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Introduzione

 

Il 17 marzo 1861 a Torino avvenne la proclamazione del Regno d’Italia: dopo gli anni combattuti e difficili del Risorgimento, l’Italia era finalmente unita, era finalmente una nazione, anche se ancora le mancava il possesso del Veneto, del Friuli, del Trentino Alto Adige, ma soprattutto del Lazio e della città indicata da tempo come sua futura capitale, Roma.

Qui resisteva ancora quell’anomalo regno, da secoli indicato come “Stato della Chiesa”, ma di una “chiesa” che, essendo diventata istituzione di potere umano e politico oltre che proprietaria di beni e di territori, essendo cioè diventata come uno dei “regni del mondo” ed avente per di più anche “la loro gloria” (Mt 4:8), nulla aveva più a che vedere con la vera Chiesa fondata da Gesù.

 

Già da tempo sono in corso i preparativi per celebrare i 150 anni trascorsi da quell’evento. In questo percorso celebrativo non si contano le polemiche persistenti, come quelle dovute a spinte secessioniste per di più settentrionali e padane ma anche meridionali, e gli interventi inopportuni, come quello del cardinale segretario di Stato (Vaticano) davanti a porta Pia nel 130° anniversario. Ma non è di polemiche e di inopportunità che voglio parlare.

 

Infatti desidero piuttosto ricordare che il Risorgimento fu anche il periodo storico, certamente non casuale, ma voluto da Dio, in cui si sviluppò nel nostro Paese il fermento spirituale che portò alla nascita del movimento di risveglio a cui le nostre Assemblee fanno ancora oggi riferimento.

 

La lettura della Parola di Dio, la centralità unica ed esclusiva della persona e dell’opera di Cristo, la semplicità del radunarsi nel nome del Signore e intorno alla sua “tavola”, la sollecitazione del servizio di ciascun credente attraverso l’esercizio dei doni dello Spirito Santo furono aspetti di questo risveglio indubbiamente favoriti da un allentamento della repressione nei confronti di qualsiasi forma di vita spirituale considerata ostile al cattolicesimo.

Ma furono anche aspetti che, propugnando la libertà di coscienza e la responsabilità individuale, favorirono il formarsi di un humus morale e spirituale sul quale crebbe in molti l’impegno civile per l’unità della nazione.

 

Personaggi come Cavour, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, i fratelli Bandiera (e quanti altri!) avevano a cuore la lettura personale della Bibbia. Solo il Signore conosce i frutti di questa lettura nella loro vita, ma è indubbio che ad essa erano stati incoraggiati non certo da una “chiesa” che, politicamente e spiritualmente, era loro nemica, ma piuttosto dalla frequentazione di ambienti protestanti.

E che dire del giovane Mameli, autore dell’inno nazionale (oggi anch’esso discusso)? Molti ignorano che il suo“Fratelli d’Italia” abbia non una ma cinque strofe e che alcuni versi della terza strofa recitino:

 

“Uniamoci, amiamoci,

l’unione e l’amore

rivelano ai popoli

le vie del Signore.

Giuriamo far libero

il suolo natio:

uniti per Dio

chi vincer ci può?”

 

Risorgimento e contestuale progresso del Vangelo, ma soprattutto: progresso del Vangelo e Risorgimento! Il nostro ricordo deve nascere dalla consapevolezza storica di questa doppia relazione, ma anche (o soprattutto!) dal desiderio che “il suolo natio” sia reso “libero”libero dall’ignoranza spirituale, libero dalla sempre più diffusa religiosità pagana che oscura Dio e la sua Parola, libero dalla superstizione e dall’occultismo, liberodal servilismo dei più e dal potere arrogante dei pochi, libero dalla schiavitù del male…

 

Nel mese di novembre sono stato invitato dall’assemblea di Mombercelli (AT) per una “conferenza” che ricordasse i 150 anni dell’unità d’Italia. Il titolo da me scelto è lo stesso di quest’articolo, che altro non è che una rielaborazione degli appunti preparati per quell’incontro.

 

 

Perché “bisogna fare gli italiani”?

