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Il valore delle opere per la santificazione

 

In almeno sei delle lettere troviamo la formula con la quale Cristo si presenta come un interlocutore ben avvertito sulle dinamiche della vita delle sue chiese: “Io conosco”.

Abbiamo visto nel primo studio che questa possibilità discendeva dalla natura di Cristo come è descritta nella visione del capitolo 1°.

Egli ha attributi di onniscienza e nello stesso tempo intrattiene relazioni intime e profonde con le chiese tali da permettergli una profonda e intelligente penetrazione della loro condizione spirituale.

L’Io conosco è relativo a questa condizione spirituale così come questa può essere rilevata da quella realtà che secondo il Nuovo Testamento è in grado di rivelarla: le opere.

La formula completa è infatti “Io conosco le tue opere” (2:2, 9, 19; 3:1, 8, 15). L’indagine ispettiva riguarda dunque e principalmente le opere, vale a dire ciò che può essere motivo di vanto e di autogiustificazione se è presentato come frutto della propria condizione autonoma da Dio (le opere della legge, della carne, ecc..), oppure ciò che può essere considerato lo sviluppo della fede cristiana, il frutto dell’azione rigeneratrice dello Spirito.

 

Le opere, in quest’accezione, rivelano l’intima relazione che esiste tra l’azione pratica e l’adesione completa al piano di Dio, all’interno del quale sono pensate le opere della nostra santificazione (Ef 2:9).

 

Nel periodo che viene definito delle ortodossie protestanti, vale a dire successivo alla grande Riforma del XVI secolo (grosso modo il 1600), le Confessioni di fede che venivano formulate, a volte, purtroppo, semplicemente per sancire le divisioni tra partiti protestanti (riformati, luterani, battisti, anabattisti, ecc..), ponevano grande enfasi sulla presenza delle opere nella santificazione, dopo naturalmente aver rilanciato il grido di battaglia dei Riformatori: la giustificazione per grazia mediante la fede.

 

La Confessione di fede Valdese del 1655, per esempio, è a tal fine molto eloquente sostenendo che la presenza delle opere, che non causa di salvezza, ma conseguenza della salvezza, è addirittura un requisito per la comunione in gloria con Dio. Altri tempi!

 

Ma la cognizione del Cristo risorto non si limita a porre davanti agli occhi delle singole chiese le opere che la sua onniscienza riesce a individuare e isolare (le tue opere): essa è più ampia e prevede una serie di stadi del conoscere che rivelano la sovranità del Figlio di Dio non solo come premessa per il giudizio (ho questo contro di te) ma anche come garanzia della sua protezione (lettera a Filadelfia).

 

 

Io so dove tu abiti

 

Gesù Cristo esprimendosi in questo modo dimostra di conoscere le condizioni ambientali in cui si svolge la vita delle singole chiese. Quel “Io so dove abiti” (2:13) fa da preludio, nel caso di Pergamo, alla registrazione precisa di ciò che era accaduto in città al fedele testimone Antipa. Gli storici e gli studiosi della geografia biblica di quest’area segnalano la competizione tra le città di Efeso, la grande città commerciale, e Pergamo. Quest’ultima riuscì a spuntarla e a superare in alcuni periodi la grandezza di Efeso divenendo la località con il tasso di religiosità più alto di tutta la regione. Pergamo era infatti una località in cui più forte si sentiva il peso dell’idolatria: l’espressione “il trono di Satana” può riferirsi sia al grande tempio dedicato a Zeus sia al culto imperiale abbondantemente praticato nella città e a partire da essa in tutta l’area geografica.

 

I cristiani sperimentavano e avevano di per certo sperimentato sulla loro pelle (Antipa) le conseguenze della loro presenza in un centro così particolare. Giova segnalare che proprio a partire dall’oscuro episodio della morte di Antipa, e per tutto il libro dell’Apocalisse, il termine greco martus tradotto con “fedele testimone” andrà a indicare la testimonianza fedele e verbale alla verità (Gesù è il fedele testimone per eccellenza) resa con la propria vita (martirio).

 

Al di là di questi e altri suggestivi particolari storici, abbiamo qui un’indicazione molto forte del fatto che il Signore conosce il contesto generale in cui opera il suo popolo. Egli non è solo interessato a ciò che accade tra le mura del nostro locale di culto. Egli si interessa anche al modo in cui ciò che qui accade è collegato al mondo esterno. Egli, per esempio, sa che molti suoi figli o figlie vivono la loro fede nel contesto di famiglie non credenti (1 Pietro).

