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Introduzione

 

Dopo il suo ingresso in Gerusalemme sul puledro, osannato dalla gente, Gesù, Figlio di Davide, fece sentire la sua autorità nel tempio. Ormai i capi religiosi della nazione erano schierati ufficialmente contro di lui e Gesù non risparmiò parole di dura critica nei loro confronti, a motivo del loro comportamento ipocrita (si veda Mt 23).

La Pasqua quell’anno assunse un significato particolare per Gesù in quanto egli stava per compierla (Lu 22:16). Alla luce di questo fatto, durante la commemorazione della liberazione dall’Egitto, egli istituì una commemorazione di se stesso quale Redentore (vv. 19-20).

Poi si mise a parlare a lungo con gli Undici 
(i Dodici, meno Giuda Iscariota) sulla natura del loro futuro rapporto con lui, dopo l’ascensione (Gv 13–17), prima di condurre il gruppo al giardino del Getsemani dove si lasciò arrestare 
(Gv 18:1-11).

La sua ora era giunta.

 

 

L’autorità di Gesù

 

Leggendo i racconti dell’attività di Gesù a Gerusalemme, durante i primi giorni della settimana della sua passione, si rimane colpiti dalla sua singolare autorità e franchezza (Mt 21:12–25:46). Pur sapendo che il Sinedrio aveva deliberato a farlo condannare a morte, Gesù non fece nulla per frustrare tale disegno, anzi, il suo operare rese ancora più duro il cuore dei suoi avversari, anche se le sue risposte alle domande trabocchetto lasciarono tutti stupiti e disarmati (21:12–22:40).

Infine è Gesù stesso a fare una serie di domande, chiudendo definitivamente la bocca ai suoi avversari (Mt 22:41-46). Il discorso che ne seguì, in cui Gesù condannò gli scribi e i farisei, accusandoli di ipocrisia, non poteva che acuire la loro ira (Mt 23).

 

È evidente che Gesù si muoveva sapendo che era giunta “l’ora” per cui era venuto nel mondo. La franchezza con cui parlava e agiva in questi ultimi giorni del suo ministero pubblico, gli permise, durante l’infame processo intentatogli dagli uomini, di svelare ulteriormente la colpa dei capi per non aver prestato attenzione alla sua parola (Gv 18:19–21).

 

 

La Pasqua ebraica e il nuovo patto

(Lu 22:14-23)

 

La menzione dei preparativi del luogo in cui Gesù avrebbe celebrato la Pasqua con i suoi futuri apostoli sottolinea l’importanza dell’occasione nella storia della salvezza. La lunga attesa di una liberazione più grande di quella sperimentata da Israele al tempo di Mosè, che trovava nuovo stimolo ogni anno in occasione della ricorrenza della Pasqua, stava per finire. In questo contesto assumono particolare importanza le dichiarazioni fatte da Gesù in occasione dell’istituzione di una commemorazione che riguardava la sua persona.

Luca ce ne dà il resoconto più completo.

 

Gesù disse ai discepoli:

“Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio” (Lu 22:15-16).

Qui Gesù mette la sua morte imminente in relazione con il compimento della Pasqua nel regno di Dio. Poi, dopo la menzione di alcuni dettagli che riguardano lo svolgersi della Pasqua ebraica, Luca riporta le prime parole dell’istituzione di ciò che Paolo chiamerà “la cena del Signore” (1Co 11:20). Eccole:

“Poi [Gesù] prese del pane, rese grazie e lo ruppe, e diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me»” (Lu 22:19).

Gesù si sarebbe sacrificato in modo vicario, come indicano le parole: dato per voi. I suoi discepoli non lo dovevano mai dimenticare.

 

Alle prime parole di istituzione, Gesù fa seguire una spiegazione del nuovo valore che attribuisce al calice. Si tratta di una delle dichiarazioni più importanti di tutto il Nuovo Testamento: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (v. 20). Qui Gesù indica in quale modo ebbe inizio la nuova epoca a cui si riferiva in precedenza dicendo: “Io edificherò la mia chiesa” (Mt 16:18). Infatti, spargendo il suo preziosissimo sangue sulla croce, Gesù creò il fondamento del nuovo pattoprofetizzato da Geremia, con le sue promesse grandissime di perdono eterno e di una nuova relazione con Dio (Gr 31:31-34; cfr. Eb 8:1 – 9:15).

Dopo il compimento di questo sacrificio ebbe inizio il tempo in cui, in piena sintonia con le predizioni dei profeti d’Israele, nel nome di Cristo “si sarebbe predicato il ravvedimento per il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme”(Lu 24:47).

