Tempo di lettura: 6 minuti

Viviamo un’epoca connotata da pessimismo. Anche chi non ha vissuto i favolosi anni sessanta, perché nato successivamente, oppure perché – come per me – sono solo un vago ricordo d’infanzia, non può non riconoscere il differente stato d’animo di chi ha vissuto quegli anni di boom economico e di rivoluzione culturale, che portava soprattutto le generazioni più giovani a proiettarsi con ottimismo entusiasta verso il futuro.

In fondo basta dare una rapida occhiata a vecchi programmi televisivi che ogni tanto la RAI rimanda in onda, per osservare uomini e donne che, pur suscitando in noi un bonario sorriso di sufficienza per quell’apparente ingenuità, ci lasciano al tempo stesso un senso d’amaro in bocca, un sottile sentimento d’invidia, per quell’aria fiduciosa nel domani che comunque traspare da quegli occhi e da quei volti in bianco e nero. Se c’è una cosa che al contrario caratterizza il momento attuale che stiamo attraversando, soprattutto nella nostra Italia, è il pessimismo.

 

 

Le radici del pessimismo: precarietà,

delusione e senso d’impotenza

 

Varie sono le cause che si possono additare per comprenderne le radici, e tra queste certamente la crisi economica è probabilmente la principale, con tutte le inevitabili ricadute sociali legate alla precarietà della vita, l’impossibilità di programmare il proprio futuro e dunque di guardare al domani con l’entusiasmo di chi s’immagina di poter costruire qualcosa, piuttosto che invece vivere nell’ansia di preservare quel poco che gli resta.

 

Ma a questa innegabile fonte di pessimismo io aggiungerei anche il senso di delusione. Delusione conseguente alla caduta delle maggiori ideologie del secolo appena trascorso. Al di là dei giudizi di merito che possiamo darne, è innegabile che l’abbracciare un’ideologia proietti la persona verso un futuro in cui possa veder realizzato l’ideale perseguito.

Il fallimento storico di quelle ideologie ha dunque portato con sé anche l’abbandono di quella propensione verso un domani migliore da costruire, lasciando solo l’aspirazione al godimento del presente.

Occorre poi sottolineare che, soprattutto nel nostro Paese, non sono cadute solo delle astratte ideologie, ma un’intera classe dirigente, lasciando una diffusa delusione e sfiducia verso qualsiasi istituzione o forza politica a cui poter affidare speranze di cambiamento: tutti, indistintamente, sono accusati di perseguire solo ed esclusivamente i propri interessi, in quanto accomunati dall’appartenenza alla casta dei privilegiati e dei corrotti.

Precarietà della vita e delusione verso uomini o ideali che possano migliorare la nostra condizione sono già di per sé due fattori dirompenti in grado di sgretolare qualsiasi slancio di ottimismo, ma a sancire il definitivo stato di pessimismo della nostra epoca troviamo il senso d’impotenza, la percezione cioè di non poter fare noi stessi nulla per cambiare direzione.

Sarà forse la disponibilità d’informazioni in tempo reale da tutto il mondo, che ci bombarda continuamente con notizie di guerre, catastrofi e tragedie, e che fa sentire noi così insignificanti, e le nostre azioni individuali così ininfluenti, o forse invece si tratta semplicemente del prodotto inevitabile della delusione detta prima, fatto sta che la società di oggi sembra aver perso la speranza di poter fare scelte personali in grado di cambiare il corso della Storia. Quelle parole del cantautore Francesco De Gregori, “… la Storia siamo noi, nessuno si senta escluso …”, suonano così ingenue, oggi che l’idea dominante è invece quella delcomplotto della finanza mondiale, dei poteri forti che hanno già deciso tutto, per cui le cose andranno come andranno indipendentemente da ciò che oggi io m’illudo di voler cambiare. A pensarci bene una convinzione, quest’ultima, liberatoria, perché ci deresponsabilizza, aprendo le porte a un cinico pessimismo egoista e auto-assolutorio.

 

 

Le basi dell’ottimismo di chi pone fede

in colui che ha cura di noi, che è fedele

e che regna nella Storia

 

Questa è la descrizione triste e amara della realtà contemporanea: un’aura di pessimismo che si abbarbica nel nostro animo anche inconsapevolmente, quasi come una pianta parassita rampicante che lentamente soffoca alberi ben più imperiosi di lei, succhiandone l’energia vitale. Parlo in termini generalizzati perché anche noi credenti respiriamo quest’aria satura di pessimismo, per cui è opportuno domandarsi quanto ne siamo condizionati, permettendogli forse di soffocare in noi ogni aspettativa di fede nel Dio onnipotente che, mediante lo Spirito Santo, può agire nella nostra vita individuale e di chiesa, rinnovando slancio ed entusiasmo per la sua opera.

 

Ma chi, piuttosto, può definirsi a pieno titolo un ottimista, se non colui che ha creduto nel Signore Gesù?

Ottimismo che però non consiste certo in un vago pensiero positivo, in una fiducia fatalista nel fatto che ogni storia avrà comunque prima o poi un suo lieto fine, dettata da autoconvinzione o magari solo da una propria predisposizione caratteriale.

Il credente è ottimista perché non vive nell’angoscia della precarietà del domani. Ha gettato sul suo Dio ogni sua preoccupazione, perché sa di avere un Padre celeste che conosce i suoi bisogni e ha promesso che si prenderà cura di lui (Mt 6:31-32; 1P 5:7).