 

Egli sa che a volte le condizioni generali di vita prevedono crisi lavorative e sociali (la povertà della chiesa di Smirne, 2:9) che possono mettere a rischio una sana e devota vita cristiana. Egli non è disinteressato alla permeabilità dell’ambiente sociale in cui si colloca la sua luce, il suo candelabro, cioè se questo ambiente è capace di rispondere alla testimonianza dei credenti oppure se questi ultimi sono permeabili alla corruzione dell’ambiente che li circonda.

 

Spesso viene da pensare ai nostri padri e fratelli dell’800 che senza alcuna giustificazione “teologica” compresero che l’annuncio del Vangelo in Italia non poteva essere separato da un impegno concreto per la realizzazione dell’idea di nazione italiana. Nella loro esperienza la professione della fede fece il pari con l’impegno nel fare l’Italia e nell’indicare ai propri connazionale “la religione che ci abbisogna” (T.P. Rossetti, La Vedetta Cristiana, 1873).

La conoscenza che Cristo ha dell’ambiente in cui si sviluppa la vita delle altre chiese dell’Asia rivela chel’ambiente non era sempre ostile. Alla chiesa di Laodicea lo Spirito di Cristo segnala come la sua opulenza non era altro che il riflesso dell’opulenza della città: “Sono ricco, mi sono arricchito”.

 

Il Signore conosce dove è ambientata la sua testimonianza oggi. Egli sa che la maggior parte della sua chiesa, in questo momento storico, vive nella parte più povera e più provata del pianeta, in condizioni di vita difficilissime e non solo per la persecuzione, ma anche per la violenza dei governi, per la loro corruzione, per la povertà indotta dalla famelica bramosia dei paesi occidentali.

 

“Quasi ogni cosa nel modo in cui viviamo, pensiamo e ci relazioniamo gli uni agli altri sta cambiando a una velocità sempre più alta. Nel bene e nel male, sentiamo l’impatto della globalizzazione, della rivoluzione digitale e del mutevole equilibrio del potere economico e politico nel mondo. Alcune delle cose con le quali siamo confrontati ci addolorano e ci preoccupano: la povertà globale, le guerre, i conflitti etnici, le malattie, la crisi ecologica e i cambiamenti climatici. C’è però nel nostro mondo un grande mutamento che ci fa gioire, vale a dire la crescita della chiesa globale di Cristo” (L’Impegno di Città del Capo 2011).

 

Alla chiesa di Filadelfia, il Signore Gesù Cristo fa notare che essa è collocata in una situazione segnata da questa notazione: “ho posto davanti a te una porta aperta…” (3:8). L’espressione probabilmente fa riferimento alla collocazione geografica della città di Filadelfia, nota anche nell’antichità come Porta d’Oriente. La chiesa viveva dunque sul terreno delle opportunità per lo sviluppo della sua missione, pur essendo, come vedremo oltre, una chiesa debole e destinata a subire l’impatto imminente della persecuzione (“l’ora della tentazione che sta per venire…”, 3:11).

Il Signore Gesù Cristo non conosce solo le condizioni ambientali difficili ma anche quelle favorevoli e dunque la sua conoscenza, la sua capacità di penetrazione rappresenta una premessa per la valutazione del modo in cui la chiesa sfrutta appieno o meno queste possibilità.

 

 

Io conosco la tua tribolazione

 

Se il Signore conosce le condizioni generali in cui si svolge la testimonianza del suo popolo, a maggior ragione può dire: “Io conosco la tua tribolazione” (lettera alla chiesa di Smirne, 2:9). Si tratta di una cognizione più precisa, al punto che questa condizione generale merita un nome appropriato, tribolazione.

La tribolazione (un periodo di severa e terribile ristrettezza e costrizione) non è mai il frutto di dinamiche sociali anonime (forse niente lo è, nemmeno le crisi economiche). La tribolazione, per realizzarsi, ha bisogno della mano dell’uomo, di uomini in preda a follie diaboliche e mostruose che costringono gli altri esseri umani in condizioni di ristrettezza, che si accaniscono in particolare contro la chiesa del Signore. Il bestiario del resto del libro dell’Apocalisse sta lì a testimoniare queste dinamiche e a offrire un valido aiuto interpretativo per la storia degli uomini, di quella passata (il nazismo per esempio) e di quella ancora da venire, la manifestazione dell’Anticristo.

