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Il secolo dei migranti

 

Secondo uno dei rapporti (inizio estate 2015) dell’Agenzia per i migranti e per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), “Alla fine del 2014 erano 59,5 milioni le persone nel mondo costrette alla fuga a causa di persecuzioni, conflitti e violazioni dei diritti umani. Questo numero è il più alto mai registrato. Sono 8,3 milioni di persone in più rispetto alla fine del 2013: il più grande incremento annuo mai verificatosi in un solo anno. 19,5 milioni di queste persone erano rifugiati. Gli Stati membri dell’UE ospitano una quota relativamente piccola di questo numero. Alla fine del 2014, il principale paese ospitante nel mondo era la Turchia, seguita da Pakistan, Libano, Iran, Etiopia e Giordania. Il Libano ha ospitato di gran lunga il maggior numero di rifugiati in rapporto alla popolazione, con 232 rifugiati ogni 1.000 abitanti. In tutto il mondo, l’86% dei rifugiati sotto il mandato dell’UNHCR vive in paesi in via di sviluppo”.

 

Mentre scrivo, le cronache quotidiane portano continuamente alla ribalta notizie che concernono questo incredibile e drammatico fenomeno delle migrazioni di popolazioni dell’Africa e del Vicino Oriente verso l’Europa: non solo i barconi che affondano nel Mediterraneo, ora anche l’esplodere del corridoio balcanico e una serie di statistiche su numeri e flussi che stanno aumentando in continuazione. Per non parlare poi di altre notizie quali quelle dell’affiorante razzismo di cittadini che rifiutano di avere alla porta accanto i profughi alloggiati nell’ambito del programma SPRAR, le idiozie di certi politici nostrani nonché le prese di posizione dei governi dell’est Europa, alcuni fatti di cronaca in cui immigrati e profughi sono coinvolti nel male (Palagonìa: una coppia di anziani uccisa da un profugo ivoriano) e nel bene (l’ucraino che nel napoletano è stato ucciso sotto gli occhi della figlia di due anni, da banditi italiani, mentre cercava di sventare una rapina nel supermercato in cui era a fare la spesa).

 

E poi c’è stata la settimana storica, così come è stata definita la prima settimana di settembre 2015, quella in cui sono circolate le foto del piccolo Aylan, quella della svolta della Merkel e degli applausi ai profughi al loro arrivo alla stazione di Monaco di Baviera.

A fronte di tutto ciò non c’è dubbio sull’appropriatezza di questa definizione elaborata qualche decennio fa: il XXI secolo è il “secolo dei migranti”!

 

Ciò a cui assistiamo in Europa è però solo una parte dei giganteschi flussi migratori che includono il Sud-Est asiatico, direzione Australia, sempre l’Africa, direzione Sudafrica e il Sud America con particolare attenzione alla frontiera Messico-Stati Uniti.

Le riflessioni che seguono sono il frutto del progetto “Stranieri come noi” il cui resoconto è possibile leggere in questo stesso numero de IL CRISTIANO (pagg. 452-455). Esse vogliono indicare alcune ragioni bibliche per l’accoglienza, ragioni con le quali le Assemblee locali dovrebbero fare i conti.

 

 

Perché “come”?!?

 

Per iniziare, è importante sottolineare la particolarità del titolo dell’articolo in cui spicca la comparazione come (“Stranieri «come» noi”). Esso non è altro che la sintesi di Levitico 19:34, di cui diremo più avanti, e che recita:

“Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso…”. Esistono altre riflessioni teologiche che si occupano del problema della convivenza nelle società multiculturali, in ragione della grande mobilità e dell’interconnessione globale. Queste problematiche sono meglio espresse da un titolo come “Stranieri «con» noi”.

 

La riflessione condotta qui si appunta non sulla convivenza con gli stranieri, siano essi profughi, migranti, lavoratori extracomunitari, etc. ma sull’accoglienza e assume una rigorosa prospettiva ecclesiale, come già riconosceva uno studioso negli anni ‘70: “Il motivo per aiutare l’emigrante è diverso nella Chiesa rispetto a tutte le altre istituzioni” (De Jong).

Parliamo infatti di stranieri COME noi perché la comparazione nella quale lo straniero è assimilato a “noi” diviene la porta d’ingresso per rintracciare le motivazioni e le ragioni bibliche per l’azione dell’accoglienza in quanto Chiesa del Signore Gesù Cristo.

 

Non si tratta di un tema scontato e neanche di un tema che possa essere assimilato a quello più generale dell’attenzione per il prossimo indigente (Gc 2).

L’azione dell’accoglienza la intendo come un’azione tripartita:

• _l’esposizione dei profughi e dei migranti al Vangelo;

• _la necessità che i loro bisogni, dai più essenziali, come il cibo, il vestiario e l’alloggio, a quelli più complessi, ricevano risposte adeguate e “cristiane”;

• _il riconoscimento e l’espressione della comunione a tutti coloro che, fra di essi, sono nostre sorelle e nostri fratelli in Cristo, indipendentemente dalla loro provenienza ecclesiale.