 

La scelta della frase di partenza non è certamente casuale, perché, in relazione alla situazione morale, culturale e spirituale della nazione italiana ma anche all’impegno di testimonianza delle Assemblee, ci offre uno spunto  per considerazioni sul passato e sulle prospettive future.

“Abbiamo fatto l’Italia, bisogna fare gli italiani”. La frase, diventata ormai proverbiale, fu pronunciata da Massimo Taparelli, marchese D’Azeglio, predecessore di Cavour come primo ministro del regno di Piemonte e Sardegna, noto anche per essere stato genero di Alessandro Manzoni.

Cosa voleva affermare con questa frase?

 

1. Voleva ricordare che l’unità d’Italia, pur se storicamente già realizzata, doveva ancora essere conquistata sul piano sociale e politico, perché nasceva in un momento di intense divisioni ed in un periodo in cui movimenti rivoluzionari di ispirazione anarchica e socialista stavano prendendo sempre più piede, incoraggiati da una classe politica conservatrice.

 

L’unità d’Italia inoltre nasceva con la persistente ostilità della chiesa cattolica e dello Stato di quella Chiesa: ostilità pubblicamente espressa dal re di quello “stato”, papa Pio IX che considerava l’unità d’Italia “il peggiore dei mali”. Inoltre, da un punto di vista organizzativo e di presenza sul territorio, la chiesa cattolica era sicuramente la forza istituzionale più forte in tutta la penisola, senza però esserlo dal punto di vista morale. Viveva cioè la situazione di forza strutturalmente coesa ma con un impatto fortemente disgregante sul tessuto sociale. La Chiesa era, e purtroppo continua ad essere, uno “stato” nello Stato con tutte le conseguenze che sono sotto i nostri occhi.

 

Inoltre è opportuno anche ricordare che la monarchia e le istituzioni erano avvertite, soprattutto nelle regioni meridionali, come istituzioni soltanto piemontesi, quasi come se fossero non italiane, e quindi avverse.

 

2. La frase di Massimo D’Azeglio voleva affermare che il problema più acuto che il nuovo Regno d’Italia, appena sorto, avrebbe dovuto affrontare era quello dell’educazione nazionale, non soltanto di un’educazione che guidasse la lotta contro l’analfabetismo, ma che soprattutto guidasse gli italiani ad essere gradualmente liberati dai vizi dell’indisciplina, della irresponsabilità, della disonestà, della immoralità, e che guidasse nella loro vita la formazione di quelle che egli chiamò “doti virili”.

Per completezza di informazione è doveroso ricordare che, se la frase del D’Azeglio divenne una sorta di proverbiale proclama nazionale, non sempre il suo autore ne fu all’altezza tant’è vero che, per il suo comportamento libertino, all’interno della corte sabauda veniva chiamato “sporcaciùn”, epiteto piemontese che non ha certo bisogno di traduzione.

 

 

Conoscenza del Vangelo ed alfabetizzazione

 

In questo contesto si sviluppò l’impegno di alcuni patrioti che, esuli in Inghilterra, erano tornati in Italia,abbandonando in alcuni casi la lotta politica, e facendo propria la causa del Vangelo, convinti che il bene della nazione scaturisse proprio da quest’ultimo impegno.

Dal 1857 sotto la guida di Teodorico Pietrocola Rossetti, stabilirono in Piemonte (a Spinetta marengo, AL) la base del loro servizio.

Il Rossetti, originario di Vasto in Abruzzo, era riparato in Inghilterra dopo essere stato condannato a morte per la sua partecipazione a Napoli ai moti rivoluzionari del 1848-1849. A Londra era arrivato alla conversione a Cristo attraverso la testimonianza del conte Piero Guicciardini.1

Questo servizio avrebbe portato il Rossetti ed i suoi compagni d’opera ad impegnarsi in due precise direzioni:

 

1. Diffondere la conoscenza del Vangelo in tutta la penisola, attraverso un capillare programma di distribuzione e diffusione del testo biblico. Nel frontespizio della Bibbia di una sorella convertita a Cristo nei primi anni del novecento ho trovato trascritto il noto epigramma del Giusti che da anni veniva usato come manifesto dell’impegno di rinnovamento della società italiana:

“Il fare un libro è meno che niente,

se il libro fatto non rifa la gente”.