 

Smirne, dove i cristiani sperimentano questa condizione che Cristo dice di conoscere, c’era il conflitto(cacciati in prigione) con la comunità giudaica. Questo conflitto, definito “un punto di grande importanza” per la comprensione della condizione di queste chiese (C. Hemer), lo si ritrova in altre lettere, in altre città (soprattutto Filadelfia). Con ogni probabilità esso si riferisce a un atteggiamento di ostilità delle comunità giudaichedella diaspora del bacino del Mediterraneo. Evidentemente, nel momento in cui veniva scritta l’Apocalisse l’ostilità era più acuta, anche in ragione delle nuove esigenze del culto imperiale, rispetto all’ostilità dei giudaizzanti che aveva sperimentato Paolo (2Co).

Per comprendere questa ostilità dei Giudei bisogna incrociare i dati relativi alle pretese del culto dell’imperatore, alle soluzioni proposte dai movimenti sincretistici come i Nicolaiti e alla presenza nelle città delle comunità giudaiche. Questo mix di fattori creava per i cristiani di queste città un “crudele dilemma” fatto di tre scenari:

a) c’erano le mostruose pretese del culto dell’imperatore che esigevano che Domiziano fosse proclamato Signore e Re;

b) c’era la strada sincretistica delle associazioni professionali che in qualche modo si adattavano alle esigenze religiose cittadine (forse avevano a che fare con i Nicolaiti);

c) c’erano le comunità giudaiche alle quali era permessa l’astensione dal culto imperiale pena il pagamento di una tassa.

 

I cristiani di origine ebraica potevano trovarsi in difficoltà nell’ambiente giudaico in quanto in questo periodo cominciavano a circolare le formule d’imprecazione contro Cristo. Molto spesso venivano denunciati dai membri delle comunità giudaiche in quanto non riconosciuti più come autentici aderenti alla religione israelitica. Il potere imperiale era a quel punto ben lieto di scovare non solo degli evasori ma anche dei sovversivi che in quanto Giudei si astenevano dal culto dell’imperatore.

In questo scenario lo scrittore inserirà la logica del vero, dell’autentico e del falso: quelli che dicono di essere Giudei sono in realtà una sinagoga di Satana (2:9). L’ostilità dei Giudei, che era alla radice della tribolazione, era l’ostilità di coloro che avrebbero dovuto essere più prossimi al modo di vivere e di credere dei Cristiani: tutto sommato Gesù era un Ebreo.

Molte volte nella storia si è ripresentato lo scenario in cui la tribolazione è causata da coloro che portano falsamente un nome e un’etichetta religiosa: a volte i credenti sono stati denunciati e osteggiati perfino da “altri credenti o pseudo–credenti”. La delazione e anche la persecuzione sono state cose che i cristiani di nome e/o di fatto non solo hanno subito ma purtroppo hanno anche praticato e inflitto.

 

È in uno scenario del genere che Cristo rivolge alla sua Chiesa un messaggio intessuto della dinamica dell’autenticità: la povertà apparente dei credenti di Smirne è in realtà una ricchezza agli occhi di Dio(2Co 8:2); la pretesa di autenticità da parte di chi compie atti ostili è giudicata dallo Spirito del Signore come mistificazione e falsità. Era con il messaggio dell’autenticità del cuore che i cristiani dovevano affrontare anche la tribolazione estrema: con ogni probabilità, il periodo di tempo (dieci giorni) di detenzione che precedeva l’esecuzione capitale.

Non c’è allora da meravigliarsi che il Signore dica, in queste circostanze, di sapere che le chiese, qualche chiesa, una chiesa, può avere “poca forza”, come nel caso di Filadelfia (3:8). La delicatezza di questa rivelazione, unita alla lode di questa chiesa disegna uno straordinario quadro di realismo spirituale: la chiesa a cui non viene rimproverato nulla è una chiesa con poche forze, forse allo stremo delle forze. E per giunta, su questa chiesa si sta per abbattere l’ora della tentazione.

 

 

Ci sono alcuni che non hanno contaminato le loro vesti

 

Il Signore con la sua onniscienza non è solo in grado di fare la tara tra chiesa e chiesa, lodandone alcune e rimproverandone altre. Egli è in grado di fare la tara all’interno della stessa comunità. Ricordiamolo, il suo sguardo è penetrante, i suoi occhi sono di fuoco ed è per questo che egli può affermare: “tuttavia a Sardi ci sono alcuni che non hanno contaminato …” (3:4), e ancora “agli altri di voi in Tiatiri che non professate tale dottrina …” (2:24).

Qui c’è un’indicazione ben precisa del fatto che il camminare di Dio non è solo in mezzo alle chiese ma anche all’interno di esse.