 

In generale le indagini relative allo “straniero” partono dai brani veterotestamentari concernenti il suo status nei testi legali dell’Antico Testamento (a partire dal libro del Patto di Esodo 21-23). Tuttavia questo approccio risulta problematico per due ragioni interpretative.

In primo luogo esso presuppone una comunità del patto che in qualche modo doveva coincidere con la comunità sociale (l’Israele antico), cosa questa che è impensabile nella dispensazione del nuovo patto.

In secondo luogo i termini e i concetti veterotestamentari con i quali sono denotati gli stranieri subiscono una loro interna evoluzione durante il progresso della rivelazione biblica, il che implica un complesso lavoro di contestualizzazione biblico-teologico (si pensi all’approccio allo straniero che troviamo in un libro come quello di Rut e quello che troviamo in Esdra e Neemia).

Lo ripetiamo: noi cerchiamo le ragioni bibliche per l’accoglienza dello straniero tout court!

Ecco allora la proposta di tre di queste ragioni.

 

 

I profughi hanno un messaggio per noi

(ragione fenomenologica)

 

Per comprendere l’obbligo all’accoglienza che abbiamo come Chiesa del Signore e come comunità locali guardiamo per prima cosa alla fenomenologia delle migrazioni e del migrante. L’indagine “fenomenologica” per comprendere una realtà (fenomenologico = osservazione dei fenomeni per coglierne l’essenza) non è un’operazione astrusa. Il Signore Gesù stesso ha utilizzato un metodo del genere quando invitò i discepoli a decifrare la figura di Giovanni Battista: “Che cosa andaste a vedere nel deserto?… Ma che cosa andaste a vedere?… Ma che andaste a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, e uno più di un profeta…” (Lu 7:24sg).

L’obiettivo era che i discepoli, mediante l’analisi dei fenomeni che caratterizzavano la figura e il ministero di Giovanni, giungessero a coglierne l’essenza e da qui, per comparazione, fossero in grado di comprendere l’essenza del Figlio di Dio e l’atteggiamento della generazione che stava rigettando quest’ultimo.

 

Qual è dunque la fenomenologia del migrante?

Che cosa scopriamo quando facciamo l’inventario dei suoi atteggiamenti più fondamentali, dopo aver messo tra parentesi i nostri pregiudizi? Il migrante è un essere umano che per una qualche ragione abbandona temporaneamente o definitivamente una serie di reti all’interno delle quali si era svolta la propria esistenza fin dalla nascita.

 

Dobbiamo ricordare che i termini che a volte sono usati come sinonimi (profugo, immigrato, straniero, extracomunitario, rifugiato, richiedente asilo, etc.) indicano condizioni e individui differenti e hanno sensi non sovrapponibili, tanto che anche a livello di approccio legislativo fanno nascere procedimenti diversi. (Un’utile e agile mappa per orientarsi in questo campo è stata fornita dal quotidiano La Repubblica l’1 settembre 2015: “Emergenza migranti: 40 cose da sapere”).

 

L’impegno dei cristiani evangelici di tutto il mondo riuniti cinque anni fa a Città del Capo tenta di tracciare una mappa delle diverse circostanze in cui nascono le migrazioni e le comunità che definisce della “diaspora”:

“La gente oggi si sposta come mai era accaduto in precedenza… Il termine «diaspora» viene qui usato per indicare la gente che per qualsivoglia ragione si è spostata dalla terra in cui è nata. Grandi numeri di persone provenienti da molti contesti religiosi, compreso quelli cristiani, vivono nella diaspora: migranti in cerca di lavoro per ragioni economiche; gente costretta a spostarsi all’interno della stessa nazione a causa di guerre o di disastri naturali; profughi e rifugiati in cerca d’asilo; vittime di pulizia etnica; gente che sfugge alla violenza religiosa e alla persecuzione; quelli che soffrono la fame, variamente causata da siccità, inondazioni o guerre; vittime della povertà rurale che si spostano nelle città”.

 

 

La “fede” del migrante

 

Lo spostamento segna indelebilmente il migrante e il profugo, anche nell’ipotesi in cui un giorno tornerà nel proprio paese (immigrazione di ritorno).

Nella stragrande maggioranza dei casi abbiamo allora che il migrante è qualcuno che volontariamente intraprende un viaggio alla ricerca di condizioni di vita migliori o diverse. Egli si sposta nutrendo la speranza di approdare in un luogo diverso e migliore di quello che abbandona e che spesso si è rivelato tanto pericoloso da indurlo a intraprendere viaggi altrettanto pericolosi.

Molto spesso i sentimenti che animano i protagonisti di queste diaspore sono riassumibili in un vero e proprio atto di fede per il quale partono senza sapere dove andare, anche nell’ipotesi di conoscere la meta. Nel senso che pur conoscendo il paese di destinazione non sanno assolutamente nulla di ciò che accadrà loro durante il viaggio e all’arrivo.

