Tempo di lettura: 2 minuti

Una giovane mamma cristiana con un bel pancino, a pochi mesi dall’inizio della sua gravidanza, al momento dei saluti dopo un incontro familiare con una sua parente, anche lei “figlia di Dio”, si sente rivolgere con suo grande stupore le parole di augurio forse più abusate e più frequenti nel mondo: “In bocca al lupo!”. Ma non c’è stata la risposta di rito tipica di queste situazioni: “Crepi il lupo!”; non c’è stata proprio risposta. Infatti la sorpresa è stata così tristemente… sorprendente che la giovane mamma è rimasta senza parole, ma, a mente più serena, ha poi pensato che avrebbe voluto e dovuto dirle: “La vita mia e del mio bambino sono nelle mani del Signore non certo… nella bocca del lupo!”.
Questo episodio, che qualcuno potrebbe giudicare di per sé banale e quindi non degno di attenzione, merita in realtà una attenta riflessione, perché è davvero una gran tristezza quando come figli di Dio ci lasciamo condizionare, nel comunicare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, dalle parole o dalle frasi di moda nel mondo intorno a noi. Le parole servono per comunicare quello che pensiamo e che crediamo, quindi delle parole che utilizziamo dovremmo ben conoscere il significato. L’espressione sopra citata, ad esempio, ha acquistato nel corso dei secoli un valore scaramantico. Davanti alla prospettiva di affrontare una prova o una difficoltà certamente non desiderate, si cerca di scongiurarle esprimendo il desiderio che accadano davvero: la tradizione attribuisce quindi alle parole il potere di esorcizzare il pericolo. Quanti usando questa espressione conoscono il suo significato magico e scaramantico? Quanti sanno che è da sempre usata con lo scopo di allontanare la sfortuna e il malocchio?
Un figlio di Dio può a parole affidare la sua vita al suo Signore e poi pronunciare auguri di questo genere? “La sorgente getta forse dalla medesima apertura il dolce e l’amaro? Può forse, fratelli miei, un fico produrre olive o una vite fichi?” si chiedeva Giacomo (3:12) per incoraggiare a riflettere sul fatto che le parole che pronunciamo esprimono quello che abbiamo nel cuore e nella mente. E, se la nostra mente è davvero totalmente occupata dalla presenza del Signore e dalla fede nel Signore, simili espressioni di augurio non usciranno mai dalle nostre labbra perché “un fico non può produrre olive”!
Ma ci sono anche altre parole che, condizionati dal loro uso comune, utilizziamo anche noi figli di Dio senza dare a questo fatto il peso e la considerazione che in realtà merita. Quanto è brutto sentire da parte di persone che si dichiarano credenti in Cristo usare le parole “fortuna” o “sfortuna”. Un figlio di Dio in realtà non deve dirsi mai “fortunato”, ma davanti agli eventi che egli giudica positivi e favorevoli della sua vita, può e deve soltanto dirsi “benedetto” dal Signore e non certamente dal caso! Allo stesso modo egli non deve mai dirsi neppure “sfortunato”, perché davanti ad eventi della vita che valuta come sfavorevoli perché in contrasto con quello che per la sua vista limitata egli ritiene essere il suo bene, può e deve dirsi “provato”, messo alla prova dal Signore e non da un casuale destino. “Sia dunque che viviamo (= il massimo della «fortuna»), o che moriamo (= il massimo della «sfortuna»), noi siamo del Signore” (Ro 14:8). La realtà che dovremmo esprimere anche con le nostre parole è l’assoluta certezza che la nostra vita appartiene al Signore e che ogni evento che ci accade è una tessera non casuale nel mosaico del nostro cammino.