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“Ho questo contro di te…”:  intento non distruttivo ma di salvezza!

 

Anche questo passaggio delle lettere ha una sua ragion d’essere, in quanto affonda le sue radici nell’identità del mittente e nel modo in cui quest’identità è presentata ai credenti delle chiese. Gesù Cristo ha pieno diritto sulle sue chiese per il fatto di aver dato loro la vita, l’esistenza e per questo egli può agire in giudizio contro quelle che a tutti gli effetti sono una sua opera. Ma l’azione del Signore Gesù Cristo, espressa con questa forte dichiarazione (“Ho questo contro di te…”), non ha un intento distruttivo ma di salvezza.

 

Nell’ottica di questo obiettivo, l’essere contro da parte di Gesù Cristo prende la via della purificazione storica del suo popolo (la disciplina e la correzione di cui parla Ebrei 12) per ragioni di integrità (il giudizio che comincia per primo dalla casa di Dio in 1Pietro 4:17) e per ragioni di purezza escatologica (Ef 5:27).

Lo strumento del confronto tra Gesù Cristo e la sua Chiesa e le chiese è la spada, vale a dire la Parola di Dio (1:16; immagine ripresa per la chiesa di Pergamo, 2:12; vedi anche 19:15).

 

Troviamo dietro questa stupefacente dichiarazione di ostilità la forza polemica che a volte animava il profetismo dell’Antico Testamento (Osea per es.) e che ritorna anche sulle labbra, nelle azioni e nei gesti del Signore Gesù. Si tratta di un atteggiamento che risente della relazione intima tra Dio e il suo popolo che a volte si esprime con il linguaggio della gelosia. È però la nozione di zelo quella nella quale affonda questo confronto diretto e drammatico tra il Cristo e la sua Chiesa: questo farà lo zelo del Signore, è la formula che spesso ricorre nell’Antico Testamento (p.es. Is 9:6).

 

L’essere contro non è senza alcuna ragione, così, giusto per partito preso, ma è puntuale e preciso, contingente e circostanziato: Cristo è contro questo, contro quello, contro… qualcosa. L’idea di un Dio che per ragioni inscrutabili è capricciosamente arrabbiato nei confronti dell’umanità, tanto da ingenerare nel povero genere umano una serie di disturbi di ordine non solo spirituale, è distante dall’immagine del Dio biblico.

 

Nel libro dei Proverbi si specifica il numero delle cose contro le quali il Signore è contro e al di là della contingenza, colpisce in questo caso la circoscrizione, il numero definito, dell’accusa divina:

“Sei cose odia il SIGNORE, anzi sette gli sono in abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente, il cuore che medita disegni iniqui, i piedi che corrono frettolosi al male, il falso testimone che proferisce menzogne, e chi semina discordie tra fratelli” (Pr 6:16–19). E non può essere diversamente per colui nel quale al presente si manifesta l’azione di Dio, vale a dire il Signore Gesù Cristo (Mt 12:31-32).

 

 

Contro cosa è il Signore?

 

Anche in questo caso, come nel caso del “Io conosco le tue opere”, abbiamo un quadro complessivo abbastanza variegato di ciò che non va. Ci sono cose verso le quali il Signore è contro che concernono chiaramente la vita interna della singola chiesa:

• Sia a Tiatiri sia a Pergamo è contestata l’incapacità di gestire il fenomeno dei Nicolaiti e la loro proposta “liberale” e tollerante.

• Anche ad Efeso è contestata una dinamica interna che con ogni probabilità, e paradossalmente, nasceva proprio dal modo in cui era stata gestita e respinta la dinamica liberale che affliggeva le altre due chiese.

• Sia a Sardi sia a Laodicea sono contestati al contrario dei modi di essere delle comunità che risentono maggiormente dell’ambiente sociale cittadino.

 

Insomma, ciò che non va ha a che fare sia con la vita interna sia con le forme della presenza esteriore di queste chiese. La tolleranza gestita male a Pergamo e Tiatiri faceva correre il rischio a queste chiese di diventare qualcosa di diverso all’esterno. Il problema che affliggeva Efeso ne poteva mettere a rischio la funzione illuminante. Il lassismo morale di Sardi aveva scavato un solco interno alla chiesa, mentre l’ipocrisia, importata dall’apparente opulenza sociale, segnava oramai la vita di Laodicea.