Il migrante è dunque un uomo di fede, nel senso antropologico del termine.

Ecco un fondamentale dato fenomenologico: egli con il suo spostamento, e senza esserne forse totalmente consapevole, mette in scena una parabola di fede.

 

Come tutti gli stranieri e pellegrini egli si muove per raggiungere qualcosa o qualcuno (si pensi ai ricongiungimenti famigliari) senza poter contare su una custodia e una protezione nel proprio viaggio.

La fede che lo ha spinto a partire non protegge né custodisce la sua migrazione: i racconti dei profughi sull’attraversamento del deserto del Sahara, sulla permanenza in Libia esposti a ogni sorta di angheria, che diventano brutalità quando si ha a che fare con donne, e l’attraversa-
mento del Mediterraneo, non solo sono agghiaccianti ma testimoniano di una fede che spinge a partire ma che non custodisce questi strani e inconsapevoli “credenti”.

 

Qui abbiamo un primo punto sul quale possiamo innestare la nostra riflessione cristiana. Senza saperlo, non essendone consapevoli, i migranti con la loro condizione essenziale che abbiamo colto nell’atto di fede della partenza mettono in scena quella che in fin dei conti è l’identità più autentica dei credenti, vale a dire di essere un popolo di stranieri e pellegrini (1P 1:1, 2:11).

Questa condizione la rinveniamo nella professione di fede che si trova in Deuteronomio 26:5sg., a proposito dell’esperienza dei patriarchi:

“…e tu pronuncerai queste parole davanti al SIGNORE, che è il tuo Dio: «Mio padre era un Arameo errante…»”.

L’autore della lettera agli Ebrei interpreterà in maniera cristiana questa esperienza di Abraamo: “Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava (Eb 11:8).

L’atto di fede della partenza accomuna idealmente l’esperienza del profugo e l’esperienza della vita cristiana.

Sullo sfondo di questo parallelismo c’è l’esperienza dei patriarchi e del popolo dell’antico patto.

 

In particolare, per quanto concerne quest’ultimo, l’Israele antico, bisogna dire che la sua coscienza fu nuovamente interessata dalla condizione migrante nel momento dell’esilio (nonostante la connotazione di giudizio che aveva questo fenomeno); ma essa doveva anche segnare il popolo nel momento in cui era all’apice della sua potenza terrena (monarchia); ecco come si esprime Davide:

“Poiché chi sono io, e chi è il mio popolo, che siamo in grado di offrirti volenterosamente così tanto? Poiché tutto viene da te; e noi ti abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto. Noi siamo davanti a te stranieri e gente di passaggio, come furono tutti i nostri padri; i nostri giorni sulla terra sono come un’ombra, e non c’è speranza” (1Cr 29:14–15).

 

Tutto l’Antico Testamento è attraversato da questo filo rosso: il popolo di Dio, quale che sia la sua condizione sociale, deve considerarsi e vivere come un popolo di migranti in ragione di un atto di fede che lo costituisce tale.

Alcuni noti eventi dell’Antico Testamento mostrano poi chiaramente la vulnerabilità e la mancanza di sicurezza in cui viveva lo straniero, e si tratta di eventi che hanno una loro rilevanza ancora oggi: “la moglie strappata al marito e accolta nel harem di un re straniero, il timore per la propria vita, l’esperienza di litigi con la popolazione locale per l’uso di un pozzo, il pagamento di un prezzo esorbitante per un luogo di sepoltura, …” (Ryken).

I cristiani?_Forestieri e pellegrini!

 

Pietro nella sua prima lettera, usando in maniera preponderante l’esperienza del popolo d’Israele come metafora per l’esperienza cristiana alle prese con la persecuzione (2:9), senza che questo significasse sostituzione della prima con la seconda, riprenderà il linguaggio della coscienza migrante che Israele avrebbe dovuto conservare e l’applica alla chiesa.

 

Egli infatti parlerà di parepidemos (lo straniero che permane temporaneamente in un luogo che non è la sua patria) e paroichos (colui che in terra straniera vi risiede).

E il riferimento a questa condizione alla quale egli assimila i credenti del nuovo patto percorre tutta la sua lettera:

• 1:1 – forestieri dispersi;

• _1:3 – il tema dell’eredità conservata e verso la quale ci si sta dirigendo (custoditi);

• 1:13 – la predisposizione all’azione o al viaggio;

• 1:17 – il tempo del soggiorno terreno;

• 2:9, 10 – il popolo, riferimento a Esodo 19;

• 2:11 – stranieri e pellegrini;

• 2:21 – seguire le orme di Cristo;

• _2:25 – l’immagine del gregge raccolto sotto un pastore.

 

Ancor prima di rivolgersi ai testi prescrittivi dell’Antico Testamento che chiedono al popolo della vecchia alleanza di tener conto dello straniero, la ragione fondamentale per l’acco-
glienza pratica per noi cristiani sta dunque nel fatto che i migranti mettono in scena (fenomenologicamente), sotto i nostri occhi, la nostra stessa condizione di figli di Dio, a partire dall’atto di fede di partenza.