In quello stesso frontespizio ho trovato, aggiunte dalla sorella proprietaria di questa copia della Bibbia, le parole:

“Questo è il libro che rifa il nostro cuore”.

Un’affermazione che testimonia come quei cristiani affidassero alla forza dell’Evangelo di Cristo la speranza e l’impegno di “fare gli italiani” con la convinzione che ogni rieducazione morale e sociale partisse non da leggi imposte, ma dal “cuore”. Cioè la società non sarebbe mai stata rifatta se non fosse stato rifatto il cuore di ciascuno degli individui che la compongono.

 

2. Diffondere l’alfabetizzazione in tutta la penisola. Per questo nacquero, accanto alle comunità cristiane, scuole dove si istruivano gratuitamente i bambini, con l’impegno esemplare di volontari ma molto più spesso di volontarie.

La diffusione dell’Evangelo ha sempre prodotto anche la diffusione della cultura, da sempre mortificata e sottomessa dalla religione. La diffusione dell’Evangelo infatti non doveva essere imposta da lettori e da maestri umani, ma doveva essere incoraggiata e proposta fornendo a ciascuno lo strumento necessario per diffonderlo nel proprio cuore e nella propria vita. Questo strumento era la capacità di leggere. Da sempre infattil’analfabetismo chiude le menti producendo schiavitù, mentre l’alfabetizzazione le apre, producendo libertà.

 

Vale qui la pena di ricordare che il primo re d’Italia fu re di un popolo di analfabeti (lo era infatti il 77,7% degli italiani). E anche quando si studiarono e programmarono riforme, lo si fece sempre in uno spirito di grande cautela, come dichiarò ad esempio il ministro della pubblica istruzione Baccelli nel varare nel 1894 la Riforma della Scuola: “Bisogna istruire il popolo quanto basta… non devono pensare altrimenti sono guai”.Perché l’istruzione e la cultura fanno paura, perché producono “guai” per il potere politico e religioso? Perché – prosegue Baccelli – educano “al dubbio e alla critica”, perché educano alla libertà di scelta personale!

 

Da sempre gli uomini di governo si sono rivelati, nella gran parte dei casi, più preoccupati per la conservazione del potere che della dignità e della crescita della persona. Basti pensare al non felice esempio della chiesa cattolica che ha per secoli ha sottratto al popolo la Scrittura, facendosene mediatrice ed impedendo di fatto l’esercizio personale della critica e del dubbio e, soprattutto, la libertà di sceltaE di fatto commettendo il più grave dei delitti, surrogare o sostituire con la propria parola la Parola di Dio.

 

La crescita e la dignità della persona sono ancora oggi mortificate ed appiattite dall’egemonia dei vari poteri: politico, religioso e, da qualche tempo, anche mediatico.

 

Tornando al bisogno di alfabetizzazione che era quanto mai necessario soddisfare per “fare gli italiani”, è di straordinaria bellezza la testimonianza di tanti italiani ed italiane che, a cavallo fra l’ottocento e il novecento,hanno voluto imparare a leggere per il solo desiderio di poter leggere e ascoltare da soli, senza mediatori, l’Evangelo, la Parola di Dio!

 

Diffusione dell’Evangelo e contestuale diffusione della strumentalità del leggere e della capacità del comprendere: questi sono ancora oggi i principi che animano chiunque, avendo creduto in Cristo attraverso l’ascolto della sua Parola e non attraverso una religione, desideri veder crescere culturalmente, spiritualmente e moralmente la realtà sociale nella quel Dio lo ha chiamato a vivere e a servire.

 

Si potrebbe qui aprire una parentesi che, a nostra vergogna, si è in molti casi abbandonata, all’interno delle nostre Assemblee, questa tensione culturale, spesso addirittura demonizzando la cultura e provocando, di conseguenza. una sorta di esaltazione dell’ignoranza.

È vero che è necessario essere prudenti nei confronti dei presupposti, dei contenuti e degli obiettivi della cultura del mondo intorno a noi, avendo anche il coraggio là dove necessario di prenderne le distanze, ma non dobbiamo trascurare il suo valore quando essa ci offre gli strumenti “tecnici” che ci sono necessari per meglio comprendere il testo del libro che abbiamo più a cuore: la Bibbia, la Parola di Dio!

