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Il telefono e la preghiera

 

Forse qualcuno riderà di questo accostamento: telefono e preghiera.

Il telefono è un apparecchio utilissimo per comunicare, ma può diventare uno strumento di tortura, inventato per la disperazione del genere umano, capace di far saltare i nervi anche all’individuo più calmo.

Mentre stai pranzando, cenando, mentre stai per andare alla stazione e sei in ritardo, mentre stai facendo il bagno… squilla il telefono.

“Basta!”, ti viene voglia di gridare!

Ma il telefono celeste è ben diverso e opera miracoli.

 

Dal giorno nel quale si diventa telefonisti, comincia un’epoca nuova nella vita; tutto il nostro essere si trasforma; un soffio vivificatore, dapprima sconosciuto, si impadronisce di noi e ci allieta.

Come è stato detto, la preghiera è il respiro dell’anima e la chiave per aprire il cielo. Gesù garantisce l’esaudimento della preghiera fatta con fede e sincerità:

 

“Se chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Gv 14: 14).

 

Questo filo telefonico ci accompagna sempre e sempre dobbiamo trarne vantaggio:

“Orando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e di supplicazioni; ed a questo vegliando con ogni perseveranza e supplicazione per tutti i santi” (Ef 6: 18).

 

Pregare in ogni tempo! È un’esortazione esagerata?

Ma allora dovremo stare tutto il giorno in ginocchio? Anche nelle fabbriche? Nei campi? Nelle banche?

 

“Non chiunque mi dice: «Signore, Signore!» entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7: 21).

Cioè: non chi prega ad ogni momento, ma chi si sforza di porre in atto nella vita quello che professa con le labbra entrerà nel regno dei cieli.

Una mamma che sta in giro tutto il giorno a distribuire opuscoli, che partecipa a continui incontri di preghiera o di studi lasciando a casa i figli incustoditi, non avrebbe certo l’approvazione di Dio, tanto per fare un esempio.

 

E allora?

Allora, col telefono, tutto è tutto risolto: pregare significa parlare con Dio.

Possiamo dirgli cosa abbiamo fatto durante la giornata e lodarlo per il suo amore e la sua bontà. Possiamo ringraziarlo per tutto quello che ha fatto e fa per noi e naturalmente possiamo anche domandargli ciò di cui abbiamo bisogno. Ma non dobbiamo certo pregare il Signore tutto il giorno e in ogni luogo!

Bisogna liberarsi da certi schemi che hanno formalizzato e spesso ingabbiato la preghiera e la sua potenza.

 

“Egli ama la giustizia e l’equità; la terra è piena della benevolenza del Signore” (Sl 32: 5).

 

Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino” (Is 55: 6).

 

È facile, del resto, aver paura di sbagliare, di non sapere trovare le parole giuste, di non rispettare le regole.

 

 

Spontaneità

 

Per molte persone purtroppo pregare vuol dire recitare delle preghiere, preghiere da sapere a memoria. Ma le preghiere diventano così formule, che è facilissimo dimenticare. Nel momento stesso in cui le recitiamo però avvertiamo subito che sono inadatte a esprimere ciò che proviamo nel nostro intimo in quel momento.

Viene voglia di piangere, sfogarsi, protestare, discutere, chiacchierare, disapprovare, oppure semplicemente di far silenzio.

Cioè, con le preghiere preparate, si ha l’impressione di non sapere o di non poter pregare.

 

Spesso sentiamo dire:

“Frequento la chiesa, sono assiduo alle riunioni, ma non so come parlare al Signore”. In tal caso comunque basta ricorrere al al telefono e tutto va a posto.

 

“Non usate troppe parole…” (Mt 6:7)

 

Per telefonare a Dio, non occorrono formule speciali, né lunghe tiritere, ma solo spontaneità. Pregare non vuol dire aprire la memoria, ma il cuore.

Pregare non significa preoccuparsi di ciò che si deve dire, ma significa dire al Signore ciò che ci preoccupa,

“Io amo quelli che mi amano e quelli che mi cercano mi trovano” (Pr 8: 17).

 

Quindi pregare significa dire al Signore tutto ciò che si vuole. Oppure non dire nulla, tacere: la preghiera è fatta anche di silenzio.

Quando due si amano, non sono mai imbarazzati dai silenzi. I silenzi sono imbarazzanti, e ci si precipita a riempirli con inutili futilità soltanto nei rapporti tra estranei.

Non ci sono codici da rispettare nella preghiera, formulari burocratici da riempire.

