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Un bell’esempio di rapporti fraterni

 

Da qualche anno sto esponendo nella mia chiesa locale le lettere di Giovanni ed, essendo giunto ai saluti finali della terza lettera (3Gv 12-15), pensavo di saltarli, di archiviare questa epistola e di passare ad altro. Ma, più volte, mi son tornate alla mente le frasi finali della lettera, che mi hanno convinto del loro valore spirituale ed ecclesiale.

Così ho deciso di approfondire il messaggio di questa parte finale della lettera. Del resto è pur vero che “ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile…” (2Ti 3:16), e “la coda” di questa lettera non fa eccezione.

 

Certamente, il suo contenuto si presenta come “più leggero” di altre parti della Scrittura, dove si possono trovare insegnamenti ad alta rilevanza dottrinale ed etica. Però costituisce un bell’esempio di come i primi cristiani usavano vivere i rapporti fraterni.

Con questo brano ci affacciamo alla finestra di un mondo che forse abbiamo perduto. Un mondo fatto di buoni sentimenti e buoni atteggiamenti “gli uni verso gli altri”.

Un mondo dove dei cristiani si coalizzano per dire bene di un fratello, dove si “ansima” per avere un contatto diretto e personale gli uni con gli altri e dove il rapporto di fratellanza non è da meno di quello dell’amicizia.

Leggiamo anzitutto il testo di 3Gv 12-15:

 

“A Demetrio è stata resa testimonianza

da tutti e dalla stessa verità;

e anche noi gli rendiamo testimonianza

e tu sai che la nostra testimonianza è vera.

Avrei molte cose da scriverti,

ma non voglio farlo con inchiostro e penna.

Poiché spero di vederti presto,

e allora parleremo a voce.

La pace sia con te. Gli amici ti salutano.

Saluta gli amici a uno a uno.”

 

Ascoltiamo di seguito il primo di questi “echi”.

 

 

I fratelli come “testimoni a favore” (v. 12)

 

Per entrare nel merito di questo verso è necessario chiedersi: chi era Demetrio?

Forse era Dema, il collaboratore di Paolo (Cl 4:14; Fi 24; 2Ti 4:10). Infatti, Dema è probabilmente un diminutivo di Demetrio. Tuttavia non possiamo esserne sicuri, perché, al di là di questo, non abbiamo altri elementi per suffragare questa tesi. Comunque, una cosa sappiamo di Demetrio: di lui si rende una triplice (cfr. 1Gv 5:7) buona testimonianza.

 

Anzitutto, a Demetrio “è stata resa testimonianza da tutti”, e questo indica una testimonianza continua, nel passato e nel presente, probabilmente da parte della sua chiesa locale.

 

In secondo luogo, a Demetrio “è stata resa testimonianza…dalla stessa verità”, e questo espediente letterario, dove la verità è personificata come un testimone a favore, altro non vuol dire se non che la dottrina e la vita di Demetrio erano coerenti con la verità di Gesù Cristo.

 

Infine, a Demetrio, dice l’apostolo Giovanni, “anche noi gli rendiamo testimonianza”, e qui Giovanni si riferisce alla sua autorità apostolica, anche se era un’autorità messa in dubbio, tanto che si affretta a precisare: “tu sai che la nostra testimonianza è vera”.

 

Ma qual è lo scopo di questo inciso su Demetrio? Non è facile rispondere neppure a questa domanda, perché questo verso sembra piovuto dal cielo senza un’evidente legame col resto dell’epistola.

Indubbiamente, Gaio, il destinatario della lettera (v.1), sapeva di cosa Giovanni stava parlando. Quella che a noi sembra l’ipotesi più plausibile è quella che vien fuori collegando questo verso con i versi immediatamente precedenti. Nei vv. 8-11 si parla di un certo Diotrefe, il quale, mosso da una malsana ambizione, osteggiava in ogni modo, in fatti ed in parole, l’apostolo Giovanni ed i suoi collaboratori.

E visto che in questa lettera Gaio è encomiato per l’ospitalità che dava ai predicatori itineranti ed esortato a fare di più (vv. 5-8), è verosimile che Demetrio, fosse uno di questi, mandato da Giovanni forse con lo scopo di portare questa stessa lettera.

 

E siccome Giovanni ha appena detto a Gaio di “non imitare il male, ma il bene” (v.11), è plausibile che, con questo inciso su Demetrio, Giovanni stia dicendo due cose:

1. “Non seguire il cattivo esempio e le cattive parole di Diotrefe su Demetrio”;

2. “Pensa bene di Demetrio e accoglilo bene”.