Alcuni credenti, rispetto ad altri, non si sono contaminati; altri non sono assimilabili alla deriva della maggioranza. C’è una differenza da fare. Alcuni si fermano, altri tornano indietro, altri si bloccano e non riescono a proseguire. I servitori spesso nascondono i talenti. La chiesa è non solo il luogo del martirio ma anche il luogo della codardia, del calcolo tra i propri interessi e quelli generali (Anania e Saffira). Ma è anche il luogo dell’elogio al “bravo e fedele servitore”. Tutto ciò viene messo in mostra dalla capillare conoscenza che il Signore ha della vita della nostra chiesa.

 

Questa capillarità della conoscenza di Cristo dovrebbe sortire due effetti simmetrici: in primo luogo dovrebbescoraggiare coloro che non camminano secondo la volontà del Signore. Dall’Antico Testamento sappiamo che molto spesso l’argomentazione dell’israelita avviato sulla strada dell’empietà era che Dio “non vede, non ha visto, non vedrà”. Qui, come nel caso dei profeti, abbiamo una certezza che si contrappone a questa folle ipotesi: Dio vede, il Signore conosce e penetra con il suo sguardo nei meandri a volte contorti della vita interna di una chiesa locale.

Dall’altro lato questa capillarità dovrebbe incoraggiare coloro che nelle realtà locali sono a volte scoraggiati a perseverare e a non farsi bloccare dalla falsa sindrome dell’attivismo. L’attivismo è un atteggiamento sbagliato; la sindrome dell’attivismo è al contrario quell’atteggiamento che mette sotto accusa la fedeltà e il mantenere gli impegni, quali gli esercizi spirituali (preghiera, lettura, frequenza alle riunioni, ospitalità, ecc.). La sindrome ritiene tutte queste cose nocive per il benessere psicologico e spirituale degli individui e tende a paralizzare coloro che vi sono dediti.

 

 

Io conosco le tue opere

 

Per Efeso, Tiatiri, Sardi, Filadelfia e Laodicea ilSignore usa esplicitamente lespressione “conosco le tue opere” e per ognuna di queste chiese segue un elenco di atteggiamenti, di virtù spirituali, di azioni concrete, di opere appunto. Si potrebbe pensare alle “opere” non semplicemente come a singoli pezzi di comportamento ma, nell’ottica complessiva che stiamo seguendo, possiamo pensare alle “opere” come a uno stile di vita complessivo in grado di dare alle chiese un tenore positivo, negativo, oppure misto o che cambia nel tempo, andando dal positivo al negativo o viceversa.

Alla chiesa di Efeso si riconosce la fatica, la costanza, il discernimento, la sopportazione per amore del nome del Signore; alla chiesa di Pergamo si riconosce la fedeltà al nome; alla chiesa di Tiatiri si riconosce l’amore, la fede, il servizio, la costanza, le opere numerose e cresciute nel tempo, la santità; alla chiesa di Sardi si riconosce la fama di vivere e l’essere in realtà morti, l’imperfezione, la non contaminazione di alcuni; alla chiesa di Filadelfia si riconosce il serbare la sua parola, il non rinnegare il suo nome, la costanza; alla chiesa diLaodicea si riconosce: la tiepidezza, l’infelicità, l’essere miserabile, povera, cieca e nuda.

Il Nuovo Testamento è attraversato dalla tensione e dalla ricchezza dell’insegnamento sulla fede e sulle opere: Paolo e Giacomo sono i due “giocatori” di una partita complessa volta a far comprendere che la grazia gratuita di Dio che si ottiene per la fede si esalta quando dalla nuova condizione in cui si trova il peccatore giustificato e perdonato discendono azioni, fatti, opere di giustizia. Giacomo ha posto la parola fine alla partita: “la fede senza le opere è morta”, non è vera fede, non esiste.

 

Il Signore Gesù Cristo non può essere interessato solo alle condizioni ambientali della nostra fede: egli certamente lo fa e da questo suo interessamento deriva per noi fiducia. Non può essere interessato solo alla coscienza che abbiamo di noi stessi: egli certamente lo fa e da questo suo interessamento deriva per noi un concetto più sobrio di noi stessi.

Il Signore Gesù Cristo è principalmente interessato a ciò che la fede produce, alle “opere”: le opere nell’Apocalisse sono il tessuto prezioso della veste risplendente e pura della Chiesa−Sposa (cap. 19).

Nelle lettere la conoscenza del Signore rivela un quadro articolato delle opere di queste chiese:

• Ci sono le opere che dovrebbero esserci, come c’erano un tempo“ravvediti e compi le opere di prima”, dice il Signore a Efeso con un chiaro riferimento alle opere che sanno esprimere quel primo amore che mancava in questa chiesa (2:5).

• Ci sono le opere che si modificano acquistando più importanza: le tue ultime opere sono più numerose delle prime, questo è il giudizio a Tiatiri.