 

Di fronte a questo quadro che analizzeremo fra breve viene da chiedersi se non ci sia qualche relazione tra il modo di essere interno delle chiese locali e il loro modo di porsi all’esterno, vista la possibilità che i due versanti si influenzino in modo così negativo.

Non si discute nelle lettere di problematiche relative alla “forma” della chiesa (tranne forse qualche allusione alla gestione della profetessa Iezebel). Le chiese sono viste non nel loro carattere strutturale (anziani, diaconi, ecc…) ma nel loro modo di essere comunitario, come insieme di credenti al quale è rivolto, senza nessuna distinzione, l’atto di accusa. A volte questo atto di accusa è generalizzato (Pergamo) a volte colpisce solo una parte della chiesa.

 

Fatta questa notazione, e tornando all’interrogativo sui legami esistenti tra l’esterno e l’interno, si può certamente dire, meditando a volo d’aquila su ciò che non va in queste chiese che, per approssimazione, a queste chiese, così come alle nostre possa applicarsi un principio generale: si è all’esterno ciò che si è all’interno. La riflessione sui modi di essere nel mondo non può prescindere da una riflessione sui modi di essere chiesa. Ancora, non stiamo parlando di struttura della comunità locale. Ci stiamo riferendo al che cosa pensiamo di noi stessi come insieme di credenti e al fatto che questa coscienza influenzerà il modo in cui pensiamo al contesto sociale più ampio.

Oppure, per converso, riflettiamo un attimo sul ruolo che assegniamo alle nostre comunità come comunità socialmente identificabili e al modo in cui questa visione retroagisce sulla vita delle nostre chiese e dei membri. Ma per tentare di rispondere a questi interrogativi, vediamo più da vicino alcune problematiche che l’atto di accusa di Cristo fa emergere in queste chiese.

 

 

1. Una forma sbagliata di tolleranza

 

L’idolatria, in particolare il culto dell’imperatore (“il trono di Satana”), caratterizzava la vita cittadina diPergamo.

Tiatiri, ci dicono gli storici, era segnatamente una città attiva sotto il profilo commerciale. Il Nuovo Testamento testimonia di questa particolarità ricordandoci che Lidia (una donna, come donna lo era Iezebel) era commerciante e veniva proprio da Tiatiri (At 16:14). Ma queste condizioni generali non rappresentavano tanto un problema per le due chiese, quanto lo era il modo in cui esse s’inserivano nello scenario sociale, partendo da un modo di autoconcepirsi. La loro proposta, infatti, non era univoca ma articolata, forse confusa, sicuramente non in linea con il decreto apostolico (At 15:28), il peso, l’unico peso di cui si parla in 2:24 e che discendeva appunto da quella disposizione apostolica. All’interno di queste due chiese, infatti, come anche nella chiesa di Efeso, agiva questo gruppo del quale non sappiamo praticamente nulla da un punto di vista storico, sociale ed ecclesiologico, i Nicolaiti.

 

Secondo una tradizione (non fondata) risalente a Ireneo questi vengono fatti discendere da uno dei sette diaconi di Atti 6:5, ma in realtà non abbiamo molti indizi sul loro conto. L’azione di questo gruppo, sulla base di un insegnamento (dottrina) di fondo, si manifestava forse in modo diverso a seconda del contesto locale. E la loro dottrina non deve essere intesa come un sistema di credenze elaborato, come saranno più tardi i sistemi gnostici. Per poter avere un quadro della loro ideologia è necessario sfruttare appieno il riferimento ai due personaggi dell’Antico Testamento ai quali vengono associati: Balaam per Pergamo e Iezebel per Tiatiri. Si tratta di due personaggi entrambi pagani che avevano influenzato il popolo di Dio sia con l’istigazione all’idolatria sia con pratiche proibite dalla Legge di Mosè (fornicazione). Essi erano interpreti e proponenti di un modo di essere del popolo di Dio che si scontrava con ciò che Dio stava rivelando tramite Mosè e tramite i profeti (Elia ed Eliseo).

 

A proposito di Balaam dobbiamo ricordare i due principali episodi del libro dei Numeri che lo concernono: quello della tentata maledizione di Israele (Nu capp. 22 e segg.) dietro pagamento da parte di Balac, con l’asina che si mette di traverso per fermarlo e con lo stesso Balaam che si ritrova alla fine a proferire uno degli oracoli messianici più belli (Nu 24:17, “un astro sorge da Giacobbe”, vedi “la stella del mattino”, rievocata in 2:28). L’altro, quello nel quale Balaam fornisce lo sciagurato consiglio della promiscuità legata al culto di Baal–Peor (Nu 25 e 31:8, 16) nel tentativo dei Madianiti di arrestare la marcia d’Israele verso la terra promessa.