 

Non si tratta di una semplice illustrazione, nel senso che la condizione del migrante costituisce una buona immagine per descrivere la condizione spirituale dei credenti; è qualcosa di più che attiene alla stessa nostra identità che dovrebbe segnare il nostro essere cristiani. Paolo scrivendo ai Filippesi ci ricorda infatti che la nostra cittadinanza è nei cieli (3:20).

L’incrocio dell’insegnamento sulla cittadinanza celeste e quello sulla nostra condizione di migranti non deve produrre però il sentimento della fuga e dell’estraniazione dalle dinamiche mondane e terrene ma, al contrario, come insegna sempre la prima lettera di Pietro, deve produrre nei pellegrini una condotta che sia appropriata al loro status (“Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi… avendo una buona condotta fra i pagani…”).

 

 

Dalle migrazioni un preciso messaggio!

 

La condizione spirituale di stranieri e pellegrini ha un suo ethos, un suo modo di essere, di agire, una sua condotta. È proprio questo peculiare modo di essere che deve includere la capacità e la prontezza a riconoscere subito chi si trova nella stessa condizione precaria. L’approccio alla condizione dei profughi da parte dei credenti non è in primis quello politico, che cerca di modificarne lo status, ma quello di chi viene risvegliato alla sua vera condizione spirituale.

Il cristiano deve dunque sentirsi chiamato a mettersi in marcia, a rimettersi in marcia: “mentre fuori della chiesa lo scopo principale è di far dimenticare all’uomo che è uno straniero nel mondo, la Chiesa non vuole che egli dimentichi questo, ma piuttosto si unisce a lui nella sua emigrazione” (De Jong).

L’ultima affermazione di questa frase (“si unisce a lui nella sua emigrazione”) non vuole dire che ogni credente debba lasciare la sua casa e il suo posto di lavoro e salire su un barcone. Piuttosto, ci esorta a rivedere la prospettiva a partire dalla quale consideriamo e viviamo il nostro aver messo radici da qualche parte (per nascita, per lavoro, etc.). E ci invita anche a qualificare in senso concreto e operativo il tema della cittadinanza.

L’apostolo Paolo affronta un tema del genere nella prima lettera ai Corinzi, allorquando parla del matrimonio, appellandosi al fatto che siamo nelle ultime fasi della storia (il tempo abbreviato):

“Ma questo dichiaro, fratelli: che il tempo è ormai abbreviato; da ora in poi, anche quelli che hanno moglie, siano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano di questo mondo, come se non ne usassero, perché la figura di questo mondo passa” (1Co 7:29–31).

 

Anche Pietro pone il tema della nostra condizione migrante alla confluenza della metafora veterotestamentaria e dell’imminenza del ritorno (la fine di tutte le cose è vicina, 1P 4:7) ma da qui non fa derivare una visione spiritualizzante della nostra presenza nel mondo. Al contrario, tutto questo insegnamento neotestamentario fa risaltare il tema della nostra identità più autentica, vale a dire di essere come Chiesa e come chiese locali un popolo di migranti.

 

Ecco la grande verità e il messaggio che questo tempo di migrazioni porta alle chiese in Occidente. Questa nuova coscienza del nostro essere stranieri e pellegrini ci pone in modo diverso nei confronti dei latori di questo messaggio, i profughi e i migranti, togliendo alla solidarietà e all’accoglienza che dobbiamo nei loro confronti il tenore del paternalismo. Questa ragione dovrebbe poi essere un forte antidoto contro le possibili riserve, se non addirittura le striscianti forme di pregiudizio, che potrebbero annidarsi dentro di noi e nelle nostre chiese.

 

Questa ondata di migrazioni sveglia dunque la nostra coscienza e ci rivela a noi stessi come essendo noi stessi degli stranieri e dei pellegrini. Accogliendo i profughi con la condivisione del Vangelo e con la risposta ai loro bisogni e, nei confronti di coloro che sono credenti (e sono tanti, molti di più di quanto possiamo pensare), con la comunione fraterna, noi impariamo nuovamente cosa significa camminare verso la città che ha i veri fondamenti (Eb 11).

“La condizione nella quale si trovano attualmente milioni di persone dovrebbe spingere la Chiesa a scoprire nuovamente questa caratteristica essenziale del suo essere… Aiutare l’emigrante è portare il Vangelo a coloro che vivono la parabola della fede, spesso senza saperlo; è andare in mezzo a persone che si sentono straniere e dir loro che Dio stesso si è fatto uno straniero in Cristo; è aiutare coloro con i quali Cristo si identificò: «Fui straniero e mi avete accolto» (Mt 25:35)”.

 

La prima ragione perché i credenti si mobilitino, in ogni chiesa locale, per accogliere i profughi e i migranti è dunque una ragione fenomenologica: essa consiste nell’essere risveg___liati, da ciò che sta accadendo nel Mediterraneo, verso la riscoperta della nostra più autentica natura.

