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Rut: l’umiltà ricompensata

 

“Ma Rut rispose: «Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; poiché dove andrai tu, andrò anch’io; e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio». (…) Così fecero il viaggio insieme fino al loro arrivo a Betlemme. (…) Esse giunsero a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo” (Ru 1:16, 19a, 22).

 

Quando Rut decise di lasciare le campagne di Moab per andare a Betlemme con sua suocera Naomi, era una giovanissima vedova.

Tenendo conto dell’età alla quale ci si sposava all’epoca, aveva probabilmente poco più di vent’anni. Rut avrebbe potuto seguire il consiglio di Naomi (1:8-9): se fosse ritornata “a casa di sua madre”, avrebbe avuto buone probabilità di sposare un uomo del suo paese e di dare una svolta alla sua vita dopo il triste capitolo della prematura perdita del marito.

 

Invece, Rut scelse una strada ignota e sicuramente tutta in salita: scelse di andare con Naomi a Betlemme. Qui Rut non aveva alcuna sicurezza di trovare un nuovo inizio anzi, si prospettava una vita difficile per questa straniera. Eppure Rut scelse di stare con Naomi, quindi di partire, di lasciare il suo popolo e la sua famiglia di origine e tutto questo perché lei, soprattutto, aveva scelto il Dio d’Israele come suo Dio.

“Rut, la Moabita, disse a Naomi: «Lasciami andare nei campi a spigolare dietro a colui agli occhi del quale avrò trovato grazia». E lei le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare in un campo dietro ai mietitori; e per caso si trovò nella parte di terra appartenente a Boaz, che era della famiglia di Elimelec. (…) Così lei spigolò nel campo fino alla sera; batté quello che aveva raccolto, e ne ricavò circa un efa d’orzo. Se lo caricò addosso, entrò in città, e sua suocera vide ciò che aveva spigolato; e Rut tirò fuori quello che le era rimasto del cibo dopo essersi saziata, e glielo diede. (…) Lei rimase dunque con le serve di Boaz, a spigolare, fino alla conclusione della mietitura dell’orzo e del frumento. E abitava con sua suocera” (Ru 2:17-18, 23).

 

A Betlemme Rut non perse tempo, si rimboccò le maniche e andò a lavorare nei campi come spigolatrice, cioè raccogliendo le spighe cadute per terra accidentalmente mentre i mietitori raccoglievano il grano e ne facevano dei covoni. Il Dio d’Israele mostrava compassione nei confronti del povero e dello straniero concedendo loro, con un preciso precetto della legge, la possibilità di raccogliere ciò che restava ai margini dei campi o che cadeva per terra durante la mietitura (Lv 19:9-10).

 

Rut non sapeva ancora chi fosse Boaz, il suo diritto di riscatto su lei e Naomi, per cui si trovò “per caso” nei suoi campi, certamente per volontà divina ma non per sua propria ricerca. Questo dimostra che Rut non aveva premeditato espedienti e non aveva puntato sulla propria avvenenza o intraprendenza per attirare un interesse su di lei ed ottenere l’aiuto necessario.

Al contrario, Rut accettò di buon grado di lavorare umilmente, piegando la schiena sotto il sole cocente per raccogliere i rimasugli della mietitura. Il suo impegno ebbe da subito il favore di Boaz che si dimostrò benevolo nei confronti di quella ragazza che si considerava meno di una delle sue serve (2:13).

 

Ma Rut non si limitò a lavorare per ottenere qualcosa per sé, infatti condivise subito il frutto della sua fatica con sua suocera Naomi, di cui Rut si fece carico, non per un pesante senso del dovere ma con un sincero e profondo affetto.

 

La storia di Rut ha un lieto fine: Boaz riscattò Rut, che diventò sua moglie, e così quella ragazza moabita ebbe un posto nel popolo di Dio, addirittura nella stirpe più importante di Israele, quella da cui sarebbero discesi il re Davide e Gesù il Messia.

 

L’esempio che Rut ci ha lasciato è lì ad indicarci che la strada del lavoro umile, quello faticoso e disprezzato, è una strada che non dobbiamo rifiutare di percorrere se Dio la metterà davanti a noi.