Se così stanno le cose, credo che qui abbiamo un bell’esempio di lealtà fraterna da mettere in campo soprattutto quando un fratello è sotto il tiro di qualche mala lingua che forse frequenta pure la chiesa.

È bello vedere qui dei fratelli che si coalizzano a favore di uno di loro. Più in generale, quest’inciso su Demetrio è un forte incentivo a pensare bene dei nostri fratelli, senza lasciarci fuorviare da “voci” prive di fondamento.

 

Certamente non dobbiamo avere le fette di salame sugli occhi!

Se un fratello pecca dev’essere ripreso (M 18:15 e segg.), ma anche in questo caso Gesù prescrive un modo adeguato per farlo: “fra te e lui solo”.

 

Se un fratello è disordinato dev’essere ammonito (1Te 5:14), ma anche questa non dovrebbe essere una sorta di “vendetta privata”, quanto un’azione collegiale della chiesa, come indica il plurale della frase: “vi esortiamo, fratelli, ad ammonire…”. Insomma, ogni fratello deve avere una testimonianza “buona di per sé”. Non buona perché lo dicono gli altri, ma buona perché “la verità stessa rende testimonianza” alla sua coerenza e fedeltà.

 

Detto questo però, bisogna riconoscere che talvolta rischiamo di essere più accusatori che difensori dei nostri fratelli, più detrattori che testimoni della “verità” che li riguarda. Siamo fin troppo veloci a vedere ciò che è negativo e siamo invece molto lenti a riconoscere ciò che è positivo.

 

Eppure abbiamo nel Nuovo Testamento più di un’ingiunzione ad avere un buon concetto dei fratelli e trattarli di conseguenza. Un esempio è il seguente:

“Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo reciprocamente” (Ro 12:10).

Un altro esempio è questo:

“Ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a sé stesso” (Fl 2:3).

Talvolta, in nome della stessa fratellanza che ci dovrebbe unire, avanziamo verso i fratelli pretese che ci dividono e dimentichiamo che dietro un “fratello” c’è anche una “persona”, con le sue peculiarità.

E questo è un altro di quegli echi che ci giunge dal mondo di Giovanni e Gaio, come apprendiamo dai versi che seguono.


 

I fratelli come persone (v.13-14)

 

Uno dei problemi del nostro tempo è il marcato individualismo in cui siamo entrati e pare che la chiesa non faccia eccezione. “Chi fa per sé fa per tre”, ma poi mancano altri due con cui condividere.

Si rimane soli col proprio sé.

I rapporti si dilatano e manca sempre più il contatto personale.

 

Ben diverso è l’atteggiamento dell’autore di questa lettera verso il suo destinatario.

Giovanni “spera” di incontrare Gaio…ha “molte cose” da dirgli (v.14). Non “vuole” dirgliele tramite “inchiostro e penna” (v.13).

Si potrebbe pensare che giudica tale mezzo troppo compromettente per ciò che deve dire: verba volant scripta manent (=Le parole dette volano via, quelle scritte rimangono). Tuttavia, anche la sua seconda lettera si chiude con parole quasi uguali, tranne la frase finale, che ci mostra la vera finalità che Giovanni perseguiva: “affinché la nostra gioia sia completa” (2Gv.12).

 

Pare dunque che Giovanni considerasse “inchiostro e penna”, non tanto compromettente, quanto inadatto ad esprimere quel contatto personale che solo il contatto diretto poteva consentire. Giovanni ambiva a realizzare una “gioia” più “completa” di quella che lo scritto poteva dare (vedi comunque 1Gv 1:4).

Questi brevissimi scritti, che stavano in un foglio di papiro, erano più che altro un “antipasto” di quel banchetto di comunione gioiosa e festante che egli desiderava consumare in modo più diretto con Gaio. E le parole che usa lo confermano in modo ineccepibile.

 

Il “non voglio” del verso 13 indica una ferma decisione. “Spero di vederti presto” (v. 14), indica un’attesa gioiosa e fiduciosa.“Parleremo a voce”, traduce un’espressione che letteralmente è: “parleremo bocca a bocca”. Insomma, Giovanni ambiva avere con Gaio una comunione visibile e udibile, fondata su una comunicazione diretta e personale.

 

“Inchiostro e penna” dunque potevano solo scrivere il “preludio” di quella sinfonia che attendeva ancora di essere scritta con i gesti e le parole di un incontro personale.