 

Chi ha creduto in Cristo Gesù è ottimista perché – è vero – l’uomo, le ideologie, prima o poi deludono, ma il suo Signore no. Lui non delude, perché è fedele e non viene meno alle sue promesse. Quando Davide afferma nel Salmo 119 (vv. 89-91) “Per sempre, SIGNORE, la tua parola è stabile nei cieli. La tua fedeltà dura per ogni generazione; tu hai fondato la terra ed essa sussiste. Tutto sussiste anche oggi secondo le tue leggi, perché ogni cosa è al tuo servizio”, ci esorta a guardare alla meraviglia della sua creazione, alle leggi immutabili che la governano, come a un chiaro e quotidiano riscontro della sua fedeltà, applicabile dunque a ogni altra promessa di cui ci ha reso partecipi attraverso quella stessa Parola stabile nei cieli: anche questa mattina il Sole è sorto su nel cielo, dunque non potrò mai essere deluso dal mio Signore.

 

Infine, chi ha posto la sua fede in Gesù Cristo è ottimista perché conosce molto bene la realtà del mondo in cui vive, e sa quanto sia tristemente vero che sia dominato dai poteri forti. Lo sa perché è proprio la Scrittura per prima ad aver affermato che il mondo giace sotto il potere del maligno (1Gv 5:19; Gv 14:30). Al tempo stesso, però, sa anche che, per ciò che lo riguarda, di autentici poteri forti ne esiste di fatto uno solo, ed è Cristo Gesù risorto, che adesso è seduto alla destra del Padre nel cielo, al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro. (Ef 1:20-21).

 

Questa consapevolezza gli permette di proiettarsi in uno slancio ottimistico verso il domani, perché il Signore Gesù regna, e sta portando a compimento la sua opera nella Storia in senso più ampio (1Co 15:24-26), così come nella sua piccola storia personale, quella con la “s” minuscola (Fl 1:6). È in lui infatti che abbiamo la certezza che, dimorando nel suo amore, Dio stesso farà sì che qualsiasi cosa ci riservi il futuro, essa sarà usata da lui per il nostro bene (Ro 8:28).

In Gesù ciascuno, individualmente, può fare oggi scelte di obbedienza che cambieranno la sua storia personale, e perché no, magari anche la Storia in senso più ampio.

Chi crede nel Signore Gesù non può essere altro che un inguaribile ottimista: perché ha fede in lui.

 

 

Vivere l’ottimismo della fede in Gesù:

una testimonianza viva per il tempo

presente in attesa del suo ritorno

 

Perché invece molti credenti sono tristi, delusi, apatici, travolti essi stessi da questo cupo e dilagante pessimismo?

Eppure proprio oggi noi credenti, circondati da gente stanca di cercare inutilmente un lavoro dignitoso, esasperata da periodici e vani proclami di uscita dal tunnel della crisi, abbrutita dal livore verso questo o quest’altro politico, resa cinicamente scettica di qualsiasi prospettiva di cambiamento, intimorita dalle continue notizie di guerre e catastrofi naturali, abbiamo una straordinaria opportunità di testimonianza della nostra fede in Cristo Gesù fatta senza grandi proclami, ma semplicemente mostrando gioia, entusiasmo, amore, fiducia, espressioni di riconoscenza e di apprezzamento, nonostante siamo noi stessi immersi nella stessa realtà di incertezza per il futuro.

 

Che dire poi delle nostre chiese?

Per apatia e pessimismo sul futuro si tollerano liti, divisioni, freddezza e aridità spirituale. È poi paradossale il fatto che non di rado tutto questo si accompagni a parole che richiamano, o addirittura trovano una giustificazione, nella personale consapevolezza dell’imminente ritorno del Signore Gesù: “…eh sì, le cose vanno e andranno sempre più di male in peggio. Siamo oramai arrivati alla fine dei tempi!…”.

Che brutto messaggio trasmettiamo soprattutto ai nostri giovani, loro – sì – già annichiliti da un futuro che si prospetta avaro di opportunità, e per di più spinti a vedere la chiesa come un treno oramai tristemente incamminato verso la pensione, reduce di glorie che però appartengono solo al passato. Quelle espressioni, in realtà, appaiono più un facile alibi alla nostra pigrizia e incredulità nell’opera di Dio, piuttosto che di beata speranza nella prossima apparizione del Signore Gesù (Ti 2:13).

 

Dimenticano infatti quelle parole, l’invito che Gesù stesso rivolse ai suoi discepoli in vista di quando si sarebbero resi conto dell’approssimarsi di quell’evento glorioso, di vivere cioè quei momenti con palpitante entusiasmo:

“Ma quando queste cose cominceranno ad avvenire, rialzatevi, levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina” (Lu 21:28).  Dimenticano, quelle parole, che quando il Signore Gesù tornerà, ciò che si attende di trovare è dei discepoli impegnati con entusiasmo a servire: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà così occupato!” (Mt 24:46).

Il Signore Gesù richiami ciascuno di noi, a cominciare da me, a strappare via dal nostro cuore i lacci del pessimismo e dell’apatia, per manifestare piuttosto l’ottimismo della fede in lui e nella sua opera, in attesa del Suo ritorno.