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Introduzione

 

Nei pressi di Cesarea di Filippo Cristo aveva parlato della natura della sua missione e del progetto di edificare la sua Chiesa, un progetto avente a che fare con il giorno della salvezza, il periodo storico che ebbe inizio con la conclusione del suo primo avvento e si concluderà con il secondo. I Dodici avrebbero avuto un ruolo essenziale nell’avvio di tale periodo storico.

Queste rivelazioni trovarono un’eco nella conversazione che Gesù ebbe con Mosè e Elia sul monte della trasfigurazione, parlando dell’esodo che doveva compiere a Gerusalemme, una conversazione che mise in evidenza il punto a cui era giunto il ministero pubblico di Gesù. D’ora in poi il suo cammino sarebbe stato condizionato dalla prospettiva di morire a Gerusalemme per compiere la salvezza.

 

Mentre camminava verso Gerusalemme, Gesù preparava i Dodici per ciò che sarebbe successo dopo il suo trionfo. Inoltre mostrava grande compassione verso i ceti trascurati o disprezzati della popolazione. Inoltre insisteva sul prezzo da pagare per essere un suo discepolo. Sempre in questo periodo pronunciò alcune delle sue parabole più famose. Ci soffermeremo su una di esse per poi focalizzare la nostra attenzione sulla maniera in cui la profezia di Zaccaria relativa all’ingresso del re-Salvatore in Gerusalemme ebbe adempimento.

 

 

Gesù si mise in cammino risolutamente

 

È Luca in particolare a mettere in evidenza la direzione che ora prende il ministero di Gesù: il cammino verso Gerusalemme, per compiere la salvezza (Lu 9:51, 53). È come se, dal monte della trasfigurazione (9:31), Gesù guardasse costantemente avanti, vedendo il monte Calvario, la tomba vuota e l’evento dell’ascensione. Sul piano delle attività quotidiane, tutto si svolge alla luce del traguardo difficile, ma vittorioso, verso il quale il cammino di Gesù lo conduceva.

 

La frase “Gesù si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme” (9:51) non va inteso come un viaggio di sola andata a Gerusalemme. Infatti in Luca 10:38-42 Gesù è visto già nei pressi della capitale mentre molto più avanti nel racconto (17:11) lo troviamo nuovamente sui confini della Samaria e della Galilea. Da ciò deduciamo che, per Gesù, il nome “Gerusalemme” può avere un significato simbolico, oltre che geo-politico.

Infatti, soltanto quattro delle undici volte che “Gerusalemme” appare nei capitoli 9:51-19:28 di Luca si riferisce in senso stretto a Gerusalemme come luogo.

Per gli usi simbolici del termine, si veda 9:51; 9:53; 13:22; 13:33; 17:11; 18:31; 19:28. Di questi, risulta particolarmente significativo il penultimo brano: “Poi, [Gesù] prese con sé i dodici, e disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e saranno compiute riguardo al Figlio dell’uomo tutte le cose scritte dai profeti»” (18:31; cfr. Mt 16:21).

 

 

Le parabole di Gesù e come interpretarle

 

Molto del materiale peculiare al Vangelo di Luca si trova nella sezione 9:51-19:28 e illustra la compassione insegnata e praticata da Gesù. Quanto all’insegnamento su questo tema, spicca sia la parabola intitolata il buon Samaritano (10:25-37) sia quella del capitolo 15 riguardante le cose e le persone perdute.

 

La prima di queste parabole fu occasionata da una domanda posta da un non meglio definito “dottore della legge”.

Quest’uomo voleva mettere Gesù alla prova ma la contro-domanda di Gesù lo rimandò alle Scritture, le quali lo misero in grande difficoltà (v. 28). “Ma egli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?»” (v. 29).