 

 

Il modello di Cristo

 

Ma… in quale modo siamo chiamati a vivere l’impegno che provochi la crescita morale, spirituale, culturale della società di cui siamo parte?

Di cosa ha davvero bisogno l’uomo?

Quali sono le necessità attraverso la cui piena soddisfazione si può giungere a costruire la dignità della persona o, come avrebbe detto D’Azeglio, a “fare gli italiani”?

 

Come “cristiani” ci è caro pensare a quello che ci viene detto della persona del nostro Maestro, Signore e Salvatore. Nell’unico breve riferimento alla sua infanzia che noi troviamo nei Vangeli è scritto che “Gesù cresceva in SAPIENZA, STATURA e GRAZIA davanti a Dio e davanti agli uomini” (Lu 2:52).

Cioè: nella sua famiglia e nell’ambiente sociale e religioso del piccolo villaggio di Nazareth egli poteva crescere perché vedeva soddisfatti i suoi tre bisogni fondamentali che sono anche i bisogni fondamentali di ogni individuo:

• “Sapienza”: bisogno di formazione, di educazione, di istruzione, di crescita nella conoscenza, nella cultura.

• “Statura”: bisogno di cure fisiche, più semplicemente: bisogno di pane.

• “Grazia”: bisogno di spiritualità o, come qualcuno direbbe, di religiosità.

Questi tre bisogni investono i tre aspetti fondamentali che segnano la crescita di qualsiasi società civile:l’istruzione e la cultura (“sapienza”), l’economia (“statura”), la formazione morale ed interiore (“grazia”).

È indubbio che sono queste le tre direttrici sulle quali si deve muovere qualsiasi tentativo di formare gli uomini, di guidarli a crescere in senso positivo e, quindi, anche quello di “fare gli italiani”.

 

Ma l’evangelista Luca non si limita ad indicarci i tre bisogni e, di conseguenza, le tre direttrici di crescita di ogni individuo e di ogni società. Egli, additandoci ancora il modello di Gesù, ci indica anche i punti di riferimento di questo percorso di crescita: “davanti a DIO e davanti agli UOMINI”.

 

Le due presenze, Dio e gli uomini, vanno considerate insieme: l’una non deve escludere l’altra. Purtroppo è accaduto e accade che, pensando a Dio, ci si sia dimenticati degli uomini e, pensando agli uomini, ci si sia dimenticati di Dio!

 

Ogni processo di formazione, di progresso, di crescita deve tener conto di entrambe le presenze, di entrambe le relazioni:

• la presenza di Dio, che ci aiuta a guardare al di là del naturale, del visibile, che dà la prospettiva eterna alla nostra vita ma che, in Cristo, ci dona anche la grazia e la risorse per vivere il nostro cammino, nel qui ed ora di ogni giorno; • la presenza degli uomini che ci ricorda che non siamo soli nel cammino: altri simili, altri “prossimi” sono con noi, accanto a noi, spesso si adoperano per noi. Come noi siamo con loro, accanto a loro, ci confrontiamo con loro, ci adoperiamo per loro.

 

Nella persona di Gesù, colui che è sceso fra gli uomini per farci conoscere il Dio che “nessuno ha mai visto”(Gv 1:18), queste due presenze sono talmente inscindibili da diventare come una stessa presenza. Lo stesso deve verificarsi nella vita dei discepoli di Cristo, di noi che ci diciamo “cristiani”.

Operiamo “davanti a Dio” per il bene degli uomini ed operiamo “davanti agli uomini” per la gloria di Dio!

 

 

Operare per il bene degli uomini

 

Nel libro del profeta Geremia troviamo un’esortazione rivolta agli esuli ebrei in Babilonia: un’esortazione che possiamo fare decisamente nostra e che deve illuminare il nostro impegno a “fare gli italiani” attraverso il contributo decisivo del Vangelo. È un’esor-

tazione che, inoltre, come vedremo più avanti, contiene una significativa metafora della condizione nella quale come cristiani siamo chiamati a vivere e ad operare.