 

Purtroppo bisogna riconoscere che oggi manca questo contatto personale anche all’interno della chiesa. Qualche anno fa, un altro fratello scriveva dalle pagine di questo mensile:

“Una volta incontrarsi, stare insieme significava, per i credenti, festeggiare. Parola, canto, preghiera, silenzio: tutto aveva valore!… Le comunità erano piene di vita e gioiose, anche se soverchiate da tanti problemi. Amavano far festa. Attualmente, invece, molte comunità mi sembrano vecchie e stanche, forse hanno perso la gioia di vivere…” (Ezio Coscia, “Provocazioni da… non pubblicare”, IL CRISTIANO n. 9/ottobre 2007).

 

Talvolta, la chiesa assomiglia ad “Argleton, la città che non c’è”. Argleton è una città del Lancashire, in Gran Bretagna. Secondo il Daily Telegraph, questa città esiste solo su Google maps, ma non nella realtà. Tutti la cercano, ma esiste solo in un mondo virtuale, quello di internet. Anche la chiesa rischia talvolta di essere “la chiesa che non c’è”.

Una chiesa scritta nell’insegna fuori della porta. Una chiesa della domenica mattina, puntualità e distrazione permettendo.

Una chiesa vittima dell’individualismo del nostro tempo.

Una chiesa dove manca l’elemento vitale del rapporto personale.

Una chiesa che non ha più niente da dirsi.

Una chiesa che non ansima al pensiero di vedersi.

Una chiesa dove non ci si conosce più.

Una chiesa dove manca persino la comunissima amicizia.

 

Dove sono andate a finire le “molte cose” che Giovanni e Gaio avevano da dirsi?

Dov’è andata a finire quell’attesa gioiosa del momento dell’incontro gli uni con gli altri?

Dov’è andata a finire la ferma volontà di perseguire una comunione reale e personale gli uni con gli altri?

Dov’è andato a finire il mondo ecclesiale, festante e gioioso di Giovanni e Gaio?

C’è un’altra eco che giunge da quel mondo e che ancor di più dovrebbe farci riflettere, ossia l’eco di una fraterna amicizia.

 

 

I fratelli come amici (v. 15)

 

A questo punto è necessario chiederci: chi sono questi “amici” di cui parla Giovanni?

Si potrebbe pensare che fossero dei “fratelli speciali”. Fratelli con i quali c’era più di un legame fraterno. Fratelli coi quali c’era più simpatia o feeling, come si dice oggi, coi quali c’era più comunanza emotiva e di opinioni.

Forse… però bisogna stare attenti, perché questo modo di vedere potrebbe portarci ad una distorsione della comunione fraterna.

Una distorsione che giustificherebbe le preferenze e le “alleanze” tra fratelli: “Tutti siamo fratelli, ma non tutti siamo amici…quindi è giusto preferire un fratello più simpatico”.

Questa linea di pensiero personalmente non mi convince per vari motivi.

 

Anzitutto, fraintende il concetto biblico di fratellanza. Siamo fratelli perché siamo “nati da Dio”, credendo “che Gesù è il Cristo”(1Gv 5:1). In quanto fratelli esiste un legame più forte della simpatia e dell’amicizia. Questo è un legame di sangue, quello di Cristo, che può abbattere “muri di separazione” razziali, quanto quelli tra ebrei e gentili (Ef 2:14, 19). Tanto più quel sangue può abbattere“muri” di ordine caratteriale, culturale ecc…

 

In secondo luogo, fraintende il concetto biblico di amore. L’amore biblico non è un merito che uno si guadagna per simpatia. È piuttosto un “comandamento” (2Gv 6), un dovere che dobbiamo mostrare finanche ai nemici (Mt 5:43-47). Dobbiamo lavare anche i piedi che hanno una taglia diversa dalla nostra. Dobbiamo amare non solo chi ci assomiglia, ma anche chi è “minimo”, cioè meno di noi.

 

È dunque preferibile pensare che “amici” sia usato da Giovanni come sinonimo di fratelli.

Anzitutto perché Giovanni non usa casualmente questo termine, ma c’è dietro un preciso insegnamento di Gesù. Ed il fatto che solo Giovanni riporta questo insegnamento mostra quanto gli fosse caro.

Gesù usa il linguaggio dell’amicizia per illustrare l’amor fraterno:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici (Gv 15:12-13).

