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Sull’onda di una consuetudine diffusa soprattutto fra i movimenti di ispirazione carismatico-pentecostale, fa capolino anche fra noi la tentazione di identificare la propria comunità locale con un nome che evoca spesso uno slogan (“Gesù salva!”, “Speranza viva”…), oppure una località significativa nella storia biblica (“Peniel”, “Galed”, “Eben-Ezer”…). Dal momento che tutto quello che facciamo dovrebbe onorare il Signore ed esprimere sottomissione all’autorità della sua Parola, credo che sia opportuna una riflessione. E, questo, pensando anche al fatto che la scelta di un nome non può essere fatta con leggerezza e superficialità, perché il nome rivela la nostra identità: un’identità che appare assai variegata se leggiamo le insegne poste all’ingresso dei vari locali di culto sparsi per la penisola. Ecco, partiamo da qui: dalla confusione che si fa, nel linguaggio comunemente usato, fra la sala di riunione e la chiesa che vi si riunisce. Potrebbe sembrare una precisazione superflua, invece è ancora oggi necessario ricordarla: il locale di culto non è “la chiesa”! “Chiesa” sono infatti le persone che lì si radunano: la chiesa è l’assemblea dei credenti. Quindi la sala di riunione non può in alcun modo chiamarsi “chiesa”! Ma la riflessione che vorrei  sviluppare è ancora più importante. I nomi per presentarsi sono tanti. Tante chiese… tanti nomi: protestanti, evangelici, evangelicali, riformati, battisti, valdesi, metodisti, pentecostali, apostolici e… l’elenco potrebbe continuare.  Davanti a questa varietà di nomi la domanda giusta da porsi non è, come potremmo pensare, “Con quale nome ci presentiamo e ci identifichiamo?”, ma piuttosto: “Con quale nome siamo incoraggiati a presentarci e a identificarci dalla Parola del Signore?”. Nelle nostre scelte non dobbiamo infatti essere guidati da suggestioni “pubblicitarie” o dal maggior impatto che un nome può avere, rispetto ad un altro, sulla nostra visibilità e riconoscibilità. Una breve ricerca ci permetterà si osservare che i primi credenti in Cristo non si sono affatto preoccupati di avere un nome. Tant’è vero che non furono loro a scegliere di presentarsi come “cristiani”, ma questo fu il nome dato loro da altri ad Antiochia. Infatti fu in questa località che “per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani” (At 11:26). I discepoli del resto sapevano che la loro identificazione con Cristo non doveva essere legata ad un nome, ma piuttosto al frutto prodotto dal loro “albero” nella testimonianza e nel servizio (“ogni albero si riconosce dal proprio frutto”, Lu 6:44) e all’amore concretamente vissuto nelle relazioni interpersonali (“Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”, Gv 13:33). La vera identità con Cristo è quella che scaturisce quindi dalla qualità della nostra vita, non dal nome. È lecito supporre che l’uso del nome di “cristiani” da Antiochia si sia poi diffuso in tutte le località raggiunte dall’Evangelo, ma è interessante notare che gli apostoli non lo usino mai nelle loro lettere. Negli indirizzi di saluto troviamo tanti nomi: “chiamati da Dio, amati da Dio, santi, santificati, fedeli, fratelli, eletti, forestieri, pellegrini”, ma mai il nome di “cristiani” e, anche nelle lettere in cui ci si indirizza alla “chiesa” o alle “chiese”, non viene aggiunto alcun aggettivo per identificarle. Quando Teodorico Pietrocola Rossetti, nella seconda metà del XIX secolo,  provò a descrivere in un libretto, che fu causa di discussioni e dibattiti, i principi che dovevano identificare la chiesa dei discepoli di Cristo la identificò molto semplicemente SOLO con l’aggettivo “cristiana”. È opportuno qualificarci con altri nomi e aggettivi? Nel suo nuovo catechismo del 2003 la chiesa cattolica si definisce come “una, santa, cattolica, apostolica” (è stato tolto il“romana” presente nei catechismi precedenti): manca l’aggettivo “cristiana”. Un motivo in più per presentarci con il solo nome di “cristiani” (=seguaci di Cristo) e non con nomi che ci presentino come seguaci di una “chiesa”!