 

L’unico codice che non va mai violato è l’espressione autentica di ciò che si ha dentro“Apri la bocca soltanto se sei sicuro che ciò che stai per dire è più bello del silenzio”, ammonisce un proverbio arabo.

L’avvertimento vale naturalmente anche per la preghiera.

Noi invece parliamo, non facciamo altro che parlare.

 

Siamo i furbi strateghi di una tattica difensiva; parliamo per non ascoltare il Signore.

Abbiamo paura della sua Parola e giochiamo d’anticipo, lo imbavagliamo sventagliandogli davanti le nostre chiacchiere.

La preghiera autentica non è fatta soltanto di parole (la nostre); è fatta essenzialmente di ascolto della sua Parola.

Stiamocene in silenzio dunque se vogliamo sentire che cosa il Signore ha da dirci, che cosa vuole da noi: “Ascolta, Israele!”, “Ascolta, uomo di preghiera”.

 

L’autenticità della preghiera si misura precisamente dalla nostra capacità di ascolto, dalla nostra disponibilità ad aprire le orecchie e il cuore.

 

Permetti?

Che fastidio certe interminabili telefonate di inguaribili chiacchieroni!

Per illustrarti il loro caso, ti raccontano le cose partendo dalla preistoria, ti rifilano i dettagli più insignificanti, non ti risparmiano centinaia di circostanze assolutamente estranee al fatto. Afferri subito il nocciolo della questione e tenti di bloccare quel diluvio di parole, ma non c’è verso, devi ascoltare tutto fino in fondo.

Qualcuno poi viene a chiedere consiglio, ma se ne va senza aver neppure ascoltato una parola tua. Magari poi si lamentano con qualche amico della tua laconicità: in realtà non eri riuscito affatto a esprimere la mia opinione.

Forse potremmo tener presente un’immagine molto umana ma efficace: quella di Dio che, infastidito dalle nostre chiacchiere, ci interrompe bruscamente: “Basta! ho capito, adesso posso dire la mia?”

 

“E nel pregare non usare soverchie dicerie come fanno i pagani, i quali pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole” (Mt 6: 7).

 

Dobbiamo renderci conto che Dio ha diritto di dire la sua, che del resto è la cosa più importante: i suoi punti di vista, i suoi progetti, i suoi giudizi, i suoi ordini.

 

“O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; e che altro richiede da te l’Eterno, che tu ami la misericordia, e cammini umilmente col tuo Dio?” (Mi 6: 8).

 

Chi prega viene informato su ciò che Dio gli richiede. Non basta chiedere qualcosa a Dio, occorre anche prendere atto delle sue richieste, cosa che si può fare solo nel silenzio.

“Nell’amore, un silenzio vale più di un discorso” (Pascal).

 

 

OSTACOLI ALLA PREGHIERA

 

Cerchiamo ora di individuare i nemici della preghiera, gli ostacoli, gli intoppi incontrati sul suo cammino.

 

Il primo ostacolo è IL CHIASSO.

Qualcuno ha parlato giustamente di un inquinamento sonoro della Terra.

Dal chiasso siamo aggrediti da tutte le parti, non c’è scampo.

Motociclette, televisori a pieno volume, aerei supersonici, transistor e caroselli infernali di macchine, musica da discoteche: siamo assediati dai rumori, piccoli e grandi. Forse alcune persone considerano il rumore un’affer-
mazione di virilità e di coraggio: a ben vedere però costoro sono pieni di paura, paura di sé stessi, della propria solitudine, della propria vita insignificante.

 

Il silenzio, come una belva braccata, è respinto in spazi sempre più angusti e precari.

Il rumore è come un demone che si impadronisce dei nostri centri vitali e può compiervi devastazioni inimmaginabili, anche se noi non ce ne rendiamo conto.

 

Eppure l’uomo sembra essersi abituato benissimo al baccano. Ne ha quasi bisogno, per stordirsi, per evitare di fare i conti col proprio io, di affacciarsi sul proprio vuoto e misurarne la drammatica vacuità.

 

Ma riflettiamoci sopra: senza silenzio non ci può essere preghiera. Per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di Dio, occorre creare uno spazio di solitudine e di silenzio, eliminare tutte le interferenze, bloccare tutte le voci fuorvianti.

 

“Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta, serratone l’uscio fa’ orazione al Padre tuo che è nel segreto; e il padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Mt 6: 6).