Noi siamo stranieri e pellegrini… praticamente profughi!

 

 

Ama il tuo prossimo come te stesso

(ragione etica)

 

Il Vangelo di Luca è l’unico tra i sinottici a raccontarci la ben nota parabola del buon Samaritano. Il suo scopo è quello di operare un ampliamento del campo semantico di “prossimo”. Questo ampliamento aveva dei precisi obiettivi nel contesto del ministero di Gesù. Al suo estremo, cioè ai limiti di questo campo semantico, c’era l’amore per i nemici (Mt 5:43).

La parabola del buon Samaritano serve per illustrare al dottore della legge che aveva chiesto a Gesù di specificare “chi è il mio prossimo?”, cioè che cosa c’è in mezzo, tra l’amore per colui che appartiene al proprio enclave, sia quest’ultimo di natura familiare, razziale o sociale, e il nemico, che si trova all’altro estremo dei possibili “prossimi”.

 

Lo spazio intermedio è occupato proprio dallo straniero, figura evocata nella parabola dal Samaritano, che sebbene non corrisponda perfettamente alla fisionomia dello straniero dell’Antico Testamento o a quella del migrante dei nostri tempi, è una figura che ben si presta a testare il modo in cui la seconda parte del Grande Comandamento, “l’amore per il prossimo”, debba prendere in carico il diverso.

In realtà la traiettoria dell’amore per il prossimo (dall’appartenente al popolo di Dio allo straniero) era già delineata nella fonte veterotestamentaria dalla quale deriva la seconda parte del Grande Comandamento: Levitico 19.

Nel verso 18 di questo capitolo leggiamo infatti: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso. Io sono il SIGNORE”.

Dal verso 19 il testo prosegue con un elenco di disposizioni, regolamenti e principi che coprono aree molto diverse e nei vv. 32-37 troviamo una concentrazione sulle relazioni nell’ambito delle quali spicca la relazione con lo straniero (v. 34): “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il SIGNORE vostro Dio”.

 

Al di là dei riferimenti storici, all’Egitto, emerge in questa disposizione la ricorrenza del “come te stesso” e del ritornello “Io sono il Signore”.

Levitico 19:34 costituisce insomma la prima estensione del comando ad amare il prossimo (19:18), un’estensione che supera i confini della propria etnia; dopo il fratello, o il compagno o il membro della propria nazione, c’è il campo occupato dallo straniero. Oltre ancora ci sono i nemici, come spiegherà Gesù.

 

Lo straniero rappresenta una sorta di ponte per passare da un interesse centrato sulla propria cerchia (di qualsiasi natura essa sia) a un amore impensabile per il nemico che sa voltare l’altra guancia.

Sicuramente il punto di arrivo dell’amore, l’amore per i nemici, rappresenta il punto ultimo e impensabile dell’estensione dell’amore.

Questa rappresentazione la vediamo nell’opera della salvezza di Gesù quando alla croce egli fu in grado di dare una parola di perdono per i suoi aguzzini. Ma l’amore per il nemico rimanda a una condizione ancora più particolare. Nella nostra esperienza di tutti giorni è molto probabile che si possano accumulare delle tensioni nelle nostre relazioni, tuttavia la categoria del “nemico” è molto particolare, sia nella Bibbia (si pensi ai Salmi di imprecazione o di battaglia) sia da un punto di vista sociologico.

 

Eppure a volte si può arrivare a una sorta di paradosso (molti dei pregiudizi nei confronti dell’ondata migratoria sono paradossali) nel quale si potrebbe essere capaci di un gesto estremo nei confronti del nemico ma non essere capaci di liberarsi della xenofobia, della paura dello straniero, del diverso.

Il nemico ha nei nostri confronti una condizione più netta: o ci prevarica oppure la sua inimicizia è puntuale. Difficilmente, anche amandolo, ci sentiremo spinti a modificare la nostra opinione su di esso. È dunque plausibile assistere a gesti positivi verso il nemico. Con il nemico si può scendere anche a patti e fare la pace. Ma nessuno penserebbe che il nemico smetta di essere tale.

Ma non così con lo straniero, con il diverso il quale non prevarica in quanto è in una condizione di indigenza. Egli però con la sua presenza ci chiede di cambiare opinione, di non essere generalisti (nonostante alcuni fatti di cronaca siano attribuibili a immigrati, tutti sappiamo che non è giusto affibbiare l’etichetta di delinquenti ai disperati che vengono soccorsi nel Mediterraneo). E questo appare molto difficile. Secondo una recente indagine il 51% della popolazione italiana teme gli stranieri perché li associa a cose negative.

 

Dunque l’estensione della seconda parte del Grande Comandamento allo straniero non è un fatto scontato. Per dimostrarlo possiamo andare oltre la fenomenologia e attingere direttamente all’insegnamento di Gesù.

Quale operazione ha compiuto il Maestro quando ha dovuto illustrare il Grande Comandamento? Ha messo in scena appunto un diverso, un Samaritano, qualcuno che era come i Giudei ma non propriamente.