Iezebel, al contrario, era la sanguinosa regina moglie del re Acab che riempì il regno del Nord del culto e dei profeti di Baal e che era acerrima nemica del profeta Elia (1Re 16:31).

 

Questi personaggi continuarono a essere interpretati nella tradizione giudaica come campioni di antinomianismo (da: antinomia = contro la legge), come antagonisti di Mosè e sprezzanti dei limiti posti dalla legge nei confronti dell’idolatria e di tutto ciò che era promiscuità. I cristiani condividevano questa lettura, anche se nel caso di Balaam dovevano subire l’oltraggio di una propaganda giudaica che lo assimilava addirittura a Gesù, l’antinomiano (= il contro la legge) per eccellenza, secondo un certo giudaismo. Non è un caso che nella letteratura rabbinica posteriore Balaam, Tito l’imperatore e Gesù verranno posti tutti e tre all’inferno, come nemici dell’ebraismo.

 

I Nicolaiti, allora, letti mediante il filtro di queste figure tipizzate, emergevano come pseudo–cristiani intenti a coltivare un approccio “liberale” verso la società pagana dell’Asia Minore, un approccio che si esprimeva in sfere dell’esistenza nelle quali l’istruzione apostolica era stata abbastanza precisa (At 15:20 e 29).

Mentre nel caso di Balaam viene posto in evidenza il suo ruolo d’istigatore all’idolatria (il modo di far cadere), secondo la parola che troviamo in Numeri 31:16, nel caso di Iezebel l’accento sembra posto maggiormente sulla dimensione morale, sul lassismo che poteva derivare da precise scelte, con la fornicazione che viene posta in un ordine rovesciato rispetto

all’idolatria (2:20).

 

Il Signore non può non essere contro l’idolatria e la promiscuità. Tuttavia queste disubbidienze restano sullo sfondo e ciò contro cui il Signore è contro, prima di tutto, è il fatto che queste proposte, prima ancora di essere messe in pratica (le opere dei Nicolaiti, 2:6), erano presenti e tollerate nelle chiese. Balaam e Iezebel (i Nicolaiti) sono figure attive nell’ambito delle comunità, erano insegnanti che si facevano portatori di un modo di essere della chiesa che doveva modificarsi dal di dentro. La chiesa doveva essere in un certo modo, per poter poi occupare un posto suo specifico nell’ambito della società cittadina.

 

A questo punto, dopo aver abbozzato le problematiche interne alla vita delle chiese nelle quali ruotavano i Nicolaiti, dobbiamo guardare un attimo all’esterno delle chiese, a quella sorta di accerchiamento che esse sperimentavano.

 

• Da una parte c’erano le comunità giudaiche che erano dedite alla delazione e alla denuncia di coloro, i cristiani, che consideravano sempre più come eretici e dai quali bisognava prendere le distanze.

• Dall’altro lato c’era la società pagana con la diffusa idolatria nell’ambito della quale si faceva sempre più spazio la religione dell’Imperatore, l’unica che, se ossequiata, poteva fornire alle chiese un ombrello di accettabilità diverso da quello delle comunità giudaiche.

 

In entrambi i casi era in gioco l’essenza ultima della chiesa. A Efeso questo lo avevano capito e avevano fatto resistenza, proprio quella resistenza la cui assenza è contestata a Pergamo e Tiatiri.

In questo dilemma, si chiedeva l’archeologo Ramsay, cosa avrebbe potuto rappresentare un piccolo rito in onore dell’Imperatore, quello che veniva richiesto per aderire formalmente alla religione di Stato? Dopotutto, era meglio schierarsi con la maggioranza della società pagana e godere di una qualche libertà che non vivere all’ombra della sinagoga (di Satana) con il rischio della delazione.

E, dall’altro lato, per persone fortemente inserite nel proprio contesto sociale (mai nelle sette lettere viene suggerita una logica dell’abbandono di posizioni sociali e pubbliche), come si poteva prescindere da quei rapporti tipici delle associazioni professionali, delle “gilde” sindacali, dei club dove nasceva il problema della promiscuità?

 

Ma nelle società antiche l’intreccio tra pubblico e privato era un’insidia ancor più forte di quanto non lo sia oggi.

