Tempo di lettura: 3 minuti

Di tanto in tanto qualcuno mi chiede quali sono i motivi per i quali nei nostri incontri non “recitiamo” la preghiera, conosciuta come “Padre nostro” e proposta da Gesù ai discepoli, dopo aver espresso alcune osservazioni critiche sul modo di vivere la preghiera da parte dei religiosi del suo tempo. Gesù aveva denunciato come la preghiera fosse diventata strumento di ostentazione del proprio perbenismo religioso da parte di chi, come i Farisei, pregavano per essere “visti dagli uomini”e lo facevano in luoghi affollati, “stando in piedi nelle sinagoghe” in modo che la loro presenza fosse notata e “agli angoli delle piazze”. Chi prega, per mostrarsi pio e devoto, non sta cercando l’aiuto di Dio, ma piuttosto si sta servendo di Dio per attirare su di sé l’ammirazione e il compiacimento degli altri… non sta lodando Dio, ma cerca di attirare lodi su sé stesso. Gesù si preoccupò allora di insegnare che la preghiera va vissuta soprattutto nell’intimità, che deve perciò essere prima di tutto un momento “segreto” vissuto in un luogo “segreto”, che non deve consistere in una sequela di parole o in una recita a memoria (sono di conseguenza sbagliate espressioni che purtroppo usiamo, come “fare la preghiera” o “dire la preghiera”: la preghiera non “si fa” e non “si dice”, la preghiera si vive!), che deve essere vissuta nella certezza che Dio ci conosce perfettamente (cioè: quando preghiamo, non dobbiamo pensare di mettere Dio al corrente dei nostri bisogni, ma piuttosto dobbiamo esprimere il nostro desiderio di vedere intervenire lui per soddisfarli, riconoscendo così la nostra debolezza e il nostro assoluto bisogno del suo soccorso nella nostra vita). Sollecitati da queste istruzioni del Maestro, i discepoli gli rivolsero una richiesta: “Signore, insegnaci a pregare” (Lu 11:1). Gesù rispose immediatamente offrendo un modello di preghiera, che dobbiamo ancora oggi tenere presente per ricordare le realtà essenziali nella nostra relazione con Dio, prime fra tutte il suo essere diventato nostro “Padre” in Cristo e, pur essendo “nei cieli”, il suo quotidiano abbassarsi fino a noi per ascoltarci come fa un padre con i propri figli. Non è possibile vivere la preghiera senza aver conosciuto l’amore di Dio che “ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, affinché, per mezzo di lui, vivessimo” (1Gv 4:9). È in Cristo che possiamo chiamare Dio “Padre nostro”, perché è ricevendo Cristo che abbiamo acquisito “il diritto” di essere suoi “figli” (Gv 1:12). Ed è in Cristo che possiamo davvero vivere e la preghiera è una delle espressioni di questa nuova vita che abbiamo ricevuto da lui ed in lui! Perché allora non ripetere le parole indicate da Gesù nel modello di preghiera?

Prima di tutto perché, come abbiamo ricordato, la preghiera non è una recita, ma un momento essenziale della nostra vita nella relazione con_Dio. In secondo luogo perché il ripeterne meccanicamente il testo costituirebbe una evidente contraddizione con l’istruzione di Gesù, secondo la quale nel pregare non dobbiamo affidarci a ripetizioni di parole. Quindi sarebbe davvero contraddittorio cadere in questo pericolo, proprio utilizzando il modello che Gesù ci ha offerto per evitare il rischio della ripetitività. In terzo luogo: non troviamo né nel libro degli Atti né nelle lettere apostoliche episodi o istruzioni precise che ci incoraggino ad utilizzare, per rivolgersi al Padre, il testo di questa preghiera. Infine dobbiamo ricordare che viviamo in un contesto religioso in cui questa preghiera viene utilizzata addirittura come penitenza per espiare i peccati, dopo la confessione auricolare (un uso che – non ho remore a scriverlo – sfocia nella blasfemia, per l’implicito disprezzo sia della preghiera sia soprattutto del valore unico del sacrificio di Cristo).

Impariamo allora a vivere la preghiera come il momento in cui apriamo il nostro cuore al Signore, come fece Anna la madre di Samuele (1Sa 1:15), avendo la certezza che è in Cristo che noi siamo figli di Dio e che egli è il ”Padre nostro”!