Il suo problema, espresso in forma della domanda: “Chi è il mio prossimo?” (v. 29), era come potesse legittimamente delimitare il tipo di persone comprese nel concetto di “prossimo” e che era suo dovere amare. Sappiamo da Matteo 5:43 che certi Scribi del tempo di Gesù insegnavano: “Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico”, restringendo drasticamente il senso e l’applicazione del secondo grande comandamento.

 

Gesù rispose alla sua domanda con una parabola che creò terra bruciata intorno al suo tentativo di restringere il senso del secondo comandamento. Chi si è trovato a percorrere l’antica strada tortuosa che scende “da Gerusalemme a Gerico”, che attraversa un territorio arido con discese ripide e senza abitante, può comprendere bene il pericolo dei briganti e l’estremo bisogno di intervenire nel caso si dovesse verificare una disgrazia come quella capitata all’uomo della parabola, chiunque egli fosse.

Colpisce il ruolo che Gesù attribuì al Samaritano che, a differenza dell’agire egoistico del sacerdote e del Levita, ubbidì al comandamento in questione, offrendo generosamente l’aiuto necessario.

Dopo aver ascoltato la parabola, il “dottore della legge”, non riuscendo a giustificare l’agire del sacerdote e del Levita, dovette ammettere che era proprio l’agire del Samaritano quello conforme al secondo grande comandamento.

 

Adesso affrontiamo la questione di come interpretare questa parabola.

Chi la tratta come un’allegoria e cerca di trovare un significato in ogni dettaglio della storia rischia di perdere di vista il messaggio che Gesù voleva comunicare con essa. Ora ogni parabola, o parti di una parabola, come nei casi della parabola del seminatore (Mt 13:1-9,18-23) e quella delle cose/persone perdute (Lu 15), contiene soltanto un’idea o lezione principale.

Per sapere quale sia quest’idea o lezione, bisogna esaminare sia le circostanze in cui nasce la parabola sia i commenti o le domande posti al suo termine. Qualche volta anche il contesto nel libro biblico in cui la parabola viene riportata può servire a chiarire la lezione della parabola.

Nel caso della parabola del buon Samaritano, essa nasce dal tentativo, da parte di un dottore della legge, di restringere il senso del comandamento: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. La domanda posta da Gesù, dopo aver terminato il suo racconto, indica il messaggio che egli intendeva comunicare.

Va notato che, con questa domanda, Gesù capovolge la domanda iniziale del dottore della legge, che aveva sollecitato un chiarimento riguardo all’identità del suo prossimo.

Nella parabola l’identità di questo prossimo risulta così chiara da non lasciare alcun dubbio. Gesù, invece, ha sollevato la questione della mancata qualifica di vero “prossimo” che caratterizzava le due figure che avrebbero dovuto rappresentare la legge fedelmente e quindi mostrare compassione verso l’uomo che si era imbattuto nei briganti. A sorpresa è un Samaritano, invece, a ubbidire alla legge.

 

Ecco perché, al termine del racconto, Gesù si rivolse al dottore della legge con questa domanda: “Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni?” (v. 36). Il dottore della legge non riuscì ad ammettere che un Samaritano potesse qualificarsi come un vero “prossimo”, quindi anziché dire: “il Samaritano” risponde con un giro di parole: “Colui che gli usò misericordia”.

In ogni modo questa sua risposta e il commento di Gesù: “Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa” (v. 37), contengono un chiaro messaggio per tutti i tempi, sfidandoci a dimostrarci dei veri “prossimi” verso i bisognosi che capitano sul nostro cammino.

 

 

L’amore di Gesù e dei suoi discepoli

 

Il racconto di Luca ci informa che Gesù, ancor più del Samaritano, dedicava tempo a persone disprezzate dai capi dei Giudei (si veda 15:1-32 e 19:1-10). È noto che la visita del Maestro in casa di Zaccheo, capo dei pubblicani, fu malvista dalla gente di Gerico che considerava Zaccheo un “peccatore”.