 

 

I discorsi del cenacolo (Gv 13–17)

 

Giovanni, nel suo Vangelo, non fa menzione dell’istituzione della cena del Signore, già ampiamente documentata nei Vangeli sinottici; piuttosto si sofferma sulle conversazioni che Gesù ebbe con gli undici futuri apostoli seguite dalla preghiera sacerdotale di Gesù: avvenimenti che ebbero luogo nel Cenacolo nelle ore che precedettero la camminata verso il giardino di Getsemani. Queste conversazioni avvennero al termine della celebrazione della Pasqua, dopo che Gesù aveva dato ai suoi discepoli una lezione pratica di amore (Gv 13).

Visto che “un discepolo non è più grande del maestro; ma ogni discepolo ben preparato sarà come il suo maestro” (Lu 6:40), dobbiamo seguire l’esempio di Gesù quando vestì “i panni del servo” e lavò i piedi dei discepoli. Secondo il divino Maestro, soltanto se ci comportiamo così il mondo potrà identificarci come appartenenti alla cerchia dei suoi discepoli (Gv 13:2-17, 34-35).

 

Dopo aver fatto e commentato questo gesto Gesù, vedendo lo stato di turbamento dei discepoli, passò a parlare di quello che sarebbe stato il loro rapporto con lui dopo la sua ascensione. Vedendo la loro tristezza alla menzione del suo imminente ritorno al Padre (14:1; 
16:5-6), insistette che i suoi apostoli mantenessero una fede incrollabile in lui, e parlò del nuovo rapporto che avrebbero avuto con lo Spirito Santo dopo l’ascensione. Disse:

“Io vi dico la verità: è utile per voi che io me ne vada; perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma se me ne vado, io ve lo manderò. Quando sarà venuto, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (16:7-8).

Lo Spirito Santo avrebbe permesso agli apostoli e a tutti i futuri discepoli di “dimorare in Cristo” e di essere suoi testimoni efficaci (14:16-17; 15:26-27; At 1:8). Il rilievo che Cristo diede alla futura opera dello Spirito corrispondeva in modo preciso all’annuncio di Giovanni il battista: “Lui [Cristo] vi battezzerà con lo Spirito Santo” (Mr 1:8). Ciò che Gesù affermò relativamente al nuovo rapporto con lo Spirito Santo conferma che gli eventi culminanti della sua vita avrebbero determinato l’inizio di una nuova epoca nella storia della salvezza (Gl 2:28-32; At 2:4-8, 16-21, 33).

 

 

A proposito dell’arresto e del processo

 

Seguendo le tappe della storia dell’arresto di Gesù e del successivo processo, si può notare una costante: sebbene si trattasse del momento più critico della sua vita, tutti quelli che vengono in contatto con il Cristo, per arrestarlo o interrogarlo, ne rimangono in qualche modo sconvolti e processati, loro, non lui!

 

1. Nel giardino di Getsemani (Gv 18:1-12).

 

La mossa notturna (Gv 13:29-30) della coorte romana (presumibilmente alcuni dei circa seicento soldati che componevano una coorte) e delle guardie mandate dai capi sacerdoti e dai farisei, guidate da Giuda Iscariota, fu determinato dalla decisione di prendere Gesù con inganno (Mt 26:4-5) perché Gesù godeva dell’appoggio del popolo (Lu 22:1-2).

Questa triste compagnia sopraggiunse quando Gesù aveva appena terminato di pregare, sudando sangue (v. 44). La sua lotta in preghiera era servita come preparazione all’agonia fisica e all’alienazione dal Padre, pur di compiere il suo mandato di portare su di sé i peccati del mondo.

Reduce di questa terribile lotta, fu lui ad andare incontro a coloro che erano stati mandati per arrestarlo. Egli chiese alla banda chi stessero cercando; essi risposero: “Gesù il Nazareno”, al che Gesù rispose: “Io sono”, parole che non solo servirono per identificarlo con colui che diversi secoli prima era apparso a Mosè nel pruno ardente (Es 3:13-14; cfr. Gv 8:58), ma anche a far sentire la sua autorità personale (Gv 18:6). Infatti all’udire queste parole, i soldati, le guardie sentirono venir meno le forze e caddero a terra. L’episodio dimostrò la verità di quanto Gesù aveva detto: “Nessuno mi toglie la vita, la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10:18). L’uomo, con tutto il suo orgoglio e astuzia, non può nulla davanti alla onnipotenza di Dio.

 

2. Davanti ad Anna, il suocero di Caiafa

    (Gv 18:13–23).