Che cosa avrebbe impedito, dopo l’adesione a qualche rito esteriore della religione dell’Imperatore, che si affacciassero alla coscienza dei credenti e con la stessa perentorietà dell’offerta dell’incenso, altre esigenze del culto imperiale? E nell’ambito delle “gilde” e delle associazioni, che cosa avrebbe significato un’adesione totale e senza critiche ai loro statuti religiosi intrisi d’idolatria? In entrambi i casi si trattava di portare l’elemento che caratterizzava l’identità dei cristiani, che gli dava finanche il nome, Gesù Cristo, nel Pantheon religioso e politico che l’Imperatore stava costruendo. In questo Pantheon Gesù avrebbe dovuto condividere il trono con Cesare.

 

Dunque il Signore era contro una tolleranza interna alla chiesa che aveva raggiunto livelli insopportabili e che si poneva l’obiettivo di rendere le comunità più accettabili nel contesto sociale in cui vivevano. Il criterio di valutazione era il decreto apostolico e il discernimento da parte delle comunità locali nell’applicarlo con saggezza. A Corinto, Paolo, avendo a che fare con situazioni simili e in circostanze ambientali giudicate evidentemente diverse da quelle dell’Asia Minore di cinquant’anni dopo, fa perno, nella sua riflessione relativa alle carni sacrificate agli idoli, sul rapporto tra i forti e i deboli. Ma qui, l’apostolo chiede di parlare con una voce sola, chiede ai cristiani di trovare la sintesi nell’istruzione apostolica e di attenersi a essa, costi quel che costi. Ripetiamo, non c’è, neanche tra le righe, il paventare un ritiro della chiesa e dei credenti dallo scenario sociale.C’è il rifiuto della logica che per essere visibili in tale contesto bisognava agire sugli elementi della propria identità.

E questa è stata, purtroppo, una strada sempre facile da percorrere, anche oggi. Essere sé stessi, parlare con una voce sola, pur dovendo trovare la strada per essere adeguatamente nel mondo, senza essere del mondo, è infatti un percorso molto più accidentato e difficile.

Dalla parte delle chiese, come vedremo, sta la promessa dell’assistenza (“chi ha orecchi ascolti”), e della vittoria (“a chi vince”). Ma sta anche la certezza della signoria di Dio: “Io ti conosco … so dove tu abiti”.

Attenzione, però, e in conclusione: se la tolleranza non va bene, non va neanche bene l’intolleranza, come vedremo nel caso di Efeso.

 

 

Il piano inclinato

 

Una seconda fonte di preoccupazione, anche se non è indicata con la formula che stiamo analizzando (“ma ho questo contro di te”) la troviamo nella condizione della chiesa di Sardi, alla quale Cristo si rivolge parlando di opere non perfette (3:2). La chiesa non sembra essere alle prese con la persecuzione, non sono indicate particolari deviazioni all’interno e stranamente non si fa riferimento alla comunità giudaica la cui presenza era pure attestata in città fin da epoca antica. Tuttavia, l’invito al ravvedimento, che ha la stessa forma della chiesa di Efeso (“ricordati”) e l’avvertimento (“io verrò”), temi sui quali rifletteremo nel prossimo studio, ci permettono di individuare in questa chiesa una notevole fonte di insoddisfazione per il Signore.

 

Il titoletto di questo paragrafo (“piano inclinato”) fa riferimento a una teoria che si trova negli studi di etica per la quale, nell’ambito della giustificazione di precisi comportamenti morali, posti alcuni principi o anche solo delle premesse logiche, ne consegue uno scivolamento verso scenari etici che non erano paventati nelle stesse premesse.

Eugen Peterson, studioso americano e autore di una parafrasi della Bibbia in inglese corrente (The Message), riflettendo sulle ragioni della caduta irreparabile dei cristiani afferma che questa “non è il tipo di cosa nella quale si cade per caso o nella quale si scivola per ignoranza. La defezione necessita un rifiuto intenzionale, deciso e provato” (“Ubbidire a lungo in una sola direzione”, Edizioni GBU, p. 99).

 

Questi esempi servono a illuminare ciò contro cui Cristo non può non essere contro e che per la chiesa di Sardi è espresso con parole eloquenti: “sei morto…”, il resto sta per morire e con la registrazione delle opere non perfette. Il tutto nell’ambito di una più generale condizione di simulazione (3:1, “hai fama di vivere ma sei morto”). Forse non c’è tra le sette lettere una che leghi maggiormente la condizione storica e ideologica della città alla situazione della chiesa, come questa lettera, tranne forse la lettera a Laodicea.