Ma la visita non era fine a sé stessa; Luca ci fa sapere che questo “peccatore” diede prova di ravvedimento. Non solo, Gesù giustificò la sua decisione di entrare in questa casa con una dichiarazione significativa:

“Il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto” (19:10).

 

Le azioni di Gesù erano determinate, oltre che dall’amore per il prossimo, anche dal piano di Dio di portare la salvezza a tutti coloro che sono perduti, lo scopo primario del primo avvento di Cristo (Gv 12:47).

Durante questo periodo Gesù continuò a compiere delle opere potenti mentre i Dodici rimasero nella loro posizione privilegiata, stando con lui ed essendo da lui ammaestrati.

Intanto il numero di veri discepoli riprese a crescere, nonostante la radicalizzazione del concetto di discepolato ribadito più volte da Gesù (9:57-62; 14:25-35; cfr. 10:1-20). Evidentemente i discorsi “duri” avevano prodotto buoni frutti. Alla fine del suo ministero pubblico ci sarebbero stati almeno cinquecento veri discepoli che Paolo chiama “fratelli [in fede]” a cui il Cristo risorto apparse in una vola volta (1Co 15:6; cfr. Lu 19:37; At 1:15). Per avere un’idea equilibrata di questo periodo del ministero di Gesù, bisogna leggere non solo i relativi brani dei Vangeli sinottici ma anche le discussioni che Gesù ebbe con i Giudei di Gerusalemme in occasione delle ricorrenze festive (si veda Gv 7-10).

 

 

L’ingresso in Gerusalemme

 

Pochi giorni prima del suo ingresso ufficiale in Gerusalemme, Gesù operò un grande segno, risuscitando Lazzaro che era rimasto morto quattro giorni (Gv 11:17-46). Il miracolo ebbe grande risonanza sia a Betania che a Gerusalemme. Di conseguenza ci fu un notevole aumento nel numero dei seguaci di Gesù nel cuore della Giudea. Intanto il Sinedrio, non sapendo più che cosa fare, deliberò di far morire Gesù (Gv 11:45-53).

 

Precedentemente all’evento del suo ingresso in Gerusalemme, Gesù aveva spesso vietato alle persone di diffondere notizie sul suo conto (si veda Mr 1:40-44; 5:39-43; 8:22-26; 9:30-31) e, in particolare, aveva rifiutato di lasciarsi prendere per essere stato fatto re (Gv 6:14-15).

Per evitare ogni confusione in merito alle sue intenzioni, persino coloro che avevano compreso la sua identità messianica dovevano aspettare la sua risurrezione prima di dirlo ad altri (Mr 8:29; 9:9-10). In questo clima Gesù voleva che ognuno scoprisse personalmente la sua identità di Messia anziché andare dietro la folla a cui interessava soprattutto il regno concepito in termini politico-nazionalistici.

A questo proposito Gesù raccontò una parabola “perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per manifestarsi immediatamente”.

Tale parabola fa comprendere che la manifestazione del regno sarebbe avvenuta dopo una lunga assenza del Re, ovvero che il Re sarebbe stato manifestato in occasione del suo secondo avvento (Lu 19:11-27).

L’idea di un secondo avvento del Messia era nuova per le persone a cui Gesù parlava, quindi questa storia di un re, che doveva andare lontano per ricevere il suo regno per poi tornare, serviva per chiarire le loro idee.

A differenza dell’attesa di due Messia, per adempiere tutto ciò che l’Antico Testamento prevede, Gesù fece comprendere che il Messia è uno solo ma che deve venire due volte, una volta per compiere la salvezza e l’altra per giudicare e regnare.

 

L’arrivo di Gesù a Gerusalemme, pochi giorni prima della Pasqua, costituiva un momento importante nel ministero. Il suo ingresso trionfale in Gerusalemme viene descritto in tutti e quattro i Vangeli (Mt 21:1-11; Mr 11:1-10; Lu 19:29-44; Gv 12:12-19).