 

“Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare e pregate il Signore per essa, poiché dal bene di questa dipende il vostro bene” (Geremia 29:7).

 

Anche lontano dalla loro patria i deportati dovevano cercare “il bene della città” ed invocare su di essa, attraverso la preghiera, le benedizioni divine.

Si tratta di una chiamata difficile da comprendere ed ancor più difficile da vivere.

Come sarebbe stato infatti possibile per gli Ebrei deportati operare per il bene di Babilonia? Infatti, non dimentichiamolo, operare per il bene di Babilonia voleva dire operare per il bene dei nemici, per il bene del re che aveva distrutto la loro città, che li aveva fatti catturare e portare lontano dalle loro case, dalla loro terra.

E come sarebbe stato possibile pregare il Signore per una città e per un popolo nemici?

Non c’è solo la risposta utilitaristica da dare a queste due domande (“dal bene della città dipende il vostro bene”), ma c’è soprattutto la risposta legata al carattere stesso di Dio, la risposta cioè che viene dall’Amore.

È per amore che ancora oggi il popolo di Dio è chiamato ad operare per il bene della città, del popolo, del Paese in cui si svolge il proprio cammino!

 

Il popolo di Dio ha una sua patria, una sua nazione, ma è allo stesso tempo senza patria e senza nazione. Quello che Dio gli chiede ha infatti un’estensione universale, vale per qualsiasi luogo e qualsiasi contesto etnico e sociale. In qualsiasi “patria” il popolo di Dio deve operare per il bene della città e pregare perché su di essa si manifesti la guida e la protezione divine.

 

 

I deportati Babilonia: metafora dei cristiani oggi

 

Come mai la condizione degli Ebrei deportati è una metafora della nostra condizione?

In un certo senso i cristiani sono come i deportati a Babilonia: vivono nella loro città, nella loro patria, ma in realtà la loro città, la loro patria è un’altra. E, come gli Ebrei deportati a Babilonia dovevano operare per il bene della loro nuova città trasferendovi i valori conosciuti ed appresi a Gerusalemme, così anche i cristiani sono chiamati ad operare nella loro patria terrena, portandovi attraverso l’inse-

gnamento e soprattutto attraverso l’esempio i valori della loro vera patria.

 

L’apostolo Paolo, scrivendo la sua toccante lettera ai Filippesi, dichiara in appendice alla propria testimonianza personale:

“Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli…” (Fl 3:20).

 

Cittadini del cielo? Cosa significa?

Non significa certo vivere con la testa fra le nuvole e non significa neppure estraniarsi dalla realtà della terra. Significa piuttosto vivere sulla terra i valori ricevuti dal Cielo, vivere i valori del regno di Dio che attendiamo e prepariamo. Significa, ricordando ancora quanto scritto da Paolo: “cercare le cose di lassù”

(Cl 3:1) e viverle.

Poco dopo aver dichiarato di essere cittadino del Cielo, Paolo ricorda a quale impegno sulla terra richiami questa condizione:

 

“La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini… Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio… Tutte le cose VERE, tutte le cose ONOREVOLI, tutte le cose PURE, tutte le cose AMABILI, tutte le cose di BUONA FAMA, quelle in cui è qualche VIRTÙ e qualche LODE, siano oggetto dei vostri pensieri” (Fl 4:5-8).

 

Ecco di cosa ha bisogno luomo, ogni uomo!Ecco di cosa abbiamo bisogno per “fare gli italiani”!

Abbiamo bisogno di cose vere, onorevoli, pure, amabili, di buona fama, di cosa virtuose e che suscitino compiacimento e lode! Abbiamo, in una parola, bisogno dell’Evangelo, perché è la parola del Vangelo che porta i valori del cielo sulla terra, che trasforma gli uomini in cittadini del cielo e li fa, per questo, essere cittadini della terra migliori.

I cristiani sanno di vivere metaforicamente a Babilonia, ma portandovi ogni giorno, nella loro vita e nel loro impegno di servizio, i valori di Gerusalemme.