 

Il cuore umano diventa il luogo segreto dell’appuntamento, dell’incontro, il santuario della presenza di Dio: il silenzio è il luogo di incontro con Dio.Proseguendo nell’esame dei Popoli della Bibbia, parlerò in quest’articolo dei Filistei e dei Cananei. Quando gli Israeliti entrarono nella Terra Promessa, occuparono solo la parte al centro e al nord del paese.

La parte sud-occidentale restò invece saldamente nelle mani dei Filistei. Quanto poi alle regioni costiere e pianeggianti settentrionali, esse continuarono ad essere occupate dalle primitive popolazioni dei Cananei.

 

 

L’origine e la provenienza dei Filistei

 

Cominceremo dunque dai Filistei sui quali l’archeologia ha effettuato molte scoperte. Se osserviamo uno dei tanti sarcofagi filistei antropomorfi (cioè dalla forma umana), di solito vi troviamo riprodotto un guerriero col caratteristico elmo piumato. Da osservare la notevole deformazione delle proporzioni. È poi importante il bassorilievo di una battaglia navale tra gli Egizi e i Filistei, trovato in Egitto sul monumento funerario di Ramesse III. È ormai accertato che i Filistei (definiti Pheleset sul bassorilievo) facevano parte di popolazioni che lasciarono la regione del mare Egeo intorno al 1200 a. C. Infatti gli Egizi li chiamavano i“Popoli del Mare”.

 

Ma ecco il risultato sensazionale delle scoperte archeologiche: i Filistei erano gli Achei dell’lliade! Gli studiosi hanno infatti appurato che questi Pheleset erano un gruppo di Achei (o Micenei) che si erano trasferiti sulla costa della Terra di Canaan dopo la Guerra di Troia (che non è affatto una leggenda), e che assimilarono ben presto i costumi locali. Ma qualcosa conservarono degli usi micenei, per esempio l’ascia bipenne (visibile in un bassorilievo egizio), e il caratteristico cimiero piumato.

 

È facilmente comprensibile che i Filistei portassero con sé elementi caratteristici della loro cultura. Le loro ceramiche, trovate solo nella regione sud-ovest della Palestina, confermano il racconto biblico a proposito dell’ubicazione delle città filistee. Esse costituiscono un gruppo omogeneo, con soggetti derivati da prototipi micenei ben noti agli archeologi, con disegni geometrici e lineari, come spirali, semicerchi, zig-zag e losanghe.

Nessuna indicazione è ancora emersa dagli scavi sulla lingua parlata dai Filistei, che quindi ci rimane sconosciuta.

 

Un recipiente trovato sovente negli scavi delle città filistee è la brocca con beccuccio a fiorellini, certamente usata per filtrare la birra. È risaputo che la birra era la bevanda più usata a quell’epoca nel vicino Oriente. Che i Filistei ne fossero grandi bevitori si accorda con la descrizione del banchetto descritto in Giudici 16:23-25, quando essi in preda all’ebbrezza spinsero Sansone a fare il buffone, senza accorgersi del pericolo incombente.

 

I Filistei eccellevano nella lavorazione dei metalli e conoscevano l’uso del ferro:

“La tribù di Giuda non poté scacciare gli abitanti della pianura, perché avevano carri di ferro” (Gc 1:19).

Molto tempo dopo, la situazione sotto il regno di Saul era ancora la stessa:

“In tutto il paese d’Israele non si trovava un fabbro, perché i Filistei avevano detto: «Impediamo agli Ebrei di fabbricarsi spade o lance»” (1Sa 13:19).

Eccezionalmente ad Israele veniva consentito di adoperare utensili in ferro per lavori agricoli, purché li acquistassero dai Filistei e fossero disposti a recarsi di volta in volta da loro per la manutenzione e l’affilatura, sottoponendosi al pagamento di prezzi esosi (1Sa 13:20,21).

 

A Tel Qasile, una località vicino a Tel Aviv, alla foce del fiume Yarkon, sono state scoperte di recente delle fornaci dove i Filistei lavoravano il ferro.

Nella stessa località sono stati ritrovati i primi inconfondibili templi filistei, che hanno pochi riscontri con le costruzioni religiose cananee, mostrando invece somiglianze con costruzioni analoghe dell’Egeo o di Micene.

Le rovine di un altro tempio filisteo sono state trovate a Beth-Shan, forse dedicato al dio del grano Dagon. Anche il tempio di Gaza, abbattuto da Sansone, era dedicato a Dagon (Gc 16:23).

Il tempio di Beth-Shan è probabilmente il luogo dove fu portata la testa di Saul, dopo la sua morte sul monte Ghilboa (1Sa 31:9, 10; 1Cr 10:9, 10).