Qui le parole “gli uni gli altri” ed “amici” si corrispondono, mostrando che l’amicizia è un aspetto del rapporto fraterno “gli uni gli altri”. Gesù usa il linguaggio dell’amicizia per illustrare anche l’ubbidienza a lui:

Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando” (v. 14). E se ne serve pure per indicare la sua confidenza con loro:

Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (v. 15).

 

Questo termine non ha dunque un carattere esclusivo. Esso illustra cosa sia un rapporto fraterno ed amorevole.

Non esistono, secondo Gesù, fratelli e “fratelli amici”, perché tutti i fratelli dovrebbero essere amici. Forse con alcuni l’amicizia fraterna può riuscire più naturale che con altri. Ci può essere una predisposizione naturale ad andare più d’accordo con alcuni che con altri, ma questo non è un motivo per distinguere fratellanza ed amicizia e fare di conseguenza preferenze e parzialità.

 

Essere fratelli è un tipo di rapporto che non può essere da meno dell’amicizia. Secondo il linguaggio di Gesù non esistono fratelli che non sono amici, perché l’amicizia è un’esempli-
ficazione dell’essere fratelli.
 E c’è da pensare che anche Giovanni usa in questo senso il termine “amici”, cioè come sinonimo di fratelli.

 

Ma è possibile che dei fratelli siano dei “nemici”? Pare proprio di sì!

Diotrefe era uno di questi. Costui, mosso da una insana ambizione, andava “sparlando” contro Giovanni ed i suoi collaboratori “con parole maligne, e non contento di questo, non solo non riceve egli stesso i fratelli, ma a quelli che vorrebbero riceverli, impedisce di farlo, e li caccia fuori dalla chiesa” (3Gv 10).

Ed è probabile che Giovanni impieghi il termine “amici” per prendere le distanze dai “fratelli nemici” come Diotrefe ed i suoi accoliti.

 

Ma a questo punto c’è da chiedersi se questi “nemici” siano dei fratelli e se l’espressione “fratelli nemici” non sia una contraddizione in termini. Giovanni è molto categorico su questo punto:

“In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio; come pure chi non ama suo fratello” (1Gv 3:10). E nel caso specifico di Diotrefe, Giovanni ribadisce questo concetto:

“Chi fa il bene è da Dio; chi fa il male non ha visto Dio” (3Gv 11). Quindi, anche in questo caso limite, il termine “amici” non avrebbe il valore di discriminante tra “fratelli simpatici” e “fratelli meno simpatici” o tra “fratelli amici” e “fratelli soltanto”, madiscriminerebbe solo tra “fratelli” e “falsi fratelli”.

 

Anche qui bisogna riconoscere che la ricerca di una comunione fraterna a nostra immagine e somiglianza è essa pure un prodotto dell’individualismo moderno.

La chiesa moderna rischia di non essere più un’opera dello Spirito Santo, il quale parte dalle diversità esistenti tra “Giudei e Greci, schiavi e liberi… per formare un unico corpo” (1Co 12:13), ma un amalgamarsi di individui con sé compatibili, i quali nutrono le stesse simpatie e gli stessi interessi e guardano con sospetto ogni diversità… anche caratteriale, culturale, ecc… Invece bisognerebbe guardare con sospetto questa comunione senza tensioni e senza scossoni, che pure fanno parte di quella “formazione” che lo Spirito vuol fare di “un unico corpo”.

Se pensiamo che questa “trasformazione” di diversità preesistenti, per giungere a “formare un unico corpo” sia indolore e priva di tensioni, una passeggiata al chiaro di luna, forse abbiamo una visione idealistica della chiesa.

Basta dare uno sguardo alle epistole del Nuovo Testamento per rendersi conto quante tensioni agitavano le chiese e le agiteranno ancora, prima che il Signore la faccia “comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile” (Ef 5:27). Comunque, un fratello diverso da me, per carattere, cultura, età, provenienza ecc… non mi dev’essere meno amico di chi invece mi corrisponde in tutte queste cose, ma piuttosto dev’essere per me uno stimolo ed una sfida a scoprire nuovi orizzonti della comunione fraterna. Sicuramente ho verso di lui lo stesso “debito d’amore” (Ro 13:8) che ho verso tutti gli altri fratelli, anche quelli che impropriamente considero “più amici”.

Questo “debito d’amore” dev’essere pagato con la moneta della pace e dell’interessamento personale, come sembrano indicare le parole finali di questa lettera.