• Ci sono invece le opere che si svalutano nel tempo: non ho trovato le opere perfette davanti al mio Dio, dice Cristo a Sardi (3:2).

• Ci sono le opere che sono completamente da condannare, come quelle a cui si fa riferimento, senza elencarle, nel caso della chiesa di Laodicea.

• Ci sono le opere che costano, che richiedono impegno e fatica (Efeso) e che sono legate al servizio(Tiatiri), al mantenimento di uno standard di impegno costante (Filadelfia).

Sono opere che si collocano sul piano della testimonianza verbale, ideologica, nello scontro con il culto imperiale o con il falso insegnamento e con la rivalità della comunità giudaica. Ma ci sono anche opere che si espletano sul piano concreto. Di queste ultime si può dire che sono in grado di esprimere chiaramente ciò che si muove nel cuore stesso della chiesa e dei suoi membri. Sono opere che hanno una durata, di cui è possibile seguire lo sviluppo e l’anda-

mento.

 

Se guardiamo alle opere positive, quelle che il Signore loda, ci rendiamo conto che esse sono tali perchéhanno una diretta relazione con la persona del Signore stesso: sono compiute “per amore del mio nome”(2:3), perché si è “fedele al mio nome” (2:13), “davanti al mio Dio” (3:2), “non hai rinnegato il mio nome” (3:8). Per alcune di esse è difficile collegarle al rimprovero che le segue (è il caso di Efeso). Le opere negative le riprenderemo nel terzo studio dedicato alla formula “Ho questo contro di te!”.

Il quadro generale che emerge dalla conoscenza che il Signore ha dei frutti della fede di queste chiese è un quadro in chiaroscuro, con esempi di grande e luminosa testimonianza e di incresciosa doppiezza e ipocrisia.

 

La vita di chiesa, negli esempi luminosi, non si misurava con gli standard che oggi potremmo pensare che vanno per la maggiore (numero di membri; trend di crescita, visibilità sociale ecc.). La relazione che Giovanni fa, nei casi positivi, è in linea con i desiderata che troviamo nelle lettere paoline (pensiamo alla descrizione della chiesa di Tessalonica: opera della vostra fede, fatiche del vostro amore e costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo).

Questa constatazione vuole indubbiamente incoraggiarci (“non temere” dice Gesù a Giovanni nel momento della visione, 1:17) e non spaventarci. Vuole essere realistica, non distorta sia nel senso del pessimismo disperato sia nel senso dell’ottimismo e del trionfalismo. Vuole essere puntuale ma non definitiva: non è l’ultima parola che il Signore vuole pronunciare. I tempi cambiano, le generazioni si alternano (Eb 13) ed egli è in mezzo alle chiese per continuare a esigere la completa dedizione, la totale consacrazione. La registrazione della capillare conoscenza del Cristo risorto pone sulle spalle delle singole chiese la responsabilità del lavoro da compiere: bisogna continuare ad ascoltarlo per mettere in ordine le cose che non vanno e aspirare alle promesse ricche di premi. Infatti, nei versi di chiusura delle singole lettere notiamo che le promesse: “A chi vince…”, sono articolate al “Chi ha orecchi ascolti…”.

 

Si potrebbe infatti dire che l’elemento ultimo che spinge al compimento di queste opere sta nelle promesse che chiudono le singole lettere. Ma è rischioso ragionare di fedeltà solo sulla base del premio che attende il buono e fedele servitore. Non bisogna infatti dimenticare che l’altra profonda motivazione dello zelo e della fedeltà è la riconoscenza al Signore per la salvezza. Tuttavia in queste lettere un premio aspetta i vincitori, coloro che persistono: “A chi vince e persevera nelle mie opere” (2:26). E i vincitori, come recita il ritornello di chiusura, non sono altro che coloro che hanno orecchie e ascoltano, che sono disposti a essere impregnati dello spirito della profezia di questo libro, che altro non è che Parola di Dio.

Dunque sono opere, nel caso di quelle positive, che discendono dall’ascolto e dall’accoglimento della Parola di Dio. Quando ci sono, le opere positive esprimono un attaccamento senza equivoci a colui che cammina in mezzo alle chiese e che parla mediante i canali che ha predisposto per il suo insegnamento. Quando mancano, la loro assenza evidenzia proprio la mancanza di questo ascolto e attaccamento alla Parola.

E la prima cosa da ascoltare, che Cristo sussurra attraverso l’uscio chiuso del cuore (3:20), è che nonostante l’uscio serrato, che tocca alle chiese aprire, egli, pure, ha la capacità di conoscerci a fondo, egli scruta le reni e i cuori!