 

 

I Cananei, meglio conosciuti come

“Fenici”, e le loro straordinarie abilità

 

Parliamo ora dei Cananei. Occorre subito dire che quelli che la Bibbia chiama Cananei erano in realtà i Fenici della Storia! La riprova di questo si può avere mettendo a confronto due passi del Nuovo Testamento (Mt 15:21, 22 e Mr 7:24-26), dove è raccontato l’incontro di Gesù con una donna dalle parti di Tiro e Sidone, in Matteo la donna è descritta come cananea, e in Marco è invece chiamata siro-fenicia.

Dell’identità dei Cananei con i Fenici era conscio anche sant’Agostino, che fu nel V sec. d. C. vescovo di Utica (città dell’attuale Tunisia). Egli infatti lasciò scritto che i suoi conterranei, discendenti dei Cartaginesi e quindi dei Fenici, chiamavano ancora sé stessi col nome di Cananei.

 

I Cananei-Fenici furono uno dei popoli più evoluti del 1° millennio a. C.

Ne descriviamo succintamente i lati positivi:

• Erano dei provetti artigiani: innumerevoli loro sculture in avorio sono state scoperte tra le rovine del palazzo di Samaria (uno dei palazzi d’avorio dei profeti). Per i loro capolavori traevano spesso ispirazione da modelli egizi e greci.

• Erano dei favolosi navigatori e commercianti: il capitolo 27 del profeta Ezechiele ne descrive le imprese con stupefatta ammirazione.

• Erano degli espertissimi ingegneri: costruirono la reggia di Samaria, la galleria di Ezechia a Gerusalemme, e tutte le cisterne e i pozzi che gli Ebrei non sarebbero stati in grado di realizzare da soli.

 Il Tempio di Gerusalemme, simile come struttura ai templi di Tiro, fu costruito da maestranze fenicie.

• Le navi di Salomone furono costruite con legno fenicio dei Cedri del Libano, e condotte da marinai fenici.

• La nave su cui si imbarcò Giona per fuggire era una nave fenicia, che andava da Giaffa a Tarsis (Tartesso, oltre le Colonne d’Ercole) a caricare minerali metallici e lingotti.

 

• I Fenici effettuarono per la prima volta nella storia la “circumnavigazione dell’Africa”, secondo la testimonianza di Erodoto.

• I Fenici inventarono il capitello a volute tre secoli prima del capitello ionico dei Greci. Ecco perché il capitello fenicio è chiamato protoionico dagli archeologi. Alcuni capitelli protoionici sono stati trovati tra le rovine del Palazzo Reale di Samaria distrutto dagli Assiri nel 721 a.C.

• I Cananei-Fenici furono anche gli inventori del vetro. Per caso, un giorno sulla riva del mare, avendo acceso un fuoco, videro prodursi il fenomeno della sabbia fusa che formava grumi pastosi e colorati con cui si potevano plasmare oggetti. Fu così che, primi assoluti nel mondo, svilupparono la tecnologia del vetro.

• I Fenici inventarono anche la porpora. Il colore rosso veniva ricavato da un mollusco del tipo murix. La lana di pecora veniva filata e poi tinta con quella sostanza rossa che i Greci chiamavano phoinikos, da cui deriva proprio il nome Fenici. Poi la lana veniva tessuta ottenendo una stoffa pregiatissima, chiamata porpora, che anche le “donne virtuose” di Israele avevano imparato a realizzare (cfr. Pr 31:21, 22).

 

• Prima degli Etruschi e dei Greci, i padroni del Mediterraneo furono i Fenici. Sappiamo dalla tradizione che fondarono Cartagine. E poi crearono porti e fondaci sulle coste della Sicilia occidentale, della Sardegna, delle Baleari, della Spagna e dell’Africa Settentrionale, come hanno stabilito le scoperte archeologiche.

I Romani chiamavano Punici i Fenici di Cartagine, confondendo evidentemente il suono dolce della Ph=F con quello della P.

• I Fenici possedevano raffinate tecniche navali. Ce ne parla Erodoto raccontando la spedizione del 480 a. C. di Serse contro i Greci. I Fenici, al servizio del “re dei re” persiano, furono infatti incaricati della fornitura di tutte navi da guerra della sua sterminata flotta, quella che poi fu sconfitta da Temistocle nella famosa battaglia navale di Salamina. E per evitare alle navi il periplo della penisola calcidica, effettuarono lo scavo di un canale attraverso l’istmo del Monte Athos. Per facilitare poi il percorso dell’esercito, per la prima volta nella storia allestirono un ponte di barche attraverso lo stretto dei Dardanelli.