 

La città di Sardi era nota nel mondo antico per essere stata una città dal passato glorioso e dorato (grazie alle leggende sui suoi famigerati sovrani: Gige e Creso su tutti). Ma alla fine del secondo secolo questo era solo un passato memorabile e glorioso che strideva con un presente piuttosto comune nell’ambito della geografia del Mediterraneo. Certo, bisogna dire che la città si era ripresa dopo uno spaventoso terremoto. Tuttavia la sua fama era più mitica che reale. Inoltre, la città era nota anche per un altro fatto, questo abbastanza sconcertante: la sua collocazione topografica la poneva in una condizione che si riteneva inespugnabile, essendo circondata per parte del suo territorio da uno strapiombo. Eppure, e per ben due volte, era stata espugnata proprio dal lato che riteneva inattaccabile.

Queste condizioni generali della città hanno sicuramente ispirato le esortazioni della lettera. La chiesa infatti è vista in questo declino continuo e inesorabile, con le cose migliori che si collocano tutte al passato, con il presente occupato dalla riprensione e con il futuro appeso alla capacità di questi credenti di rispondere alla sferzata della Parola. In questa condizione la chiesa era anche sprovvista di un’adeguata sorveglianza nei confronti dei pericoli che correva e anche coloro che “non hanno contaminato le loro vesti” correvano essi stessi il rischio della morte: “stanno per morire”. Il vanto e il richiamo a una vita apparente non rappresenta che una preoccupante aggravante, mentre gli indizi spirituali di una tale presunta vitalità puntavano in un’altra direzione.

 

Si tratta sicuramente di una condizione di indolenza (Eb 6:12), forse, ma possiamo solo ipotizzarlo. Sicuramente una situazione in cui, raggiunto un certo equilibrio proprio su quei temi per i quali a Pergamo e Tiatiri si chiedeva di non fare compromessi (da qui il silenzio su difficoltà interne o esterne) per la chiesa non si poneva altra missione che sopravvivere, irretita da un’inerzia e un lassismo spirituale. Insomma, a Sardi c’è uno scenario che se non è quello del benessere che porta all’orgoglio (come a Laodicea), è quello dell’assenza di stimoli spirituali, completamente sostituiti forse da stimoli di altro genere.

A Sardi si sta scivolando su un piano inclinato.

 

 

3. L’orgoglio ipocrita

 

L’orgoglio ipocrita, lo sappiamo, è la condizione di Laodicea, l’altra lettera in cui ci sono riferimenti espliciti alla vita cittadina. Sono stati versati fiumi di inchiostro sulla condizione di questa chiesa. Qui il benessere e l’opulenza non sta solo all’esterno della chiesa ma è penetrato anche all’interno, soprattutto vi è penetrato ciò che da un punto di vista spirituale segue il benessere non raggiunto con integrità: l’orgoglio. È come se ci trovassimo di fronte allo stadio successivo e sublimato della condizione della chiesa di Sardi.

Possiamo pensare alla chiesa di Corinto, a come Paolo la descrive nella sua arrogante autocoscienza di possedere tutti i doni, di avere una marcia in più (“Già siete sazi, già siete arricchiti, senza di noi siete giunti a regnare!”, 1Co 4:8). Senza considerare “invece” che il suo autentico stato era ben diverso.

In questi casi forse bisogna aspettare degli eventi che giungano a sconvolgere le false percezioni di sé stessi e a rivelare all’improvviso la vera condizione di una chiesa. Ma è sicuramente la Parola di Dio e la pressione dello Spirito a inquietare quello che altrimenti sarebbe un vero e proprio status quo. La chiesa non è né calda, da poter curare i malanni spirituali, né fredda da poter refrigerare i credenti; è semplicemente inefficace, inutile (“tiepida”).

 

La necessità di fare acquisti direttamente da Cristo può alludere alla tendenza a uno shopping spirituale che non considerava l’unicità e la veridicità del Signore (“il Testimone fedele e verace”).

È evidente che una chiesa in un tale stato può divenire un segno di contraddizione per il contesto che lo circonda; è una condizione che potrebbe raccogliere consensi sul piano della descrizione delle realizzazioni esteriori (“tu dici”), facendo leva su una visibilità socio-religiosa. Ma su questo piano essa si espone prima di tutto all’ironia divina e, sempre sullo stesso piano, potrebbe esporsi alla critica dell’ambiente che lo circonda. Penso ad alcuni aspetti dell’evangelismo nordamericano che da un lato ambisce a una forte presenza nella cultura e nella società statunitense e, dall’altro lato, stando ad alcune ultime indagini statistiche, rivela preoccupanti segni di declino morale.