 

Secondo la Mishna, una raccolta di materiale legale e procedurale dei Rabbini, pubblicato intorno al 200 d.C., un uomo non poteva essere condannato a morte prima di ventiquattro ore dopo essere stato processato. Quindi è possibile che l’interrogatorio di Gesù condotta da Anna (un sadduceo molto influente e, anche se non ufficialmente, sommo sacerdote da una quindicina di anni) serviva per dare un’appa-
renza di legalità alla procedura. Questa interrogazione avvenne in un’ora avanzata della notte. L’approccio adottato da Anna era ipocrita (vv. 20-21). Infatti egli faceva parte di coloro che “amarono la gloria degli uomini più della gloria di Dio” (Gv 12:43). Gesù, insistendo che non c’era più nulla da aggiungere a quanto aveva detto pubblicamente e che molti erano in grado di riferire, mise Anna e tutti i capi del popolo sotto accusa per non aver prestato attenzione alla sua parola (cfr. Gv 15:21-25).

 

3. Gesù davanti a Caiafa e il Sinedrio

    (Gv 18:24; Mt 26:57-68; Mr 14:53-65)

 

Si noti che Gesù venne condannato in base alla verità che egli stesso ammise riguardo a sé stesso (Mt 26:63-66), dopo che tutte le accuse dei “testimoni” erano risultate menzogne.

 

Il degrado del massimo organo giuridico dello stato giudaico diventa ancora più palese quando si considera la leggerezza con cui l’accusa viene stravolta nella fase successiva del processo, che vedeva Gesù davanti a Pilato. Mentre l’accusa mossa a Gesù nel Sinedrio era di natura religiosa (bestemmia contro Dio), quella (palesemente falsa, Mt 22:15-22) formulata per persuadere i Romani a condannarlo a morte, era di carattere politico (Lu 23:1-2).

 

4. Il rinnegamento di Gesù da parte di Pietro

    (Gv 18:15-18; 25-27).

 

È triste constatare che, pur di salvarsi la pelle, Pietro negò di conoscere Gesù, nonostante gli indizi contro di lui, compreso il suo accento 
(Mt 26:73) e l’episodio avvenuto nel giardino (Gv 18:26-27), avessero rimosso ogni ragionevole dubbio riguardo alla sua associazione con Gesù. È istruttivo notare che Pietro aveva insistito su una linea di azione che Gesù aveva già giudicato fallimentare (Lu 22:31-34).

Trovandosi fuori della volontà di Dio non poteva fare nulla per la causa di Cristo. Anzi la sconfessò, poi comprese quanto era miserabile, quando “il Signore, voltatosi” lo guardò. Quindi “andato fuori, pianse amaramente” (Lu 22:61-62).

 

 

La responsabilità di Pilato

e le vere cause della morte di Cristo

 

Per non trovarsi in dissapore con Cesare, Pilato agì contro la giustizia. I tentativi di svignarsela, prima mandando Gesù da Erode (Lu 23:5-12), poi tentando di liberarlo secondo l’usanza di liberare un carcerato in occasione della festa, infine lavandosene le mani (vv. 13-25), fanno da contorno patetico al colloquio fra Gesù e Pilato riportato in Giovanni 18:28-38.

Gesù re e il suo Regno corrispondono alla sfera della verità; per contro, Pilato e il potere che lui rappresentava appartenevano alla sfera di coloro che non vengono alla luce per paura che le loro opere malvagie vengano scoperte 
(Gv 3:18-21).

Infatti Pilato si sentiva a disagio, come tutta l’umanità che egli rappresentava, trovandosi a faccia a faccia con la verità personificata in Cristo. Però, pur di non perdere il favore dell’imperatore, decise di non allinearsi con la verità e così, sul piano umano, divenne il primo responsabile della morte di Cristo, insieme con Erode (At 4:27).

 

Ma sul piano divino, l’analisi delle cause della morte del Messia Servo, fatta dai membri della chiesa di Gerusalemme, appare molto diversa. Parlando a Dio in preghiera, oltre a includere tutti gli uomini nell’elenco dei responsabili umani della sua morte, la chiesa aggiunge: “per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero” (v. 28).

La volontà di Dio, che Gesù accettò, era che lui, come suo Figlio, per amore, diventasse il sacrificio propiziatorio, per poterci perdonare dei nostri peccati – la vera causa della morte di Cristo – e così accoglierci nella sua famiglia (1Gv 4:10; 3:2).

 

 

Per la riflessione personale

o lo studio di gruppo

 

1.  Come ha valutato Gesù gli scribi e i farisei del suo tempo? (Si veda Mt cap. 23)

 

2. Quale importanza aveva la celebrazione della Pasqua descritta in Luca 22:14-20, per Gesù e per i suoi discepoli?

 

3. Descrivi il rapporto di Gesù con Pilato, nello svolgimento del processo (Gv 18:28-38)

 

4. Che cosa apprendiamo dal modo in cui Gesù riabilitò Pietro dopo che questi aveva rinnegato il suo Maestro? (Gv 21:15-19)