Dalla maniera in cui furono reperiti l’asina e il suo puledro è evidente che tutto era stato preparato con cura da Gesù. In seguito alla testimonianza della gente venuta da Betania, una folla proveniente da Gerusalemme gli uscì incontro.

Oltre a osannarlo, queste persone portarono anche dei rami di palma, il che conferì un carattere nazionalistico all’evento. Infatti, ai tempi della riscossa del piccolo popolo di Giuda sotto la guida dei Maccabei, la palma era diventata un simbolo della nazione stessa.

I suoi rami furono portati in alto sia nel giorno in cui i servizi del tempio erano stati ripresi nel 164 a.C. (1Maccabei 10:7) sia in occasione della celebrazione dell’indipendenza politica nel 141 a.C. (cfr. Gv 10:22).

Quindi la decisione popolare di portare tale simbolo in occasione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, seduto sul puledro, dimostrò il suo riconoscimento come il re messianico.

È importante notare che Gesù accettò questo riconoscimento. Anzi, quando alcuni Farisei lo invitarono a sgridare i suoi discepoli per quanto era successo, egli rispose: “Vi dico che se costoro taceranno, grideranno le pietre” (Lu 19:40).

In altre parole, era giunta l’ora in cui la sua messianicità regale doveva essere manifestata apertamente. Il testo della profezia che Gesù adempì (Za 9:9) prevedeva non solo che il Messia fosse montato sopra un asino, ma che fosse anche “giusto” e “Salvatore” o “portando salvezza”.

Israele doveva rendersi conto che questo Gesù, che parlava di dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti (Mr 10:45), era veramente il Messia, Figlio di Davide.

Ma, si potrebbe chiedere, perché si è manifestato in questa maniera all’ombra della croce, ovvero dopo che la sua condanna a morte era stata già deliberata dal sinedrio (Gv 11:53)? Non era certo casuale la giustapposizione della manifestazione di Gesù come il re messianico con la decisione del Sinedrio di condannarlo a morte.

 

C’era uno stretto rapporto fra la croce e l’inaugurazione del regno che Israele aspettava con impazienza. Gesù doveva morire in qualità di “leone della tribù di Davide” (Ap 5:5).

Né la fase attuale in cui il regno di Dio coesiste, in forma velata, con quello del maligno (Mt 13:36-43; cfr. 16:18), né la sua futura manifestazione universale, sarebbero state possibili senza il trionfo della croce.

La giustizia di Dio doveva essere soddisfatta affinché, dopo l’interruzione dei rapporti dell’uomo con Dio, causata dal peccato di Adamo, Dio potesse riammettere i peccatori come sudditi nel suo regno. Stava per morire il Re dei Giudei che è anche il Re dei re, non come vittima bensì come vincitore. Infatti non molto tempo prima Gesù aveva detto:

“Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore… Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest’ordine ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10:11,17-18).

 

 

Per la riflessione personale o lo studio di gruppo

 

1. Quale significato rivestiva Gerusalemme per Gesù durante l’ultima fase del suo ministero pubblico (Lu 9:51, 53; 13:22, 33; 17:11; 18:31; 19:28)?

2. Qual è la lezione principale della parabola (che comprende tre racconti) di Luca capitolo 15? Prima di rispondere a questa domanda, studia il modello di interpretazione della parabola del buon Samaritano fornita qui sopra.

Per scoprire la lezione principale della parabola di Luca 15, procedi come segue: prima leggi i vv. 1-2 per determinare la circostanza e poi valuta i commenti di Gesù al termine di ciascuno dei tre racconti (vv. 7, 10, 31-32). Ora definisci il messaggio principale della parabola, indicando a chi era indirizzato.

3. Perché l’ingresso in Gerusalemme sul puledro figura come uno degli eventi più significativi della vita di Cristo? (Si veda Gv 12:12-19).