Forse la dovremo praticare per pochi giorni, come Rut, forse molto più a lungo… a volte si tratta di piccole parentesi durante lo svolgimento del nostro lavoro e viene richiesta la nostra disponibilità per qualcosa che altri evitano…

In ogni caso Dio sarà lì con noi per sostenerci ed eventualmente aprire altre strade.

 

Ci sono uomini e donne che non accettano di abbassarsi a svolgere mansioni considerate di basso rango, piuttosto rimangono disoccupati e gravano a lungo su altri familiari.

Questo non è un comportamento consono ad un figlio di Dio, che in Cristo ha conosciuto l’umiltà incarnata e vissuta fino al massimo livello e che è chiamato a camminare “com’egli camminò” (1Gv 2:6).

 

Se l’alternativa al lavoro umile è la disoccupazione oppure essere scaltri e disonesti, la scelta da fare è evidente. Del resto, questa prontezza al sacrificio è richiesta anche nel servizio del credente, e il posto di lavoro può essere una buona palestra in tal senso.

Con le sue premure per la suocera, Rut è anche un punto di riferimento per chiunque deve assistere qualche parente. Spesso si dimentica che accanto ad un coniuge, ad un figlio, a genitori e suoceri, anziani o ammalati, ci sono familiari che si fanno in quattro per prendersi cura di loro. Ci sono genitori, mogli, mariti, figli, nuore e generi che spesso svolgono tanti servizi pratici non notati, un lavoro umile che richiede tempo, fatica e rinunce.

Chiunque è impegnato in questo modo sappia che Dio lo vede, lo conosce, lo apprezza e lo ricompenserà.

L’abbondante ricompensa che Rut ebbe ci incoraggia a rimboccarci le maniche e ad operare con umiltà e con fiducia nel Dio che non è mai debitore.

 

 

La ragazzina ebrea al servizio di Naaman:

misericordia in azione

 

“Naaman, capo dell’esercito del re di Siria, era un uomo tenuto in grande stima e onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui il Signore aveva reso vittoriosa la Siria; ma quest’uomo, forte e coraggioso, era lebbroso. Alcune bande di Siri, in una delle loro incursioni, avevano portato prigioniera dal paese d’Israele una ragazza che era passata al servizio della moglie di Naaman. La ragazza disse alla sua padrona: «Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che sta a Samaria! Egli lo libererebbe dalla sua lebbra!» Naaman andò dal suo signore, e gli riferì la cosa, dicendo: «Quella ragazza del paese d’Israele ha detto così e così»” (2Re 5:1-4).

In questo caso vengono dedicate pochissime righe al personaggio che prendiamo in esame. Eppure la forza del suo esempio è dimostrata da quello che accadrà a seguito della sua azione, cioè la guarigione di Naaman il Siro.

Spesso Dio si serve di piccole cose per attuare i suoi disegni. In questo frangente si servì della parola di una ragazza ebrea che lavorava come serva a casa di un generale dell’esercito dei Siri.

 

Ma perché quella ragazza si trovava lì? Era una prigioniera, ed era stata strappata al suo paese e alla sua famiglia durante una incursione dei Siri. Si potrebbe dire che questa situazione è l’opposto di quella di Rut: in quel caso c’era una straniera in Israele, mentre in questo caso c’è un’ebrea in paese straniero.

È evidente che questa ragazza si trova in una situazione difficile. Lei è una vittima innocente della lotta dei Siri contro Israele, non è un soldato che viene preso prigioniero in battaglia ma una giovane rapita e sfruttata soltanto perché fa parte del popolo da combattere.

 

Quindi, immaginiamo i suoi stati d’animo: paura, tristezza, avvilimento, odio…odio? Noi ci aspetteremmo di vedere da parte sua dell’odio nei confronti dei Siri, e quindi nei confronti dei suoi padroni che ben rappresentano i nemici in armi contro il suo popolo, essendone Naaman un importante generale. Ma di quest’odio non c’è traccia. Noi ci aspetteremmo che questa prigioniera, diventata serva come domestica alle dipendenze della moglie di Naaman, svolga le sue mansioni ingoiando bocconi amari dal mattino alla sera, vivendo il suo dovere come un inevitabile ma ingiusto obbligo, quindi senza spazio alcuno per costruire delle relazioni sociali. Invece non è così. Quando lei viene a sapere che Naaman è lebbroso, dice subito a sua moglie che a Samaria c’è un profeta (Eliseo) che potrebbe guarirlo e auspica che questo avvenga.