 

 

Un popolo con una cultura

straordinariamente avanzata

 

Parliamo ora dell’abilità dei Fenici per risolvere il problema dell’acqua.

Di solito gli antichi raccoglievano accuratamente l’acqua piovana in serbatoi assai capienti e accuratamente impermeabilizzati (cisterne), ma preferivano procurarsi acqua sorgiva tutte le volte che era possibile. Questo è sempre stato un problema pressante nel corso della storia, e ancora oggi lo è in numerose aree depresse del pianeta.

Sappiamo che per accedere alle falde acquifere bisogna spesso effettuare scavi profondi, e in questo sia i Filistei che i Fenici erano maestri. Nelle città della Palestina gli archeologi hanno portato alla luce opere imponenti, con pozzi percorsi da scale, e gallerie scavate nella roccia. Presso uno di questi impianti idraulici, le Grandi Acque di Gabaon, si svolse probabilmente il combattimento tra Davide e Is-Boset, figlio di Saul, riferito in 2Samuele 2:12 e segg., un episodio della cosiddetta “guerra civile”.

 

Questa imponente opera idraulica, scavata nella roccia dagli abitanti della regione prima dell’arrivo degli Israeliti, comprende un pozzo di quasi 12 mt di diametro, in cui si scende per 11 mt con una scala di 42 gradini. Sul fondo c’è una piscina, da cui poi si diparte un tunnel che scende ancora per altri 13 mt fino alla falda acquifera. Le Grandi Acque di Gabaon erano diventate famose, e sono ricordate anche in Geremia 41:12.

 

Accenniamo ora al maestoso Tempio di Gerusalemme, culmine di tutti i progetti edilizi di Salomone, che doveva essere la sede permanente dell’Arca del Patto. Per circa 400 anni questo edificio sovrastò Gerusalemme da una collina. L’Arca stava nel Luogo Santissimo, ai piedi di due grandi cherubini, scolpiti in legno d’ulivo e ricoperti d’oro.

 

Nel luogo dove sorgeva il Tempio, è purtroppo proibito scavare. Non possedendo dunque alcun reperto di quell’edificio, dobbiamo accontentarci delle descrizioni letterarie e di reperti di altri edifici religiosi contemporanei. Perciò, oltre alle informazioni ricavate dalla Bibbia (1Re 6; Ez 41), possiamo riferirci ai templi fenici, di cui sono state ritrovate le fondamenta, che presentano alcune analogie con le descrizioni bibliche. Di questi templi fenici ci dà anche notizia Erodoto, specificando che avevano sulla facciata due colonne in funzione decorativa, come era per quello di Salomone.

 

Ma ora parliamo della più grande scoperta dei Fenici: quella della scrittura alfabetica: poco più di venti segni invece delle centinaia di segni delle scritture geroglifica e cuneiforme. Una tappa fondamentale nella storia della civiltà. furono proprio i Cananei-Fenici ad insegnare tale tipo di scrittura agli Ebrei. Su questo ormai non ci sono più dubbi!

 

Uno dei più antichi reperti con questa scrittura è un coccio trovato in un serbatoio di pietra in una casa ebraica vicino ad Afek (Gs 12:18).

L’iscrizione si deve leggere da sinistra a destra, contrariamente ai senso destra-sinistra divenuto tradizionale in seguito per la scrittura ebraica.

Ci troviamo qui di fronte all’esercizio scolastico di un apprendista scriba dell’epoca dei Giudici. I caratteri sono paleo-ebraici o fenici. Dai Cananei-Fenici gli Ebrei appresero dunque questa scrittura alfabetica con solo 22 segni, molto più pratica dei geroglifici o della scrittura cuneiforme che Mosè doveva aver imparato nelle scuole del Faraone.

 

E i Fenici insegnarono poi a scrivere ai Greci, questi agii Etruschi, e gli Etruschi ai Latini. La parola alfabeto, passata poi in tutte le lingue, e che usiamo ancora oggi, deriva dal nome delle due prime consonanti della lista ebraico-fenicia, alef e beth, che i Greci chiamarono poi alfa e beta.

La più antica iscrizione ebraica leggibile finora rinvenuta risale all’epoca di Salomone. Si tratta di una pietra incisa, trovata a Ghezar e conservata nel Museo di Istanbul, su cui è scritto un calendario con l’elenco dei lavori agricoli da effettuare nelle varie stagioni.