 

Nell’amare lo straniero e nell’accoglierlo noi dunque ubbidiamo e mettiamo in pratica il secondo Grande Comandamento (“ama il tuo prossimo come te stesso”), rendendo anche una forte testimonianza ai nostri connazionali e assumendo una posizione anche pubblica senza necessariamente invischiarci nelle dinamiche politiche. Noi come cristiani dovremmo esercitare il dovere dell’accoglienza perché dovremmo desiderare di vivere il Secondo Comandamento.

Questa è la seconda ragione biblica per l’accoglienza ai profughi. Potremmo prolungare l’applicazione considerando alcuni elementi della parabola, prestando cioè particolare attenzione ai gesti del Samaritano; ma ciò che mi preme sottolineare è chel’amore per lo straniero è il primo grande banco di prova per un amore del prossimo che non si limiti alla propria cerchia.

 

C’è inoltre un ulteriore elemento da considerare: mentre l’amore per il nemico ha assunto spesso nella storia i contorni dell’eroismo del singolo, l’amore per lo straniero, come si configurerebbe nell’accoglienza ai profughi e ai migranti del nostro secolo, deve per forza di cose essere un amore comunitario, collettivo che va al di là della visione dei singoli. Un amore organizzato.

 

 

Imitatori di Dio (la ragione teologica)

 

C’è una terza grande ragione per l’accoglienza. Essa si ispira all’azione di Dio che l’apostolo Paolo ci chiede di prendere a modello: “Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati” (Ef 5:1).

Il progetto appare improponibile.

Imitare Dio? Eppure ritengo possibile la sua attuazione: Dio, pur detestando il peccato e condannando i peccatori, usa verso questi ultimi una notevole pazienza (Mt 5:45) permettendo loro, paradossalmente, di continuare a peccare, manifestando però nello stesso tempo il suo amore con l’annuncio del vangelo, con l’offerta del perdono dei peccati e con la salvezza che si ha in Gesù Cristo.

 

Se facciamo le stesse cose, stiamo imitando Dio! L’imitazione di Dio è una prospettiva biblica che si contrappone radicalmente a ogni malsana idea di «società cristiana». Il discorso sarebbe lungo da sviluppare e qui ci limitiamo unicamente a identificare nell’azione di Dio ciò che può essere imitato nel nostro approccio ai profughi e ai migranti.

 

L’IMMAGINE DI DIO.

 

Quando si parla del nostro grande Dio non possiamo non partire dal primo grande gesto con il quale egli si è fatto conoscere: la creazione dell’intero universo e di tutto ciò che esso contiene (Sl 19).

Eppure dimentichiamo spesso come al culmine di questo grande disegno egli ha posto la sua immagine, cioè qualcosa (e qualcuno) nel quale e per il quale il creato potesse contemplare un bagliore della sua essenza: l’essere umano creato appunto a immagine di Dio (Ge 1:27).

La caratterizzazione dell’essere umano, fatto alla sua immagine, è alla base di una serie di esortazioni e di ammonimenti relativi alla convivenza tra gli uomini di tutti i tempi.

È perché gli esseri umani sono a sua immagine che egli non accetta l’omicidio (Ge 9:6). Ed è per la stessa ragione che egli non ammette la falsità e l’uso della lingua che sia disonorevole (Gm 3:9). L’immagine di Dio è il fondamento della dignità degli esseri umani. E qualcuno potrebbe forse negare che lo stesso principio debba fondare l’accoglienza delle masse di disperati che scappano e approdano sulle nostre coste?

 

Nell’azione creatrice di Dio ci sono altri elementi che, nel gioco dell’imitazione, ci collegano all’accoglienza.

Il riposo del sesto giorno, per esempio, è a fondamento del quarto comandamento con il quale il SIGNORE desidera che “anche lo straniero che abita nella tua città… non faccia nessun lavoro, poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposo il settimo giorno” (Es 20:8-11). Si pensi alle condizioni disumane a cui sono sottoposti i migranti in alcune zone dell’Italia, impiegati nel lavoro dei campi fino a trovarne la morte!

Inoltre si pensi alla signoria di Dio su tutto il creato, sia nella sua dimensione fisica sia in quella “politica”, rapportata alla capacità dell’uomo di occupare la terra e le terre e di istituire con essa un rapporto particolare, come nel caso della tavola delle nazioni di Genesi 10. Anche questa dinamica resta sotto il controllo di Dio soprattutto perché questa capacità umana molto spesso è usata dall’uomo per arrivare fino al cielo, come si vede nell’episodio della torre di Babele (Ge 11).

 

L’apostolo Paolo ricorderà nel suo famoso discorso sull’Areopago che “Il Dio che ha fatto il mondo… ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione” (At 17:26).