 

“La pace sia con te” (v. 15), è più di un augurio amichevole da attendere in modo passivo ed inerte. Non è solo assenza di guerra o di tensione. Del resto, la “tensione”, ed i conflitti, non necessariamente sono una minaccia alla pace, ma, se gestiti bene, possono essere uno momento di scelta e di crescita.

L’importante è che non diventino un’occasione per dare sfogo alla propria carnalità e cattiveria. Comunque, secondo il concetto ebraico, shalom, non indica solo l’assenza di un male, la guerra appunto, ma anche la presenza di un bene, cioè tutte quelle benedizioni che si accompagnano alla pace.

Laddove Diotrefe, facendo “il male”, creava inimicizia tra i fratelli, Gaio, facendo “il bene”, procacciava pace ed amicizia tra i fratelli per “di più stranieri” (v. 11 cfr. v. 5).

 

La pace è legata alla ricerca attiva del bene. Bisogna essere “procacciatori” di pace (Eb 12:14 – vers. Riveduta).

La pace è il sentiero dell’amicizia, non solo perché non deve mai essere ostruito con “armi” da guerra, ma pure perché dev’essere continuamente percorso con “doni” di pace.

 

“Saluta gli amici a uno a uno” (v. 15), indica l’interessamento personale che deve sussistere in un’amicizia fraterna.

“Uno ad uno” è quel tipo di amore, di amicizia e di fratellanza che deve esistere nella chiesa. Ogni fratello dev’essere per noi una persona speciale, per cui gioire, pregare, oltre che visitare, ospitare ed amare. Anche questo interessamento non è questione di simpatia, ma di ubbidienza al comandamento di amarci gli uni gli altri.

 

Dire “NO” all’individualismo, non vuol dire “NO” all’individualità di ciascuno. La comunione fraterna è fatta di individualità che s’incontrano e fanno festa, malgrado le differenze caratteriali e culturali.

Per intenderci…

bisognerebbe sapere che il fratello è stato all’ospedale, non quando né è uscito, ma quando sta per entrarvi…

bisognerebbe sapere che il fratello è stato due settimane in un letto di malattia, non quando queste sono passate, ma quando sono iniziate o sono in corso…

bisognerebbe conoscere più da vicino quel mondo di sentimenti, gioie, paure e quant’altro si cela dietro quel volto che chiamiamo“fratello”

 

 

Una santa invidia

 

Per trovare l’isola che non c’è un cantautore napoletano cantava qualche tempo fa:

“Seconda stella a destra: questo è il cammino e poi dritto fino al mattino. Non ti puoi sbagliare perché quella è l’isola che non c’è”.

 

Per ritrovare la chiesa che non c’è, credo invece che dobbiamo seguire l’esempio di Giovanni, di Gaio e della loro “amicizia fraterna” e seguire quell’esempio in modo “diritto fino al mattino”, se così sarà, del giorno in cui Cristo ritornerà.

 

“La chiesa c’è” perché Gesù l’ha detto ed ha promesso che “le porte dell’Ades non l’avrebbero potuta vincere” (Mt. 16:18).

 

Ma la domanda è: “Siamo noi quella chiesa? Ne stiamo rispecchiando i caratteri più salienti?”

 

Bisogna dire che il mondo di Giovanni e Gaio era destinato in qualche modo a finire con la morte di Giovanni, l’ultimo degli apostoli, in quanto segnava la fine dell’età apostolica.

Tuttavia, gli apostoli erano portatori di un messaggio più grande di loro, destinato a sopravvivere alla loro morte, “sino alla fine dell’età presente” (Mt 28:20). Ed è questo messaggio, di cui loro erano testimoni, che presentano come la fonte generatrice della vita di questo loro mondo.

 

La loro “comunione” fraterna non era altro che l’estensione di quella “vita che è stata manifestata” e di cui gli apostoli erano“testimoni” e messaggeri (1Gv 1:1-3). Per cui, anche se i testimoni-messaggeri non ci sono più, ci rimane quel messaggio che ha tutt’oggi il potere di ricreare la vita del Signor Gesù in mezzo a noi.

 

Fin qui abbiamo parlato di echi di un mondo perduto. In realtà, non tutto è perduto, perché nel messaggio che gli apostoli ci hanno lasciato abbiamo la chiave di volta che può riaprire quel mondo in qualsiasi tempo.

 

Spero tanto che la lettura e la meditazione di questo brano abbia suscitato in noi quella santa invidia che ci spinga a cercare la porta di quel mondo lì, ed entrarvi.