Il fatto che poi Naaman si attivi subito per andare a cercare il profeta fa pensare che la ragazza, grazie al suo comportamento, era stimata e godeva di credibilità da parte dei suoi padroni.

La ragazza ebrea, dunque, prova misericordia nei confronti del suo padrone malato e ne desidera il bene, per il quale si adopera.

Il semplice gesto di dire quella parola porterà quell’uomo a guarire dalla lebbra ma anche a riconoscere l’unicità del Dio d’Israele (2 Re 5:15).

Può darsi che mentre lavoriamo siamo così concentrati sull’aspetto tecnico-professionale del nostro impegno tanto da non vedere più che accanto a noi ci sono uomini e donne con necessità, difficoltà, ansie, combattimenti interiori.

 

Ma ci sono colleghi, superiori, sottoposti, clienti, fornitori, funzionari in carne e ossa come noi, con un corpo ed un’anima, il più delle volte senza Cristo e senza speranza.

Ci relazioniamo con loro limitandoci alle questioni strettamente lavorative o vediamo oltre? Ci limitiamo a considerare il titolare come pretenzioso, un collega scorbutico, un altro distratto e un altro ancora sregolato, oppure capiamo che queste persone, al di là delle caratteristiche umane di ciascuno, sono “pecore che non hanno pastore” (Mt 9:36)?

 

Per noi cristiani l’additare il profeta “che sta a Samaria” equivale senz’altro al parlare di Gesù, il solo che salva. Questo può avvenire in modo credibile quando, giorno per giorno, siamo sensibili alle situazioni di vita di chi ci è vicino mentre lavoriamo. La testimonianza del credente non può essere una sorta di incursione improvvisa resa esclusivamente in momenti evangelistici predefiniti.

Se le persone non vedono da parte nostra la compassione quando sono in difficoltà, come potranno pensare che spiegheremo loro il Vangelo per amore, quindi cercando il loro bene?

Al contrario, cercando il loro bene quotidiano essi capiranno meglio che desideriamo anche il loro bene eterno. Così, sarà opportuno avere una buona parola per un collega in crisi con la moglie, per il capo che ha il genitore ammalato, qualcun altro ammalato egli stesso, un altro ancora disperato per la ribellione del figlio e molto altro.

 

Quando Neemia, esule, seppe dell’umiliazione in cui versava Gerusalemme, fu profondamente triste e questa tristezza fu notata dal re Artaserse presso il quale egli serviva.

Questi gli chiese: “Perché hai l’aspetto triste? Eppure non sei malato; non può essere altro che per una preoccupazione” (Ne 2:2).

Sappiamo che proprio dall’interesse del re nei confronti di Neemia scaturirà la possibilità del suo viaggio a Gerusalemme e la ricostruzione che seguì.

Se rivolgessimo la stessa domanda a chi ci è vicino giorno dopo giorno mentre lavoriamo, si aprirebbero tante occasioni di dialogo e di ascolto che troverebbero un atteggiamento ricettivo da parte degli altri nei confronti della nostra testimonianza di Gesù Cristo. Ovviamente non si deve perdere tempo in chiacchiere trascurando il proprio dovere, ma essere “sempre pronti a render conto della speranza che è in noi” (1P 3:15).

 

Dopo aver indicato ad un collega un bravo medico, o aver detto che preghiamo per lui, o aver semplicemente ascoltato uno sfogo impetuoso, o aver invitato a cena chi è solo, sarà senz’altro più facile parlargli di Cristo. Se in noi ci sono occhi pieni di compassione, troveremo tante piccole opportunità per fare del bene.

Che possiamo avere la stessa misericordia operante di quella ragazza al servizio di Naaman, il cui piccolo contributo fu assolutamente determinante.