Ed è per questa ragione che Dio, nel momento in cui sta costituendo il suo popolo (vedi Esodo 19:6), mentre sta annunciando a Israele le gloriose parole che ne definiscono la sua natura – premessa l’ubbidienza al patto – (e sono le stesse parole che Pietro, unico caso nel Nuovo Testamento, applicherà ai credenti, stranieri e pellegrini: “sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare… e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa”, 1P 2:9), farà un inciso fondamentale per la stessa autocomprensione del popolo di Dio: tutta la terra è mia!

 

Le migrazioni sono un passaggio provvidenziale mediante il quale Dio ricorda al suo mondo che gli uomini sono appunto di passaggio sulla faccia della terra.

I flussi migratori debbono risvegliare nei cristiani che sono eredi della promessa veterotestamentaria che ciò che possiedono, compreso la loro nazione, la loro patria, la “loro terra” in realtà fa parte di tutto un pacchetto di doni il cui ultimo proprietario resta il Signore creatore di tutto l’universo. In un contesto diverso ma che ha di mira lo stesso obiettivo della gratitudine e della riconoscenza, Paolo affermerà: “Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1Co 4:7).

 

La risposta alla crisi dei profughi prevede, al fianco dell’accoglienza, anche la gratitudine per colui che ci pone nella condizione di condividere con altri ciò che abbiamo ricevuto ma che in fin dei conti non ci appartiene.

 

LA MISSIONE DI DIO.

 

Ogni tentativo di imitare Dio, dopo aver preso in carico le grandi verità della creazione, deve confrontarsi con la fuoriuscita di Dio da sé stesso, dopo la creazione e soprattutto dopo il peccato dell’uomo.

Abbiamo qui quella che comunemente viene chiamata la missione di Dio, vale a dire il fatto che Dio sia impegnato, da sempre, all’indomani della caduta, in una grandiosa missione di salvezza e di redenzione.

Per questo motivo qualsiasi impegno solidaristico, umanitario e sociale deve prendere in carico la natura redentrice della missione di Dio. Dio non si limita a preoccuparsi del creato, a inveire contro l’ingiustizia e a ricercare la giustizia ma desidera la salvezza degli esseri umani. Questa salvezza egli l’ha proposta dopo averla preparata e infine realizzata nella persona e nell’opera del Signore Gesù Cristo. Lo strumento mediante il quale la missione di Dio vuole giungere a salvare le vite degli uomini dalla condanna per il peccato è il glorioso Vangelo di Gesù Cristo.

Questo è il disegno di Dio, come ricordava John Stott nel Patto di Losanna:

“Riaffermiamo la nostra fede nel Dio eterno e unico, Creatore e Signore del mondo, Padre Figlio e Spirito Santo che governa su tutta la realtà secondo il disegno della sua volontà. Egli ha tratto dal mondo un popolo che gli appartenesse e questo stesso popolo lo ha rimandato nel mondo affinché coloro che ne fanno parte fossero i suoi servi e i suoi testimoni” (Losanna, 1).

 

Egli imposta ancora oggi la sua relazione con il mondo degli uomini caduti nel peccato (di cui anche le migrazioni non sono altro che un sintomo) avendo pazienza, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento (2P 3:9).

Dunque un’autentica imitazione di Dio non può non esprimersi mediante l’annuncio del Vangelo.

“Nella missione con la quale la Chiesa, sacrificandosi, svolge il suo servizio, l’evangelizzazione deve restare al primo posto. L’evangelizzazione del mondo richiede, infatti, che tutta la Chiesa porti tutto il Vangelo a tutto il mondo” (Losanna, 6).

 

Dio stesso nel compimento di questa missione che oggi deve essere proseguita dal suo popolo, dalla Chiesa, ha vestito i panni dello straniero, di colui che ha lasciato la sua condizione originaria e si è calato in un mondo a lui ostile.

“E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità” (Gv

1:14; cfr Fl 2).

 

Nel ministero del Figlio possiamo trovare dunque un’ulteriore radice per l’intervento a favore dei migranti che si pone il preciso obiettivo di imitare il Padre. Anzi, in questa imitazione gli stessi credenti, armati della volontà di condividere il Vangelo e di fare del bene al prossimo scoprono spesso quello che fu il sentimento sperimentato dal Figlio stesso, la Parola fatta carne: “fui straniero e mi accoglieste/fui straniero e non m’accoglieste” (Mt 25:35, 43).

Ecco perché il Vangelo, quando è accolto, ci toglie dalla condizione di estranei alla cittadinanza dei santi (Ef 2) e ci fa confluire in unico popolo in cui non ci sono più differenze etniche (Gl 3:28) rendendoci tutti, nei confronti del mondo, stranieri e pellegrini. In questo nuovo stato noi siamo pellegrini seguendo le orme di Gesù Cristo (1P 2:21).

 

LA VISIONE FINALE DI DIO.

 

La realtà di una società spirituale, la Chiesa, in cui non ci sono più barriere etniche e di genere, in cui Gesù Cristo con il suo Spirito è tutto in tutti è un risultato della missione di Dio che i fenomeni migratori ci portano a desiderare di realizzare piena_mente nelle chiese locali di ogni ordine e grandezza, di qualsiasi contesto geografico e culturale: nella città multietnica come Roma e nel paesino agricolo della Puglia.