 

 

Una grande cultura,

ma… una idolatria senza freni!

 

Finora abbiamo parlato solo bene dei Cananei-Fenici. Ma ecco purtroppo il rovescio della medaglia: i Cananei-Fenici (come anche i Filistei) erano politeisti e idolatri.

La principale loro divinità era Baal, il dio della Tempesta. Astarte era invece la divinità femminile, corrispondente alla Ishtar dei mesopotamici, dea dell’amore e della fertilità.

La Bibbia racconta che il re d’Israele Acab introdusse ufficialmente a Samaria i culti di Baal e di Astarte.

 

Partendo dal periodo dei Giudici fino alla monarchia e ai regni divisi, la sudditanza tecnologica degli Ebrei verso i Filistei e i Cananei-Fenici si tradusse dunque in una progressiva spinta verso l’idolatria. In realtà dobbiamo convenire che gli Israeliti non avevano abbandonato del tutto il culto di Jawè: gli avevano semplicemente affiancato il culto per le divinità straniere, cioè avevano adottato il sincretismo.

 

In molti resti di abitazioni private di città e villaggi della Giudea sono state trovate statuette femminili di terracotta con i seni sporgenti sorretti dalle mani, che dimostrano come le pratiche pagane per propiziare la fertilità si fossero diffuse ormai in tutti gli strati sociali d’Israele.

Altre divinità dei Fenici erano Tanit e Moloch, che per concedere favori esigevano talvolta sacrifici umani. I Fenici esportarono le loro pratiche religiose in tutto il Mediterraneo. Nella località greca di Selinunte, nella Sicilia occidentale, conquistata per un breve periodo dai Cartaginesi, questi trasformarono subito il tempio greco in un santuario di Tanit, riconoscibile per il caratteristico “segno”.

 

L’assimilazione da parte degli Ebrei dei riti religiosi fenici non si limitò al culto di Baal e Astarte, ma arrivò addirittura alla pratica di bruciare in sacrifìcio i bambini, i cui resti venivano sotterrati nei Tofet (parola usata da Geremia, adottata poi dagli archeologi).

Ecco una testimonianza biblica di questa pratica:

“Manasse ricostruì gli alti luoghi che Ezechia suo padre aveva demoliti, costruì altari a Baal, fece un idolo di Astarte… Fece passare suo figlio per il fuoco…” (2Re 21:3-6).

Far passare il figlio per il fuoco significa bruciarlo in olocausto: perché Manasse lo fece?

Forse per propiziarsi il favore del Dio d’Israele?! Terribile, veramente…

 

La Bibbia comunque ci fa sapere che gli avvertimenti al popolo erano stati fatti fin dall’inizio, fin da quando Israele era entrato nella Terra Promessa. Il contatto con quei popoli, per Israele sarebbe stata una prova. Riportiamo alcuni brani significativi:

Giosuè, ormai vecchio, aveva raccomandato al popolo di non mescolarsi con le popolazioni locali, “altrimenti, siate ben certi, esse diventeranno per voi un’insidia, un flagello...” (Gs 23:1-3; 11-13).

Ma gli Ebrei non tennero conto di questi avvertimenti e si diedero all’idolatria:

I figli d’Israele servirono gli idoli di Baal, si prostrarono davanti ad essi e provocarono l’ira del Signore… (Gc 2:11-13).

 

La promiscuità con gli altri popoli sarebbe dunque stata considerata come una “prova” per la fedeltà d’lsraeie, ma questa prova si concluse con un completo fallimento:

“Queste nazioni servirono per mettere Israele alla prova, per vedere se Israele avrebbe ubbidito ai comandamenti… Ma essi abitando in mezzo ai Cananei, sposarono le loro figlie, diedero le proprie figlie come spose ai loro figli, e servirono i loro dèi” (Gc 3:4-7).

Se di una prova si era trattato, questa prova dunque fallì miseramente.

 

Passati alcuni secoli, vediamo quello che poi successe:

“Il Signore mandò loro a più riprese degli ammonimenti, perché voleva risparmiare ii suo popolo, ma quelli disprezzarono le sue parole, finché non ci fu più rimedio” ( Cr 36:15,16).

Fu così dunque che la pazienza di Dio, dopo tanti avvertimenti, giunse al punto di non ritorno, e il “Signore della Storia” decise di punire il suo popolo infedele, usando prima gli Assiri e poi i Babilonesi come “verghe” nelle sue mani.

Questo sarà l’argomento del prossimo articolo.