 

 

4. Lo zelo senza amore

 

E, infine, c’è lo zelo senza amore (Efeso).

In Geremia 2:2 troviamo l’antefatto veterotestamentario di questo teso dialogo d’amore. L’immagine poi è molto sviluppata per il rapporto tra YHWH (lo sposo focoso e premuroso) e Israele la vergine insignificante che divenuta signora avvenente abbandona il suo primo amore per darsi alla prostituzione (Osea). Qui comunque nel caso di Efeso non è tanto in vista e in prima battuta l’amore per Dio, lo zelo. Gli elogi rivolti a questa chiesa sono troppo forti per non poterli collocare nell’ambito dello zelo, quello zelo per la casa di Dio che rodeva il salmista (Sl 69:9).

 

L’elenco degli elogi per questa chiesa è eloquente: opere, fatica e costanza; non sopporta i malvagi e ha messo alla prova gli pseudo–apostoli, trovandoli bugiardi; ha costanza, ha sopportato molte cose per amore del nome del Signore e non si è stancata. Infine detesta, schierandosi dalla parte di Cristo, i Nicolaiti (v. 6). Come si può vedere si tratta di “opere” che si collocano lungo l’intero arco dell’esistenza della chiesa, cioè al passato e al presente.

 

Tuttavia a questa chiesa che manifesta questo zelo per la verità, questo impegno dottrinario, viene contestatal’assenza dell’amore di un tempo, il primo amore. È evidente da ciò che andiamo dicendo che non è messo sotto accusa lo zelo e l’impegno ortodosso che discendono dall’amore per il nome del Signore. Non si erano addormentati; non avevano bisogno di risveglio e di calore. Resta allora il mistero sul che cosa possa significare questo “amore di un tempo” che ora non c’è e per il recupero del quale si chiede di “compiere le opere di prima”.

 

Ci resta una sola risposta, ricordandoci che l’amore è una categoria biblica onnicomprensiva che non ha solo una direzione verticale ma anche orizzontale. Non c’è solo l’amore per il Signore, lo zelo, senza una corrispondenza di amore fraterno o addirittura umano, nel senso di amore per le persone. Anche per quelle dei falsi apostoli e dei Nicolaiti? Probabilmente questa è una falsa questione per il contesto della lettera e della chiesa. In un certo senso, però, è vero che il momento in cui più forte si fa la tensione dello zelo e della passione per l’onore del nome del Signore, più forte è la tentazione di “maledire”: si può benedire il Signore e Padre e, nello stesso tempo, maledire gli uomini che sono fatti a somiglianza di Dio (Gm 3:9). Sono molti i brani che ci ricordano che la ricerca e il mantenimento della verità deve essere fatto in carità (Ef 4:15).

 

Se in questo appello all’amore di un tempo c’è una dinamica orizzontale, allora è probabile che qui si vuole ricordare alla chiesa di Efeso che lo zelo del Signore deve essere accompagnato, sempre, dall’amore per i fratelli. La ricerca spasmodica dell’ortodossia e della sana dottrina può inaridire, per cui si può cadere nell’ambigua condizione di essere elogiati per la sana dottrina e rimproverati per la scarsa considerazione dei fratelli e della vita di comunione.

Viene da pensare, in questa lettura del ciò contro cui si schiera il Signore, a quante divisioni si creano per mancanza di amore fraterno e vengono poste invece sotto l’insegna della sana dottrina e della teologia.

 

Dunque, questa è la mia proposta: una condizione di ossessiva ricerca della precisione dottrinale porta alla relativizzazione quando non alla brutalizzazione e comunque al raffreddamento delle relazioni fraterne interne. Molto spesso la finezza dottrinale distrugge il sentimento comunitario, alimentando il sospetto, la presunzione e la caccia alle streghe.

 

Abbiamo detto all’inizio che la postura minacciosa dello Spirito (“Ho questo contro di te…”) non vuole essere l’ultima cosa che le chiese locali devono ascoltare e vedere del loro Signore. Si tratta della premessa necessaria dell’auspicata manifestazione dell’amore“Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo”, annuncia “l’Amen” alla chiesa che ha meritato i rimproveri più radicali.