Ma questa condizione è in realtà una precondizione, è solo un’anticipazione.

 

Quando, sulla scorta del desiderio di imitare Dio, ci poniamo il problema del futuro, guardiamo a quello che ci aspetta, non possiamo sfuggire alle immagini e all’insegnamento che l’Apocalisse ci riserva allorquando il Veggente è chiamato a contemplare Dio e l’Agnello nella stanza del trono (Apocalisse capp. 4-5).

L’espressione plastica che lì troviamo ci consegna un imperativo categorico a far sì che anche la nostra piccola chiesa locale non sia che un riflesso della ricchezza etnica della gloria:

“Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione…” (5:9; stessa espressione in 13:7 e 14:6).

 

Abbiamo spesso pensato che questa visione rendesse giustizia agli sforzi missionari di raggiungere i popoli non raggiunti dal Vangelo e aggiungere anima su anima a questa grande folla.

Le migrazioni sono un fenomeno che spazza via tutte queste pie ed edificanti illusioni e ci obbliga a lavorare sodo, qui e ora, in casa nostra, per realizzare nella nostra comunità un riflesso di quella gloria.

 

L’immagine di Dio, la missione di Dio e la visione finale di Dio sono tre modi di renderci imitatori di Dio nel campo dell’accoglienza dei profughi e dei migranti.

In tal modo abbiamo costruito un trittico di ragioni che dovrebbero pressare i nostri cuori a intercedere per i migranti, a umiliarci per la nostra passività e a coordinare i nostri sforzi per accoglierli:

•_con il Vangelo, considerandoci profughi con loro (ragione fenomenologica);

•_con la nostra solidarietà, amandoli come noi stessi (ragione etica);

• con la nostra comunione (ragione teologica).

 

 

Quali conclusioni?

 

L’interesse della chiesa e delle chiese locali per i profughi non è riducibile al titolo “stranieri CON noi”; in questo, come abbiamo detto all’inizio, affiora l’interesse per le problematiche della convivenza multiculturale, problematiche di natura sociale e politica alle quali farebbero bene a dedicarsi singoli cristiani impegnati nelle più diverse aree come la politica, le amministrazioni locali, etc.

In questi ambiti come cristiani siamo impegnati insieme ad altri cittadini con diverse visioni del mondo a trovare degli equilibri alle problematiche della convivenza.

Esagerando l’approccio potremmo dire che alla Chiesa non interessa il tema delle quote, i temi della sicurezza, dell’integrazione etc. Queste sono tutte questioni che fanno parte del tema sociale più generale del povero e del bisognoso, indipendentemente dal colore della sua pelle. Naturalmente questo non significa che la Chiesa, in quanto Chiesa, vale a dire come organismo creato dall’azione dello Spirito Santo, non debba dare un suo contributo a queste problematiche. Solo che questo contributo, come abbiamo visto, è indiretto.

 

Concentrandosi sull’accoglienza come suo peculiare campo di azione e di missione, la Chiesa del Signore pone la società automaticamente nella condizione di dover risolvere tali problematiche.

Si pensi al tema dell’accoglienza e della cura del migrante “clandestino”, con la conseguenza di una presa di posizione che disconosce questa categoria normativa ritenendola inadeguata a esprimere la condizione dell’essere umano che ci sta di fronte con il suo bisogno determinato dalla sua fuga o dal suo spostamento.

Ma si pensi anche all’effetto che potrebbe avere un’accoglienza senza “se” e senza “ma” da parte delle chiese locali che, grazie all’effetto combinato del Vangelo e dell’impegno umanitario, incida fortemente nelle vite dei profughi, permettendo allo Spirito di operare fra di loro e raccogliere una messe di salvezza e di vite trasformate.

 

Quale effetto potrebbe avere questo dato sul dibattito culturale, sociale e politico se mo-
striamo le nostre chiese locali come luoghi in cui l’integrazione avviene al livello profondo dell’opera dello Spirito?

E quali effetti potrebbe avere tutto ciò qualora in futuro si inneschi il fenomeno dell’immigrazione di ritorno con tanti cristiani nati di nuovo che possono tornare nelle loro terre divenendo a loro volta testimoni del Vangelo (questo in particolare per le parti del mondo presidiate da fedi e religioni anche ostili al cristianesimo)?

Sono solo dei quesiti, ma sono domande lecite, da porsi nella prospettiva della missione che Dio sta compiendo anche oggi, anche tramite il dramma delle migrazioni.

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Lo Spirito di Dio sta chiamando le nostre chiese ad aprire gli occhi su questa grande opportunità che ci viene offerta per l’annuncio del Vangelo e per mostrare l’amore cristiano al di fuori delle nostre cerchie.

Si tratta di un’opportunità che mette alla prova la lealtà del nostro impegno cristiano, la tenuta della nostra comunione locale e la capacità di vivere la comunione tra le Assemblee.