 

Purtroppo la religione, da Costantino in poi, ha prodotto l’equivoco di un “regno di Dio” già realizzato, ha prodotto una chiesa che è diventata istituzione, organizzazione umana, Stato, di una chiesa che ha preteso e pretende di imporre a Babilonia le regole di Gerusalemme, e che per questo non soltanto ha ostacolato la diffusione del Vangelo ma anche l’unità dei popoli: nel nostro caso è stata drammatico ostacolo all’unità d’Italia.

 

Il bisogno di “rifare il cuore”, come abbiamo già sottolineato all’inizio, può essere soddisfatto soltanto attraverso l’ascolto della Parola di Cristo e il successivo accoglimento di questa Parola per libera scelta.

 

Cittadini italiani si nasce, cittadini del Cielo si diventa! Ma abbiamo ben compreso da quanto considerato fino ad ora, che si è migliori cittadini italiani se si sceglie di diventare cittadini del Cielo.

 

L’apostolo Pietro (anche lui!) ricorda questa condizione dei cristiani, di ogni cristiano:

 

“Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dalle carnali concupiscenze che danno l’assalto contro l’anima, avendo una buona condotta fra i pagani, affinché laddove sparlano di voi, chiamandovi malfattori, osservino le vostre opere buone e diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà… Perché questa è la volontà di Dio: che, facendo il bene, turiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Fate questo come uomini liberi, che non si servono della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio.Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re.” (1P 2:11-17)

 

Certamente, come sottolinea Pietro in questo e in altri passaggi della sua prima lettera, vivere a Babilonia portandovi, attraverso il rinnovamento del proprio cuore e della propria vita, i valori di Gerusalemme, genera conflittualità, talvolta incomprensione, sofferenza.

 

Gli uomini di Babilonia, spiritualmente “pagani” e moralmente “stolti”, non solo non comprendono ma disprezzano e ostacolano. Per questo “fare gli italiani”, così come fare ogni uomo, sarà sempre difficile, impegnativo.

Per questo gli Italiani, a 150 anni dall’unità di Italia e dalla indicazione proverbiale di Massimo D’Azeglio, devono essere ancora “fatti”.

 

Ma, guai ad arrendersi a Babilonia!

Guai ad arrendersi a chi pensa (e ci fa credere!) che il bene della città si realizzi attraverso la menzogna, l’immoralità, l’ingiustizia, il disprezzo per l’altro, attraverso i vizi ed il gossip…

 

 

L’Evangelo come stile di vita

 

Da cittadini del Cielo, preparando ed aspettando il regno di Dio che viene e che ora, come ha detto Gesù, “è sparso nei nostri cuori”, desideriamo continuare a proclamare l’Evangelo, al di fuori di qualsiasi istituzione ed organizzazione umana: illuminati, guidati e sorretti dallo Spirito del Signore.

 

È il suo Spirito che ci convince, attraverso la Parola, che il progresso economico, culturale, morale, spirituale di qualsiasi società, e quindi anche della nostra Italia, potrà realizzarsi soltanto quando oggetto dei nostri pensieri e dei nostri obiettivi saranno le cose “vere, onorevoli, giuste, pure, amabili, di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode”!

 

“Forestieri, stranieri, pellegrini”, perché “la nostra cittadinanza è nei cieli”, chiamati ad operare “per il bene della città” e a “pregare il Signore per essa”: ecco quello che il Signore ci chiama ad essere!

 

Ci chiama a trasferire quaggiù, nella nostra quotidianità, i valori di lassù: il nostro essere “forestieri, stranieri, pellegrini, cittadini del Cielo” non deve essere soltanto la condizione di chi attende il Regno di Dio e sa di essere qui soltanto di passaggio, ma deve diventare piuttosto uno stile di vita, LO stile della NOSTRA vita.

 

Le sorelle e i fratelli, che vissero nella seconda metà dell’800 gli anni della nascita dell’Italia come nazione, compresero che questo era il segreto per “fare gli italiani”,  per “fare” la loro stessa vita.

Su questo solco, indicatoci dalla Parola di Dio e illuminato dallo Spirito di Dio, vogliamo continuare a camminare anche noi, pienamente convinti che soltanto l’Evangelo e l’intera Scrittura è “il libro che rifa il nostro cuore”.